![]()
Capitolo quattordicesimo
Lo Sghigno aveva appena finito di pisciare dietro la piccola costruzione di tufo e ora stava tornando verso la station wagon. Un intenso profumo di polline invadeva lo spiazzo nudo e circolare, ma non sembrava venire dai mandorli incrociati nel tragitto né dai vicini fili d’erba, perché quell’anno la primavera era un unico corpo femminile che affiorava da un sonno lungo e piatto per tornare subito dopo a inabissarsi – e fino a quando il risveglio non fosse stato completo, sembrava che l’intera pellicola atmosferica venisse pervasa a capriccio da questi odori; i quali, in modo altrettanto imprevedibile, svanivano sulla durezza metallica di una stagione ancora non del tutto consumata.
Se avesse avuto intorno un paesaggio pianeggiante, avrebbe visto le luci in lontananza. Invece sentí i giri di un motore che avanzava con lentezza, e solo quando aveva già la mano tesa verso lo sportello vide i fari puntare verso l’alto e poi abbassarsi nel momento in cui una Fiat Panda di colore rosso imboccava la discesa. Entrò nella station wagon, chiuse lo sportello, sfilò una chiave dal mazzo e aprí la serratura del cruscotto. Attese che la Panda si fermasse. Ritardatari… pensò.
C’erano sempre dei ritardatari, benché ormai chiunque andasse a rifornirsi dallo Sghigno sapeva che dopo le undici lí non c’era piú nessuno: la station wagon imboccava la strada campestre, si immetteva sul lungomare e scompariva nella notte. Ma quella sera sembrava che una rota gigantesca stesse artigliando i tossici di tutta la città. C’era stato un continuo viavai di automobili e motorini e autocarri e poveri sbandati che avevano coperto a piedi chissà quanti chilometri contandosi il denaro tra le mani. Allentò la stretta sulla chiave solo quando sentí spegnersi il motore. Lo sportello della Panda si aprí. Ne venne fuori un ragazzo in giubbotto di jeans che avanzò verso di lui con passo incerto. Lo Sghigno abbassò il finestrino, infilò la mano nel cruscotto per prendere la roba, e solo allora (come un ricordo che nasca dalla linea non ancora spezzata dei secondi immediatamente precedenti) risentí nelle orecchie l’impossibile sfasatura acustica del motore della Panda che si spegneva e poi tornava a spegnersi di nuovo. Alzò la testa. Fece scorrere lo sguardo per l’intero spiazzo fino a quando, alla sommità della salita, vide la nera sagoma di altre due automobili. Erano arrivate a luci spente e adesso bloccavano l’unica via di accesso alla piccola mulattiera che riportava in città.
Era ovvio che non sarebbe mai dovuto rientrare nella station wagon. E bisognava presumere che non sarebbe arrivata nessuna Panda alle undici e mezzo di sera se, due settimane prima, l’avvocato Lombardi non gli avesse dato il benservito. Lo aveva fatto sedere dall’altra parte della scrivania. Aveva intrecciato le mani sull’agenda e aveva detto: «Ti ringrazio». Gli aveva espresso la sua formale riconoscenza per dieci anni di servizio e poi gli aveva comunicato che lo studio Lombardi non aveva piú bisogno di lui. Lo Sghigno aveva annuito. L’avvocato gli aveva teso la mano.
L’incontro si era svolto cosí rapidamente da dargli l’impressione che niente fosse cambiato per davvero: dopo neanche mezz’ora era di nuovo in macchina per il consueto giro di raccolta, fermandosi ai semafori e poi marciando per le strade di una città che – a parte le improvvise folate di caldo – era la solita di sempre. Capiva che essere fuori dallo studio significava rimanere senza protezione. Non riusciva invece a spiegarsi i motivi del licenziamento. Nei giorni successivi aveva continuato a domandarselo, ma quando ripensava alla scena (l’avvocato tornava a intrecciare le mani sull’agenda, lui annuiva, si salutavano…) l’unica stranezza era che, quel giorno, persino Mario Lombardi non sembrava del tutto padrone delle sue parole – come se sguardo e voce e mani in movimento fossero governati da qualcosa di remoto, di inarrestabile. Aveva continuato nei suoi giri e poi, ogni sera, si era addentrato nelle campagne tra il lungomare e Japigia con dieci grammi di eroina nel cruscotto. Temeva che l’interruzione di qualunque abitudine potesse destare dei sospetti.
