Milano è una selva oscura
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Milano è una selva oscura

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Milano è una selva oscura

Informazioni su questo libro

«Che mi domando e dico: cos'ho mai fatto nella mia vita, oltre a scappare? Il Dante sorride tra sé mentre prova a rispondere... Ché se la vita la fosse un catalogo, potrebbe scriverci: andato in guerra, dato lezioni, emigrato, sposato, diventato padre, ammalato, confinato, letto libri, scritto quatter patanflànn di poesie, viaggiato di notte su un camion per un sacco di riso e una tolla di latte condensato da portare alla Milena, urlato per i bombardamenti, gridato d'allegria nel sole di aprile, venduto libri, perduto il lavoro, finito sotto processo, ben pistaa in la pirotta, camminato... Insomma, una lista lunga, e non sempre di faccende volgari».
Ma di tutto questo nella borsa «degli Avanzi» che porta a tracolla restano solo poveri «barlafüs», destinati a finire insieme al Dante «in pasto ai vermi - ipotesi umile - o ai corvi - ipotesi romantica - o agli avvoltoi - ipotesi eroica - o ai piccioni - ipotesi terratèrra».
Il Dante si sente diverso dalle altre lingére, che per paura e vergogna non amano mostrarsi e si rintanano nei loro cantucci. A fargli mantenere la testa alta è la cultura di cui nella sua famiglia adottiva si è nutrito fin da piccolo: non ha mai chiesto l'elemosina, e non frequenta neppure il refettorio della San Vincenzo; da quelle «dame del biscottino» «non ci va non ci va non ci va», perché dovrebbe in cambio fare il segno della croce. «Mangià e bev in santa libertà, diga chi voer, l'è on gust cont i barbìs», scriveva il Porta. Parole sante, secondo il Dante, ché anche il primo dei poeti milanesi «l'era della razza dei poerìtt ma gnücch».
Lui preferisce accettare quello che la gente gli offre in cambio di un calembour, di una storia ben raccontata o della recita di una poesia. E sa star bene con gli amici, con cui spartire le cicche e un po' di grappa. Intanto rimescola tra sé e sé riflessioni sul mondo, filastrocche, citazioni, frammenti di ricordi o forse di sogni: «memorie che si somministra da solo col gusto di chi fa un solitario...»
Fino a quando il suo destino non si compie nel «punto preciso in cui poggiare l'orecchio per terra di modo da sentire battere il polso della città».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806199951
eBook ISBN
9788858403730

Primavera

Ecco i mee Sciori la Primavera. Consolevv o inamoraa che questa la ve darà manch fastidi a passeggià sú, e giò della cà di vost sgarzoritt, e per i straa pussee bei, e per l’aria pú dolza, e per el dí, che se noo l’è pú long della nocc, l’è almanch compagn. Vicc consolevv, ch’avii passaa ona gran borasca […] Piangii Lotirœu perchè con pú se scurta la nocc se fà men sogn; per conseguenza on motivv men de giugà al lott.
CARLO PORTA, El lava piatt del Meneghin ch’è mort.
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Allegro

La viacrucis dei poveri cristi ha parecchie stazioni, prima fra tutte la Centrale con le sue scale, gallerie, atri, balconate, mascheroni assiro-milanesi. È qui che il Dante si sveglia accapponato dai brividi. Le altissime volte della navata centrale già rimbombano di una voce sgraziata e nasale che annuncia i primi arrivi dei «treni del sonno» carichi di pendolari, e risuona come un grido incazzoso:
Muovetevi, pelandroni, ché di soli se ne son già alzati tre.
Il Dante si mette in piedi banfando. Una zaffata di odore di vomito di cui ieri sera, quando si è buttato a dormire sul cartone, non si era accorto… Il Pacciascigôll sputa sulla mano e, a mo’ di pettine, si passa le dita tra i capelli per ravviarseli. Il Scisciatètt invece dorme ancora della grossa, deve aver fatto il pieno stanotte: russa cosí rumorosamente che perfino qualche viaggiatore – di quelli che, traversando in fretta il corridoio, normalmente fingono di non vedere i senzatetto sdraiati sul pavimento – getta un’occhiata a quel fagotto da cui spuntano due piedoni sporchi a malapena ricoperti da scalfarotti sforacchiati; qualcuno stanotte gli ha sgraffignato le scarpe… Ché qui a Barbonia City – come molti hanno ribattezzato la Centrale – la notte bisognerebbe sempre dormire con un occhio solo: ne girano tanti di ladri.
