La porta
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La porta

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

È un rapporto molto conflittuale, fatto di continue rotture e difficili riconciliazioni, a legare la narratrice a Emerenc Szeredás, la donna che la aiuta nelle faccende domestiche. La padrona di casa, una scrittrice inadatta ad affrontare i problemi della vita quotidiana, fatica a capire il rigido moralismo di Emerenc, ne subisce le spesso indecifrabili decisioni, non sa cosa pensare dell'alone di mistero che ne circonda l'esistenza e soprattutto la casa, con quella porta che nessuno può varcare. In un crescendo di rivelazioni scopre che le scelte spesso bizzarre e crudeli, ma sempre assolutamente coerenti dell'anziana donna, affondano in un destino segnato dagli avvenimenti piú drammatici del Novecento. Pubblicato in Ungheria nel 1987, ma in qualche modo disperso negli anni della transizione politica, La porta è il romanzo che ha rivelato la piú grande scrittrice ungherese contemporanea.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806169633
eBook ISBN
9788858400043
Argomento
Literature

Lo sgombro

Credo che quello fu l’istante in cui Emerenc cominciò a volermi davvero bene, senza condizioni, quasi seriamente, come se avesse preso coscienza che l’amore è impegno, passione densa di pericoli e rischi. Quell’anno, nel giorno della Festa della Mamma, apparve all’improvviso la mattina presto nella nostra stanza da letto: mio marito faticò a riemergere dal sonno pesante dei sonniferi, io invece mi destai immediatamente e sgranai gli occhi scorgendo Emerenc inondata dalla fresca luce del sole che entrava dalla finestra aperta, con indosso il vestito della festa, mentre portava con il guinzaglio Viola vicino al mio letto. Il cane aveva in testa un cappello rotondo, nero, gualcito, con una rosa appena colta infilata in un nastro e una ghirlanda di fiori intorno al collo. Da quella volta in poi, a ogni Festa della Mamma, si presentò all’alba con il cane, declamando, a nome di Viola, un festoso ringraziamento:
Grazie mamma della vostra bontà, grazie che mi amate,
Grazie del letto morbido e del cibo che mi date,
Grazie genitori, grazie alla scuola e al mio insegnante,
Dio benedica i campi con un raccolto abbondante.
La poesia, che probabilmente le aveva fatto recitare la maestra elementare in occasione di qualche festa scolastica, un paio di anni dopo la rivoluzione russa del Novecentocinque e un paio di anni prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, veniva ripetuta da Emerenc ogni anno con voce mai sbiadita accanto al nostro letto, mentre Viola cercava di levarsi dalla testa il piccolo cappello arrivato dio solo sa da dove, e naturalmente non gli veniva permesso. Ogni anno la vecchia aggiungeva al poemetto una frase rituale a mo’ di congedo: «Io figliolo, ringrazio di tutto, la rosa che porto sul cappello è per la mia signora». Ogni Festa della Mamma c’era, effettivamente, una rosa sul cappello, al punto che non riesco piú a guardare un cappello nero rotondo senza rivedere nella memoria l’immagine di loro due, Emerenc vestita a festa, il nostro cane con una ghirlanda di fiori intorno al collo e le orecchie schiacciate sotto la falda del cappello. È l’alba, l’aria è profumata, nel castello del principe Barbablú i compiti della giornata sono stati assegnati. Emerenc ha ormai tutta l’eternità a disposizione, ogni alba è sua, con le prime luci del sole e il vapore profumato delle erbe del giardino. Questa cerimonia irritava a tal punto mio marito, che la maggior parte delle volte, la sera prima della Festa della Mamma, non veniva a letto, rimaneva a sonnecchiare sulla poltrona in vestaglia, oppure si infilava nella camera di mia madre chiudendo la porta a chiave: trovava insopportabili quelle visite mattutine mentre si trovava ancora nel letto svestito. In realtà credo gli dispiacesse che Emerenc mi amasse cosí intensamente e lo esternasse con manifestazioni cosí singolari.