Quando il ragazzo si affacciò sul finestrino semiaperto e disse: «Un pezzo», il cuore dello Sghigno riuscí a non sussultare. Evitando di guardarlo, si piegò di tre quarti verso il cruscotto. Gli diede le spalle, offrendo la piccola porzione di capelli nerissimi aggrappati tenacemente alla base del collo. Il primo colpo gli trapassò la nuca sfondandogli l’orbita dell’occhio destro. I colpi successivi lo raggiunsero quando lui non c’era piú.
Che qualcosa intorno a noi stesse cambiando, si capiva dall’atmosfera di crepitante nervosismo che attraversava le strade.
Nei primi giorni di aprile, quando già Donatella non era piú dei nostri, a un paio di settimane dal breve periodo durante il quale il silenzio di Japigia venne rotto dalle sirene delle autombulanze, io e Rachele assistemmo alla prima scena di violenza della nostra vita. Eravamo scesi a comprare le sigarette e stavamo tornando verso casa di Santo. Rachele aveva ripreso a indossare i suoi vestiti di cotone e adesso era una vivida testimonianza di bellezza pomeridiana che avanzava nel deserto di via Gentile. Sentimmo un urlo. Quando girammo la testa, il ragazzo in jeans e magliettina azzurra ci aveva già superati correndo sull’altro lato della strada. Da una via laterale sbucò un Vespone a pieno regime. Un secondo scooter prese la curva troppo larga, basculò verso il nostro marciapiede, poi il guidatore diede uno strappo sul manubrio e accelerò fino a rientrare nel tracciato. Sopra ogni moto c’erano due ragazzi. Il fuggiasco deviò sul marciapiede, inciampò nei propri passi, riprese a correre tenendosi sul lato dei palazzi. Una delle moto lo superò da sinistra. Il passeggero di dietro descrisse un mezzo giro con il braccio. La mazza da biliardo che fino a poco prima aveva stretto tra le mani si spaccò. Contemporaneamente, il ragazzo in maglia azzurra cadde schiena a terra. Rimase immobile per qualche istante. Intrecciò le mani sulla testa prima che gli fossero addosso.
Io e Rachele eravamo paralizzati. Uno degli aggressori smise di prendere a calci il ragazzo, alzò la testa guardando nella nostra direzione. Urlò qualcosa. Non c’era nessun altro per la strada. Assurdamente, iniziai a camminare verso di lui. Non sapevo neanch’io cosa avessi intenzione di fare. Gli altri aggressori smisero anche loro di picchiare il ragazzo. Mi guardarono tutti e quattro con aria incredula. A quel punto, seppi di che cosa era fatto il mio coraggio. Una forza piú autorevole della volontà mi bloccò i muscoli delle gambe. Indietreggiai. Non appena il pestaggio fu ripreso, voltai le spalle alla scena e mi misi a correre a gambe levate. Dopo una cinquantina di metri mi ricordai di Rachele. Mi arrestai di colpo. Rachele non c’era. In preda al panico, ripercorsi a passo svelto la strada da cui eravamo venuti. La ritrovai a due isolati di distanza – ferma accanto a un’auto parcheggiata, le braccia verso il basso, lo sguardo intontito. Capii che era fuggita prima di me. Sopraffatti dalla vergogna, evitammo di parlarci per il resto del pomeriggio.