Sospirando, il Dante ripiega in quattro i cartoni che gli hanno offerto un precario riparo dal freddo notturno, li lega con uno spago che leva dalla tasca dei calzoni. Nasconde l’involto dietro una colonna di un corridoio che lui e gli altri barboni chiamano «el colombàri»; magari una di queste sere potrà riservire. Poi, con un gesto meccanico, spazzetta con il palmo le maniche della sua poragiacca in ansiosa attesa di palingenesi: ne cade un po’ di polvere. Infine si calca il cappello sulla nuca e afferra l’ombrello sopra il quale ha dormito a scanso di manine grattarole.
Un giretto alla galleria dei treni. La spuzza di creolina lo guida a un usciolo semiaperto. Pubblico mingitorio. On còrp san ’l pissa come on can. Mentre si dà una scrollatina, gli torna in mente una barzelletta di quand’era ragazzo:
Un treno arriva in stazione. Un bambino e una bambina, fratello e sorella, sono seduti in uno scompartimento l’uno di fronte all’altra, dal lato in cui il finestrino permette di vedere il marciapiedi lungo il quale il treno si è fermato.
Il maschietto dice:
To’, siamo a Donne!
La sorella ribatte:
Bamba, non vedi che siamo a Uomini!?
Barzellette che erano la specialità di una cugina che chiamavamo «la casta Susanna». Ma come facevamo a ridere par ona bambalada inscí? Certo che eravamo veramente dei matòcch di boccabuona.
Poi una lavatina. Che sollievo l’acqua fresca dopo il sudiciume della notte. Il Dante si accomoda la cravatta bisunta davanti allo specchio del bagno pubblico e tira fuori di tasca un pettinino un po’ sdentato con cui dà una veloce passata alla barba. Allora sono a posto, presentabile al gran mondo?
Sul fà di donn che innanz d’andà in tiatter
consulten specc, sart, serva e perucchee
né se mœuven de cà fin che sti quatter
no han dezis de conzert ch’hin bej assee,
inscí anca mí par no ris’cià on scarpiatter
preghi el Poetta a squadramm de capp a pee
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par dezid se da sgiunsg son assee franch
fina alla prima ventalina almanch…
Pronto per un giro tra i binari. A passi lenti fino all’ultimo, dove scintillano i fregi d’oro della Reale, sala d’attesa riservata alla famiglia del Savoiardo. Dietro i vetri si intravedono marmi gialli, verdi e rosati, passatoie rosse, poltrone ricoperte di velluto.
Il mattino ha la brioche in bocca: una ventata gli porta alle narici una fragranza di caffè e di cornetti caldi che lo fa quasi tremare; ché negli ultimi tempi l’olfatto è diventato per il Dante la percezione dominante e privilegiata, quasi il concentrato di tutta la sua sensualità d’antan. Si lascia cadere su una panca di cemento similmarmo, spossato dal languore della fame. Passano un capotreno e un bigliettaio, scuri in volto:
Ma varda tí se mi doveva capitare, proprio a me, la rogna di sto democristianone. L’ho cattato che si puliva le scarpe nella coperta di lana della cuccetta e, sacranôn, ho dovuto fargli la multa. Regolamento è regolamento, o no? E lui allora si mette a sbragiare che «lei non sa chi sono io!», che «io la faccio licenziare!»... Onorevole del menga!
Al Dante viene in mente quella volta – era durante la guerra? – che venne qui in stazione ad accompagnar sua figlia: la Milena partiva in treno per un soggiorno alla bell’aria organizzato dalla municipalità. Lui era rimasto sulla banchina a guardarla da sotto il finestrino, con in bocca un mucchio di raccomandazioni: fa’ la brava, ce l’hai la bottiglia di gazzosa, le caramelle sono nella tasca del golfino, sta’ attenta a non perdere il borsellino... D’imprevista una fanfara in testa al treno: passava un federalone in alta uniforme, il braccio teso nel saluto, tra un agitarsi di fazzoletti...