Perché Emerenc non mi amava in modo qualunque, mi amava come è scritto nella Bibbia, come avrebbe potuto leggerlo lei stessa se mai ne avesse presa in mano una, o se prima di abbandonare la terza elementare le avessero fatto conoscere meglio gli atti degli apostoli. Emerenc non conosceva il verbo di Paolo, ma lo metteva in atto con la sua vita, e non credo che a parte i quattro pilastri della mia esistenza, i miei genitori, mio marito, Agancs, il mio fratellastro adottivo, ci sia stato qualcun altro che abbia saputo amarmi cosí intensamente e incondizionatamente come lei. Il suo affetto ricordava piuttosto quello di Viola, che s’aggirava nel labirinto dei suoi sentimenti con una passione altrettanto dolente, solo che Viola non apparteneva a me, bensí a lei. Ovunque fosse abbandonava all’improvviso i suoi lavori perché le veniva in mente che potevo avere bisogno di qualcosa, si dava pace soltanto quando s’accertava che non mi mancava nulla, a quel punto se ne andava di nuovo via di corsa, la sera preparava regolarmente i piatti che sapeva avrei mangiato volentieri, talvolta si presentava con strani oggetti, mi portava doni inattesi, immeritati, ingiustificati. Una volta ci fu un grande sgombro nel quartiere, lei girò le strade una dopo l’altra raccogliendo le cose che trovava interessanti o particolari, le lavò, le riparò, le infilò di soppiatto in casa nostra.
Nel paese non c’era ancora l’onda di nostalgia per il modernariato, ma lei collezionava con scelta sicura ciò che in seguito avrebbe acquistato valore: una mattina trovai nella stanza della biblioteca un quadro con la cornice danneggiata che qualche tempo dopo si rivelò di un certo pregio, uno stivale di vernice, un falco imbalsamato abbarbicato a un ramo, un bollitore con stemma principesco, una scatola da trucco un tempo appartenuta a qualche attrice – fu il suo profumo intenso a risvegliarci. L’inizio di giornata apparve subito critico: Viola abbaiava, evidentemente aveva accompagnato Emerenc nel suo giro per le strade a raccogliere oggetti, aveva annusato tutto e poi, una volta rincasati, lei l’aveva rinchiuso nella camera di mia madre per poter allestire, pulire, aggiustare indisturbata la collezione scelta per farci una sorpresa e che comprendeva, tra l’altro, un nano da giardino e la statuetta marrone di un cane leggermente sbreccata. Fu l’agitazione di Viola a buttarci giú dal letto quella mattina, la situazione precipitò perché non fui io a uscire per prima dalla stanza bensí mio marito. L’animale latrava dietro la porta, voleva liberarsi, Emerenc risultava introvabile, aveva disposto i tesori con il tatto che si addice alle persone ben educate. Mio marito, uscendo dalla camera da letto, esplose in una crisi di rabbia: nel suo studio, tappezzato di scaffali con libri dal pavimento al soffitto, c’era il nano da giardino che sogghignava sul tappeto in compagnia dello stivale proprio davanti alla collezione di classici inglesi. Emerenc aveva spinto l’Ulisse in fondo alla libreria per far posto al bollitore con lo stemma nobiliare in cui aveva sistemato dei fiori finti, il falco era appostato sul camino. Mi precipitai fuori dalla stanza appena udii le parole tutt’altro che modulate di mio marito: in vita mia non l’avevo mai sentito gridare cosí forte e nemmeno immaginavo che dietro la sua calma abituale covasse, ibernata, una furia cosí selvaggia. Si chiedeva perché un uomo dovesse essere bruscamente risvegliato nella propria casa, si lanciò in una dissertazione filosofica per concludere che la vita umana è priva di senso se ti ritrovi sul tappeto il sorriso sacrilego di un nano da giardino in compagnia di uno stivale da cavalleria militare con sperone a forma d’ala d’aquila; ma non si limitò alle parole: in preda all’ira, saltò da un oggetto all’altro. Era una mattina terribile, non sapendo da che parte cominciare, cercai invano di spiegare a mio marito che la vecchia si esprimeva in base ai propri gusti: quello che vedeva, doveva credermi, era una manifestazione d’amore, lei esternava i sentimenti