Qualcosa di analogo accadde un paio di sere dopo a casa di Santo Petruzzelli. Intorno alle dieci, sentimmo un rumore di pugni sferrati contro la porta. Santo si diresse verso l’ingresso, seguito da me, da Rachele, e dai pochi curiosi che non erano completamente fatti. Aprí la porta, diede un’occhiata fuori. Dopo che ebbe spinto con forza il pannello in senso opposto, una scarpa da ginnastica si infilò nella fessura. Il proprietario della scarpa disse: «Per favore, Santo, fammi entrare!» Lui continuò a spingere, contrastando il movimento della gamba. La voce ripeté: «Per favore, cazzo, per favore!» Il padrone di casa mollò la presa. Per un attimo vedemmo comparire nell’ingresso un ragazzo magro e riccioluto, in felpa e pantaloni gialli. Ansimava. Santo si strinse la cinta della vestaglia e gli sferrò un calcio nello stomaco. Chiuse definitivamente la porta. Sentimmo i passi del ragazzo dirigersi di corsa verso il piano superiore, seguiti da altri passi e altri passi ancora. Il rumore di un corpo scaraventato dalle scale si fece sempre piú vicino. Santo sorrise: «Fossi in voi, non uscirei di casa per almeno un’ora». Non disse altro. Tornò a sedersi sul divano.
Quella sera, tornato a casa, mi addormentai guardando il telegiornale. L’Unione Sovietica si ritirava dall’Afghanistan e il presidente Gorbačëv si preparava a uno storico incontro col Segretario di Stato Vaticano. Un portavoce della Casa Bianca confessava l’impossibilità di realizzare lo Scudo stellare mentre uno sciopero nei cantieri navali di Danzica metteva in crisi il Partito comunista polacco. Il papa salmodiava: «I bambini che hanno visto la guerra | sono l’unica speranza per la pace». Madonna dichiarava: «Non potrò essere felice fino a quando non diventerò famosa come Dio».
Al mattino, mi risvegliai con la sensazione che il mondo avesse sognato molto piú intensamente di me – piú intensa e piú veloce, una bianca corrente elettrica doppiava tutti i meridiani terrestri per miliardi di volte in una sola notte.
Il padre di Vincenzo disse: «Ascoltami adesso, voglio darti un consiglio…»
Senza togliersi le mani dalle tasche, Vincenzo disse a Giuseppe: «Allora, senti, volevo dirti questa cosa…»
Il cognato di Domenico Rubino chiese a Domenico Rubino: «Ma come? ci andiamo col furgone della Eurogarden?»
I due erano nel magazzino della ditta, in fondo a un lungo corridoio pieno di merce sistemata sui bancali. Il padre di Giuseppe agitò il bicchierino di plastica tenendone i bordi tra le dita. Spense la macchina del caffè. Portò una mano verso l’alto e spense anche l’interruttore della caldaia. Bevve il caffè. Buttò il bicchiere nel cestino e camminò fino al piano metallico del montacarichi. «Il dubbio che non siamo noi non li deve neanche sfiorare», si limitò a rispondere. Ruotò la manopola di plastica a forma di trifoglio. Il pavimento sotto i loro piedi sussultò. Iniziarono a muoversi a singhiozzo verso il basso.
Due grossi tubi al neon ben ancorati sul soffitto sfarfallarono, quindi si accesero uno dopo l’altro rivelando un caveau di forma rettangolare la cui altezza non superava i due metri e mezzo. Una delle pareti era occupata da un armadio di metallo. Il cognato di Domenico disse: «Tex…» Due punte si drizzarono in fondo allo stanzone, dove la luce del neon arrivava a malapena. Domenico Rubino disse: «Bello», battendosi una mano sulla coscia. Il pastore tedesco uscí definitivamente dall’ombra. Era vecchio e appesantito. Arrancò scodinzolando verso i due. Poi si sedette di fronte a loro con la lingua a penzoloni. «Riempi tu le ciotole», disse Domenico.
Quando l’uomo tornò dal padre di Giuseppe, l’armadio era già stato aperto. Al suo interno, un voluminoso borsone di cuoio era a propria volta spalancato su due Berette semiautomatiche M34. Raccolsero le armi e tornarono sul montacarichi. «Aspetta, – disse il padre di Giuseppe, – gli faccio fare un giro». Fischiò la prima e la seconda volta, fino a quando non vennero raggiunti anche dal cane.