Con mani malferme il Dante estrae dalla tasca la prima cicca della giornata e se la porta alla bocca. Chiede del fuoco a un ferroviere – capelli biondicci a chierica, la bandierina rossa arrotolata sotto l’ascella – che si ferma e gli fa accendere. Una fumatina in santa pace; e se non passa qualche guardia severa, la si può passare liscia ancora per un po’ su questa panca, come in terra di nessuno. Ché per la maggior parte dei vagabondi il problema è passare le ore di luce senza mettersi troppo in mostra, senza scandalizzare l’ipocrita decenza della gente comune. L’alternativa, in questa prima parte del mattino, potrebbe essere una chiesa, un banco in fondo, magari in una cappella un po’ in ombra. Mica per zelo mistico, neh. Solo per il vantaggiuzzo di continuare a dormicchiare tranquilli ancora un’oretta. Ma al Dante ruga l’idea di dovere, in cambio del riparo, sopportare i belati dell’armonium e l’alito bigottesco delle donne Prassedi di turno, rabbiosamente in fregola contro l’inoccultabile sbadigliare dei barboni, quasi si trattasse di diavoloni in corna e pelo. Ché risente nell’orecchio la voce di quella baciapile di sua zia Netta, quando da bambino gli contava le storie dell’Antico Testamento. Un Natale gli aveva regalato, se la ricorda ancora, una Bibbia illustrata con la copertina di tela rossa: lui non sapeva ancora leggere, si limitava a guardarne le figure, mentre sozía narrava con voce ispirata:
C’era una volta un figliol prodigo, on strasôn che gh’aveva le mani sbusaa e l’ha pacciaa fœura tutta la sôa roba...
Era una storia che metteva in agitazione il Dante bambino: lo stupiva l’illustrazione in cui si vedevano due persone, entrambe vestite di un camicione lungo fino ai piedi, che si correvano incontro e si abbracciavano strette; e allora lui chiedeva insistentemente alla Netta se era proprio sicura che quelli fossero i due protagonisti della storia. Ché la sua perplessità nasceva dalle lunghe palandrane: per il padre era forse comprensibile perché magari stava dormendo, ma che il figlio viaggiasse per il mondo in camicione da notte non gli quadrava proprio. E alle assicurazioni di sozía che a quei tempi là ci si vestiva cosí anche di giorno, lui non restava del tutto convinto. E poi c’era l’altro interrogativo, ancora piú conturbante: ma la mamma dov’era? perché non era andata incontro al figliol prodigo che era stato via da casa per tanto tempo?... Però, nonostante il suo domandare, non era mai riuscito a sapere perché la mamma non comparisse nelle illustrazioni di quella storia.
La Netta tagliava corto:
Era in cucina a preparare il pranzo.
Però il Dante non ci aveva mai creduto: con una fitta al cuore sentiva, anzi era certo, che la madre non aveva mai perdonato al figlio di aver scelto la strada... E ci avevo ragione, la mè gent: chi dà le dimissioni dalla maniera di vivere comune, le balle che poi trova braccia verte e vitèll ingrassaa par gibilà tücc insèmma... Il Dante pensa con amarezza alle vicende dei barboni che conosce: gente come lo Snasato che, marchiato dalla galera, non l’ha voluto piú nessuno; oppure la Cagabiccér che, a settantacinque anni, borbotta tra sé e a volte perfino litiga con un invisibile genero cœur-de-tigre; il Bandera che, finito in ospedale a cercare di farsi disintossicare dall’alcol, al ritorno ha trovato sul pianerottolo la valigia con la sôa roba; il Lengualonga che non ci ha piú la testa dopo che la moglie e il figlio sono morti in un incidente d’auto. Disoccupazione, disaccordi coi parenti, abbandoni, disagio di vivere: sono tanti i motivi che buttano la gente per strada. La ruota del destino cigola, questione di un attimo – io non so ben ridir com’io v’entrai – e si diventa barboni, dopodiché non c’è possibilità di ritorno al mondo di prima. È come se tu fossi morto, pensa il Dante: uscito dalla storia, da tutte le storie; refrattario, naufrago per sempre, fuori dalla logica comune di chi truscia ancora per guadagnare, calcolare, spendere con avvedutezza, ammassare roba, voler primeggiare. Ché la vita normale, vista dalla strada, appare come una serie di illusioni.