piú diversi proprio in quel modo bizzarro, e adeguava le scelte alla propria ottica. Doveva smetterla di correre da un oggetto all’altro e di urlare, avrei rimesso tutto a posto io, era terribile sentirlo cosí! Mio marito uscí di casa precipitosamente, mi fece davvero pena, era la prima volta che lo vedevo cosí furibondo e disorientato, e non accadde mai piú. In seguito mi raccontò, sorridendo con imbarazzo, di aver incontrato Emerenc che scopava la strada e che se l’era filata senza dire una parola quando lei l’aveva salutato sorridendo, come fosse un ragazzino maleducato che, alla sua età, dovrebbe ormai sapere che i saluti si ricambiano con bel garbo, e se non lo fa, bisogna spiegarglielo e prima o poi migliorerà. In generale Emerenc considerava un enigma il nostro rapporto, non capiva perché mi complicassi la vita, ma poiché le cose stavano cosí lei accettava, cosí come io accettavo il fatto che lei non aprisse la porta di casa sua. E se il padrone era fatto a quella maniera, non potevamo farci nulla, si sa che la testa degli uomini non è del tutto a posto.
Tra i vari regali, per altro, uno solo era destinato a lui: all’inizio non lo notai neppure, era un’edizione del Torquato Tasso davvero bella, rilegata in pelle, recuperata in mezzo ai rifiuti, che nascosi velocemente dietro gli altri libri. Degli altri doni, invece, non sapevo proprio che fare, soprattutto del nano da giardino con un grembiule verde stinto, una lanterna e un pompon sulla punta del berretto. Avevo arredato la cucina con un gusto alquanto particolare, stipandola di oggetti ereditati ancora dalla mia bisnonna, c’era davvero di tutto: una cassa per la farina, una macchina per gli gnocchi, un’insaccatrice per salsicce, una stadera, vecchi pesi, un macinino da caffè dell’epoca in cui Peugeot fabbricava soltanto utensili da cucina, considerabile, ormai, un reperto di archeologia industriale; pensai quindi che il nano stesse benissimo nella nicchia vuota sotto il lavandino, poi portai in cucina anche il bollitore d’origini principesche che, come recipiente per il detersivo da pavimenti risultò perfetto, nella scatola porta trucco dell’attrice sistemai invece i miei prodotti di bellezza.
Restava da risolvere il problema del dipinto, dello stivale, del falcone. Per quanto riguardava il falcone confidai in Viola e quando lo liberai dalla stanza di mia madre capii che non era stata una cattiva idea: dopo un paio di minuti rimasero solo brandelli, il cane lo dilaniò a morsi, sperai soltanto che i prodotti usati per l’imbalsamazione non fossero nocivi, ma l’uccello sembrava cosí vecchio che probabilmente i veleni non erano piú tossici, le piume erano cadute per metà, sicuramente qualche roditore aveva già assaggiato parti del corpo, mentre la base di legno si staccò subito. Il quadro rappresentava una giovane donna sulla riva di un oceano che fissava le onde nerastre con un’espressione stralunata e intenzioni funeste; alle sue spalle si scorgevano una villa e un filare di cipressi lungo le rocce che scendevano a picco sul mare: lo tolsi dalla cornice. Inchiodai la tela sul retro della porta della cucina, nel telaio del vetro smerigliato. Sistemai lo stivale contro il muro dell’entrata – non avevamo portaombrelli, pensai che potesse servire allo scopo –, Emerenc l’aveva ripulito con meravigliosa accuratezza. La giovane pazza sulla porta della cucina, il macinino da caffè d’antiquariato insieme alla miriade degli altri oggetti, il nano da giardino sistemato sotto l’acquaio accanto al contenitore della spazzatura su cui spiccava la scritta a lettere gigantesche «Chi ama il proprio marito cucina con lo strutto», e che un tempo aveva abbellito la cucina di mia zia, creavano un effetto di insieme che poteva suscitare negli ospiti di passaggio solo due tipi di reazioni: o uno stupore imbarazzante o una incontenibile crisi di riso, anche perché nella nostra cucina persino i muri avevano un aspetto particolare, la tappezzeria era stata sostituita da tela cerata con disegni di scoiattoli, oche e numerosi galli. In