Al piano di sopra, recuperò il guinzaglio e due mazzi di chiavi. Attraversarono il corridoio e si chiusero alle spalle la porta scorrevole del magazzino. Sentirono immediatamente il canto degli uccelli. Era una mattinata fredda e luminosa, una sottile nebbiolina azzurra si andava disperdendo per i campi circostanti. Gli altri due uomini fumavano a pochi passi dal furgone. Domenico disse: «Andate pure, io torno a casa con l’altra macchina».
Senza neanche aspettare che mettessero in moto, iniziò a camminare con il cane al guinzaglio. L’uomo e il pastore tedesco seguirono la strada asfaltata fino a quando non iniziò a sfarinarsi curvando verso la campagna. Al di là, si apriva un magnifico uliveto. Sganciò il guinzaglio dal collare e scavalcò il muretto. Il pastore tedesco mugolò. Inclinò la testa e cominciò a scodinzolare. Abbaiò un paio di volte. Infine si decise. Prese una piccola rincorsa e saltò, urtando con le zampe posteriori contro una pietra liscia e appuntita. Un salto penoso, ma ce l’aveva fatta. Domenico gli prese la testa tra le mani, e il cane si liberò orgogliosamente dalla stretta. Si inoltrarono insieme tra i fusti contorti degli ulivi.
Se avesse saputo che il corpo dello Sghigno sarebbe stato ritrovato pochi giorni dopo, steso faccia a terra tra i sedili anteriori della station wagon, si sarebbe fermato a riflettere sulla complessità della situazione. Avrebbe capito che aria tirava, e forse non avrebbe avuto tanta fretta di radunare i collaboratori piú fidati. E se sua moglie non avesse normalmente coltivato delle opinioni sbagliate su tutto, le avrebbe forse dato un po’ di credito quando, appena tornati dalla sala ricevimenti, aveva iniziato a urlare davanti alle casseforti aperte e alle mensole completamente vuote, inveendo contro i ladri senza nome che avevano appena ripulito la villa. E soprattutto… se da un po’ di tempo a questa parte non avesse cominciato per davvero ad alterare i libri contabili (cinquecentomila in meno per ogni milione e mezzo di merce fatturata), allora non si sarebbe convinto con tanta sicurezza che quel furto fosse l’ennesima provocazione, l’ultimo ma non ultimo insulto beffardo di chi era riuscito a fare di un vecchio prestito la sua condanna. Non aveva neanche avuto bisogno di compiere l’inventario a vista degli oggetti rubati come stava facendo sua moglie («Le bambole! hanno preso pure quelle!») Gli era bastato guardare il primo cassetto rivoltato per farsi venire il sangue agli occhi.
Il furore non lo aveva abbandonato nei giorni successivi. Cosí, quando era uscito dal magazzino in compagnia di suo cognato, si poteva dire che fosse passato solo un minuto dal giorno del battesimo. Ed era passato un altro minuto quando, qualche ora dopo, il furgone con la scritta EUROGARDEN si era fermato in via Pasubio di fronte alla sala giochi PLAY AND REPLAY, uno dei pochi esercizi gestiti direttamente da quelli che considerava ormai i suoi nemici. Le lanterne di plastica dell’illuminazione comunale ondeggiavano sopra le loro teste, e la saracinesca abbassata per un quarto testimoniava l’imminente chiusura del locale. Un motorino truccato riempí la strada con il boato di un missile terra aria. Domenico disse a suo cognato: «Allora». Gli altri due uomini rimasero a bordo del furgone.
A parte un ragazzino con le tasche gonfie di spiccioli, impegnato a superare l’ultimo livello di Moon Patrol, nella sala giochi c’era solo il cassiere. Un uomo alto, sbarbato male, gli occhiali a catenella e un brutto maglione di cotone a scacchi verdi e neri. Guardò i due con aria interrogativa fino a quando non gli furono vicini. Il padre di Giuseppe disse in dialetto: «Apri la cassa». L’uomo appoggiò platealmente una mano sulla guancia e urlò al ragazzino di tornarsene a casa. Il ragazzo continuò imperterrito a smanettare sul joystick. Il cassiere sospirò, scosse la testa, tornò a guardare gli uomini tenendo le mani bene in vista sul piccolo tavolo di legno. Si rivolse al padre di Giuseppe e disse: «Non è serata». Domenico rispose: «È tutto regolare…», e gli spiegò che il titolare della sala giochi era venuto senza preavviso a fare una visita a casa sua, quindi lui adesso stava solo ricambiando il favore. «Tutto regolare», ripeté. Sulla faccia del cassiere si disegnò un’espressione di stanchezza. Poi vide la pistola e sembrò ancora piú stanco di prima. Aprí il registratore di cassa e iniziò a rovesciare sul tavolo intere manciate di duecento lire. Il padre di Giuseppe mosse nel vuoto la Beretta, spostandola da sinistra verso destra. Il cassiere sollevò lentamente il coperchio di plastica. Gli occhi del cognato di Domenico vennero attraversati da un lampo di paura, la mano destra si ritrovò a muoversi alla cieca lungo la cinta dei pantaloni. Ma l’uomo stava solo prendendo le banconote dal sottocassa. Tirò fuori le mazzette. Le impilò una sull’altra nel poco spazio disponibile. Il padre di Giuseppe disse: «Basta cosí». Si rinfilò la pistola nei pantaloni, raccolse dal tavolo duecento lire e – con un gesto che lui stesso non aveva previsto fino a quel momento – le mostrò al cassiere alzando la monetina tra pollice e indice fino a quando scintillò sotto la luce artificiale: «Di’ al titolare che con questa siamo a posto. Non mi deve niente lui, non gli devo niente io». Il cassiere restò zitto. Seguí con lo sguardo i due uomini mentre tornavano verso l’uscita, attraverso la quale era ben visibile la fiancata del furgone. Quando anche quest’ultimo scomparve, iniziò a fare ordine. Rimise le banconote a posto. Sistemò pazientemente gli spiccioli nelle scanalature di plastica. Infine, chiuse a chiave il registratore di cassa. Non sembrava sollevato né arrabbiato né spaventato né niente. Raccolse il giubbotto di pelle dall’attaccapanni. Aprí uno sportello incassato nel muro e tirò giú una leva di plastica. Dal fondo della sala, il ragazzino urlò: «Eccheccazzo!»
Tre settimane dopo, gli avevano incendiato il magazzino. Tubi, condotte idrauliche, elettropompe… centinaia di milioni di merce completamente in fumo. Il vano dei gocciolatoi trasformato in un’opera d’arte contemporanea. Il cane, morto asfissiato nel caveau. Sarebbe finita molto peggio. Sarebbero venuti a regolare i conti di persona se, prima di maggio, il residuo di un colossale movimento tellurico con epicentro a est non li avesse trascinati in galera tutti quanti. Quando il fratello di sua moglie gli telefonò tutto agitato urlando: «Il magazzino!», non ebbe neanche il tempo di pensarci, perché (uno schianto dopo l’altro) stava ancora cercando di dare un senso alle immagini di suo figlio trasportato d’urgenza nel reparto rianimazione del Policlinico di Bari. Soltanto dopo qualche giorno riuscí a pensare con la dovuta calma che, se solo non fosse entrato come un cowboy in sala giochi, a quel punto – abbattuti i suoi nemici da una forza superiore – sarebbe stato un uomo libero.
A metà marzo licenzia lo Sghigno. A fine mese legge della sua morte su un quotidiano locale. Ma quando febbraio è già finito eppure persiste magicamente nella casella a scomparsa di ogni anno bisestile, sta ancora domandando al suo interlocutore: «Sei sicuro?»
L’uomo rispose: «Sicuro come il fatto che il prossimo 29 febbraio di questo qua non sapremo piú che farcene». Chiuse l’atlante che li aveva divisi da un lato all’altro della scrivania e si spinse con la schiena contro la spalliera della sedia. Poi aggiunse: «Mario, dico davvero: liberati di loro. Già adesso valgono la metà. Fra poco saranno pesi morti».