casa nostra passavano parecchi artisti, e i loro occhi erano abituati alla dolce confusione del mondo; da molto tempo avevo rotto i ponti con i miei parenti inciviliti e privi di fantasia, quindi l’unica resistenza temibile era quella di Emerenc, per lei sarebbe stato logico considerare insopportabile la vista della cucina e dell’entrata trasformati in un manicomio, ma fin dall’inizio s’era mossa con gioia tra le quinte di quel teatro privato cosí particolare. Verso gli oggetti strani Emerenc possedeva la stessa sensibilità di un Hauff, di un E. T. A. Hoffmann, amava le cose insolite, considerò un grande evento della sua vita il giorno in cui mi chiese, e ottenne, il vecchio manichino ereditato da mia madre, lo trasportò a casa sua trionfante, come fosse una reliquia; mi lambiccai il cervello, senza sperare di trovare una soluzione, per capire come mai raccogliesse oggetti d’assurda utilità se tanto non apriva a nessuno quell’enigmatica porta, nel frattempo mi sentii vertiginosamente onorata che m’avesse chiesto qualcosa, dal momento che Emerenc, come ho già detto, non accettava mai regali. Piú tardi, molto piú tardi, in uno dei frangenti piú surreali della mia vita, aggirandomi tra le rovine dell’esistenza devastata di Emerenc, scoprii che il manichino senza testa, modellato sulle fattezze dello stupendo corpo di mia madre, conservava l’iconostasi di Emerenc: il fantoccio era finito in giardino, in mezzo all’erba, e prima che fosse cosparso di benzina e gli appiccassero il fuoco, vidi tutti noi appuntati con spilli sulla tela del busto, la famiglia Grossmann, mio marito, Viola, il tenente colonnello, suo nipote, il fornaio, il figlio dell’avvocato, e lei stessa, Emerenc da giovane, con i capelli biondi, luminosi, coperti da una cuffia, con indosso una veste da cameriera e in braccio due bambini di un paio di mesi.
La passione di Emerenc per gli oggetti particolari non era una novità, ma ciò che mi sorprese maggiormente quella mattina fu che li aveva raccolti per me, non per sé. Non osavo mortificarla, non avevo nessuna intenzione di farlo, ma trovare una sistemazione per il cane con le orecchie sbreccate era davvero arduo: costituiva una visione desolante, sembrava l’errore di un dilettante in dissidio con il mondo. Lo nascosi dietro il mortaio, sapevo che se mio marito l’avesse trovato l’avrebbe gettato nell’immondizia, quel cane era davvero eccessivo. Quando Emerenc riapparve, io ero ormai sola, al lavoro, seduta alla mia macchina da scrivere.
– Ha visto che cosa buttano via quegli spreconi? – mi domandò. – Ho preso tutto quel che c’era, non è rimasto nient’altro per gli altri. È contenta?
Come avrei potuto non esserlo, era raro che capitassero mattinate cosí armoniose! Non le risposi, continuai a battere sui tasti della macchina, dalle mie dita nervose sbocciavano embrioni di frasi senza senso. Emerenc fece il giro di tutte le stanze, cercò i posti che avevo assegnato ai suoi oggetti, trovò da ridire sul piccolo nano e il dipinto finiti in cucina – che motivo c’era di nascondere quelle rarità? – per il falcone sbrindellato dette uno scapaccione in testa a Viola, il quale, poveretto, non poté difendersi accusandomi di avergli messo sotto il naso le invitanti spoglie del volatile; per il resto me la cavai relativamente a buon mercato perché la cosa che piú stava a cuore a Emerenc era scoprire dove avevo sistemato il bel cagnolino. Le dissi che l’avevo nascosto, perché era inguardabile: fu a quel punto che si indignò, si piazzò di fronte alla scrivania e mi gridò in faccia:
– Ma allora è proprio una schiava! Non ha il coraggio di pensare con la sua testa? Il padrone non ama gli animali, non li sopporta nemmeno sotto forma di statue, e cosí ha deciso che non li vuole nemmeno lei? Crede che quella conchiglia orribile sopra il secrétaire sia piú bella, non si vergogna a usarla per tenere gli inviti e i biglietti da visita? Il cane no, la conchiglia sí? Me la tolga da davanti agli occhi perché altrimenti la spacco in mille pezzi, mi fa schifo persino toccarla.
Tolse la conchiglia di nautilus, con la base di corallo, che era passata dalla console di Maria Rickl a mia madre dopo la divisione dell’appartamento di Kismester utca, la portò in cucina con aria disgustata, con tutti gli inviti e i biglietti da visita, l’appoggiò accanto ai barattoli del semolino e dello zucchero in polvere e al suo posto piazzò il cane con le orecchie sbreccate. Questo era troppo. Accettavo che Emerenc entrasse e uscisse a suo piacimento dai luoghi e dagli eventi della mia vita, ma non poteva permettersi di decidere il mio arredamento.
– Emerenc, – le dissi con tono insolitamente serio, – mi faccia il piacere di riportare in strada la statuetta o, se le dispiace buttarla via, la rimetta dove l’avevo nascosta, lontano dalla vista. È un oggetto dozzinale, privo di gusto, oltretutto è pure sbreccato, in questo appartamento non può restare, il padrone non è il solo a non sopportarlo, non lo voglio nemmeno io. Quella non è un’opera d’arte, è kitsch.
I suoi occhi luminosi, blu, si voltarono verso di me. Per la prima volta notai in lei interesse, simpatia, attenzione, invece di un manifesto disprezzo.
– Che cos’è il kitsch? – domandò. – Che cosa significa questa parola? Mi spieghi.
Mi scervellai a spiegare le colpe di quel cane innocente, fabbricato in maniera dozzinale con un corpo sproporzionato. Kitsch è un oggetto che ha qualcosa di non vero, che le persone hanno inventato solo per soddisfare un piacere superficiale e modesto, il kitsch è finto, falso, posticcio.
– Questo cane è falso? – chiese indignata. – È una cosa che inganna? Non possiede forse tutto quel che dovrebbe avere, orecchie, zampe, coda? E allora, che mi dice di quella testa di leone in ottone che lei ha sistemato sul secrétaire? Lei l’adora, e l’adorano gli ospiti, tutti quelli che la vedono ci tamburellano sopra come idioti, per sentire se è vuota, ma quel leone non ha neanche la coda, non ha niente, solo la testa, gli ospiti bussano su una specie di armadio dove tenete le vostre carte. Un leone senza corpo non è falso, un cane che ha tutte le cose degli altri cani invece sí? Chi è che qui mente inventandone di tutti i colori? Mi dica pure tranquillamente che non accetta nulla da me e facciamola finita. Non credo che le orecchie guaste siano un problema, prendiamo quella specie di coccio che un suo amico di Atene ha trovato scavando su qualche isola e che lei tiene sotto vetro, mica osa sostenere che quella porcheria nera è intatta? La smetta di mentire, almeno a se stessa, ammetta che ha paura del padrone, questo posso anche capirlo, ma non cerchi di camuffare la sua vigliaccheria inventando la storia del kitsch.
La cosa inquietante era che aveva quasi centrato la verità. Consideravo repellente la statuetta del cane, ma non per questo l’avevo nascosta dietro il mortaio, il vero motivo era un altro, quello che aveva detto lei, cercavo di proteggere mio marito, volevo evitargli altri momenti brutti, a costo di sacrificare l’intero fondo del museo di Herákleion, e cosí m’ero messa a pontificare come un maldestro critico d’arte. Emerenc ascoltò con un sorriso sardonico, poi rovesciò il cane nella sporta che aveva sempre con sé e se ne andò. Uscendo di casa s’accorse dello stivale sistemato nell’ombra accanto al muro dell’entrata, spalancò la porta e mi rovesciò gli ombrelli davanti ai piedi. Era paonazza di rabbia, mi investí di urla.