Era un uomo bello, alto e robusto, il fisico da giocatore di rugby alleggerito da un elegante completo mistoseta. La testa grossa e i capelli corti e un paio d’occhiali con una ricercata montatura nera comunicavano una pretenziosità che in luoghi meno provinciali avrebbe solo suggerito l’idea di un uomo che sa sempre dove portarti al ristorante. Era piú giovane dell’avvocato Lombardi di qualche anno, ed era entrato nello studio alle tre del pomeriggio. Adesso erano le cinque. Quando luomo aprí il repertorio geografico e cominciò a tracciare a matita delle curve sulla porosa grammatura delle pagine, il padre di Vincenzo chiamò la segretaria e disse: «Chiunque dovesse cercarmi, non ci sono».
Si erano conosciuti all’inizio del decennio, e avevano preso l’abitudine di vedersi un paio di volte l’anno per fare il punto della situazione. Sapevano tutto l’uno dell’altro grazie a semplici dicerie la cui veridicità non veniva mai smentita, come se mostrarsi scoperti sulla base di fonti non verificabili fosse l’unico sistema per stringere un’amicizia durevole e sincera. Il padre di Vincenzo non aveva mai assistito legalmente questo suo visitatore, e aveva sempre respinto la tentazione di lasciarsi coinvolgere in uno dei tanti affari che portavano l’uomo ad aggiornare di continuo l’orologio a seconda del paese che lo accoglieva al suo risveglio in una camera d’albergo. Anche questa era una garanzia: non avendo interessi in comune, non c’era mai bisogno di mentirsi.
Riempivano i bicchieri con due dita di cognac. Si davano un ragguaglio sulle rispettive situazioni famigliari e poi iniziavano a parlare a briglia sciolta. Ognuno informava l’altro su situazioni e persone ben precise, il che causava dei piccoli aggiustamenti di tiro – l’avvocato decideva di mollare una causa o si dava da fare per ottenerne il patrocinio; il suo amico puntava un po’ di soldi su quello che Mario Lombardi definiva di volta in volta il nuovo cavallo vincente dell’imprenditoria locale.
Ma adesso, esauriti i convenevoli, l’uomo gli aveva consigliato di dare un taglio netto. «Carmelo Terlizzi, Savino Menolascina, Vito Lopez, Dante Rutigliano…» Continuò a fare i nomi prendendoli da una piccola ma non indifferente quota di clienti che l’avvocato aveva assistito negli ultimi anni. Il padre di Vincenzo sghignazzò: «Guarda che da soli fanno un terzo dell’incasso di tutta la baracca. E poi non sono tipi da farsi mollare su due piedi». L’uomo finse di non aver sentito: «Comincia a levarti dalle palle quel troglodita dell’autista, – disse, – poi, guarda… senza nemmeno il bisogno di convocarli, spedisci una raccomandata per ciascuno e rinuncia al patrocinio». L’avvocato si fece serio. L’uomo si aggiustò gli occhiali sulle pinne del naso: «Ti sto solo evitando un sacco di rotture. Ti dico che tempo cinque mesi, forse anche meno, e tutta questa gente non conterà piú niente. Chi non sarà finito in galera avrà al massimo l’ambizione di aprirsi una bella pizzeria». Il padre di Vincenzo bevve un sorso dal bicchiere: «Non mi risulta che un’indagine…» L’uomo lo interruppe: «Un’indagine? Forse non hai capito. Stanno per essere travolti da qualcosa di infinitamente piú grande». Si corresse: «Stiamo per essere travolti». Fece una pausa. Aggiunse: «Ma non capisci cosa sta per succedere?»
Fu allora che si alzò, raggiunse la libreria, sfilò il grosso atlante delle edizioni Treccani e tornò a sedersi di fronte all’avvocato. Spalancò il volume e ne sfogliò rapidamente le pagine...