– È impazzita? Crede forse che una persona sana di mente tenga gli ombrelli in uno stivale? Crede che gliel’abbia portato per questo? Mi prende per un’idiota che non conosce il corretto uso degli oggetti?
Aprí bruscamente un armadio nell’entrata e prese la cassetta degli attrezzi, afferrò un cacciavite, cominciò a trafficare sullo stivale. Mi dava la schiena, rivolta verso la luce, imprecava senza sosta, e per me, che non ero mai stata sgridata nemmeno da bambina, fu un’esperienza insolita – i miei genitori ricorrevano a un modo piú raffinato per punirmi, non mi ferivano con le parole, bensí con il silenzio, perché per una persona è molto piú doloroso sentirsi indegna persino di una parola, di una domanda, di una spiegazione. Emerenc si infilò lo stivale sotto il braccio con l’evidente intenzione di portarlo via, mi sbatté davanti agli occhi lo sperone che aveva svitato.
– Lei è cieca, e stupida, e vigliacca, – disse come facesse un elenco delle mie debolezze. – Solo Dio sa cos’è che amo in lei, e qualunque cosa sia, non se lo merita. Forse quando sarà vecchia le verrà il gusto, e magari anche un po’ di coraggio.
Se ne andò, lasciando lo sperone sul piano del tavolo. Lo presi, mio marito poteva tornare da un momento all’altro, non volevo agitarlo, né suscitare discussioni. Al centro della cresta brillava un riflesso intenso, sanguigno: mi bloccai meravigliata stringendo in mano quell’oggetto lavorato, ossidato di nero, dove qualcuno aveva incastonato un granato. Emerenc, che puliva ogni cosa trovata per strada prima di metterla in casa, l’aveva ovviamente notato, ed era per questa ragione che ci aveva portato lo stivale scompagnato, per la pietra preziosa che aveva scoperto al centro dello sperone d’argento mentre lo strofinava. Se l’avessi consegnato a un orefice avrebbe potuto ricavarne un gioiello, la pietra era magnifica, perfetta. Di fronte a quel granato che baluginava di riflessi rossastri provai, di nuovo, soltanto vergogna: avrei voluto correre per raggiungere la vecchia, ma mi trattenni, pensando che dovevo farle perdere l’abitudine di dimostrare il suo attaccamento nei miei confronti con i metodi piú folli, senza un minimo di disciplina. Oggi, però, ho capito una cosa, che allora ancora ignoravo: una passione non si può esprimere pacatamente, disciplinatamente, morigeratamente, e nessuno può definirne la forma al posto di un altro.
Mio marito tornò con una mazzetta di giornali, la passeggiata gli aveva sbollito l’ira: fu accolto dal silenzio dell’appartamento, esplorò accuratamente ogni angolo per controllare se gli oggetti incriminati erano spariti. Rimase sicuramente sconcertato alla vista della cucina, ma ormai si era calmato, del resto sapeva, da quando ci eravamo trasferiti nella nuova abitazione, che nulla avrebbe potuto guastare o abbellire quella stanza, nemmeno ci fosse stata la balena imbalsamata che...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La porta
  3. La porta
  4. Il contratto
  5. Fratelli di Cristo
  6. Viola
  7. Legami
  8. Lo specchio di Murano
  9. Lo sgombro
  10. Polett
  11. Politica
  12. Nádori-Csabadul
  13. Riprese
  14. L’istante
  15. Digiuno
  16. Sorpresa di Natale
  17. L’intervento
  18. Senza fazzoletto
  19. La premiazione
  20. Amnesia
  21. Sutu
  22. Finale
  23. Eredità
  24. La soluzione
  25. La porta
  26. Il libro
  27. L’autore
  28. Dello stesso autore
  29. Copyright