Però forse non è solo questione che gli altri, quelli che hanno continuato senza scosse la loro vita di sempre, non sanno perdonare. Forse anche tu da un certo punto in poi non sei piú buono di tornare indree. Come se tu fossi passato attraverso uno specchio e finito in un mondo all’incontrario. Perlomeno per il Dante è stato cosí. Ché chi entra nell’oscura città di Barbonia si smarrisce: succede come agli emigrati che non son piú capaci di trovare la via di casa; oppure a quegli esploratori che non riescono a riacclimatarsi all’Europa, perché per decenni hanno assunto le usanze e perfino la lingua delle tribú selvagge a cui si sono assimilati.
E, se questa è la sorte, allora non resta che cercarsi un angolino in cui nascondersi – un giardinetto, una struttura abbandonata, un sotterraneo della stazione, la recinzione di un mercato coperto, il disotto di un camion posteggiato, una vecchia automobile abbandonata in un prato; insomma, una rattatòja qualsisía – e una maniera per arrangiarsi. C’è chi allunga la mano per mendicare, chi si mette in coda per ricevere un cazzü di zuppa e un paio di scarpe dai frati, chi fruga nei bidoni della spazzatura: a ciascuno il suo stile. Comunque, per la piú parte, i senzatetto durante il giorno circolano poco, li vedi scantonare con aria furtiva, la testa sbassata; in genere non si mettono in mostra, come se non amassero la luce: è la paura a farli rimanere rintanati nel proprio cantuccio. La paura mescolata alla vergogna: ecco l’elitropia che li rende invisibili. Il Dante sospira. Si rende conto di essere diverso: lui non ha ritegno a mostrarsi, non teme neppure il confronto o il battibecco con la gente normale. Ché a fargli mantenere la testa alta è la cultura di cui nella sua famiglia adottiva si è nutrito fin da piccolo: non si sente inferiore, semplicemente non ha nessuno a cui rendere conto; non ha mai chiesto l’elemosina, ma accetta quello che la gente gli offre in cambio di un calembour, di una storia ben raccontata o della recita di una poesia. Quasi che, a questo punto, per lui la vita consistesse semplicemente in un compensativo ricevere. Come, presempio, il bicchierino di caffè macchiato che un ferroviere – quello che poco fa gli ha acceso la sigaretta – è tornato a portargli; insieme a dusént franch. Il Dante, piacevolmente sorpreso, accenna un piccolo inchino di ringraziamento; la mano sul cuore. Non lo beve d’un fiato, ma a piccoli sorsi, godendoselo. Questo sí che è un buon inizio di giornata.
La stazione si va riempiendo di viaggiatori: i frettolosi, i distratti, i rumorosi, i brancolanti sonnolenti, i garruli in vena di saluti e sbaciucchiamenti, i consumatori di chewing-gum e di giornali. Sí, gent de la fadíga doverosa, che portate in giro da anni la vostra faccia spenta e murata, correte a sgobbà per la pagnotta. Arbeit macht frei... Basta. È ora di alzarsi dalla panchina. Prendere le scale mobili per scendere. Affacciarsi alla piazza.
Tira brutto tempo: ciel faa a pancòtt, piœuv el dí se ’l piœuv nò de nott. Goccioloni. Il Dante sbassa le ali del vecchio cappello; gli occhi brillanti e un sorrisetto di sfida all’inclemenza del cielo. Ché bisogna rimettere in moto la carretta. Però ’dasi ’dasi. Adelante, con juicio! a ombrello aperto, ché è un maggio molle, con un sole non ancora svezzato. Solo Talete Milesio, specialista in umidità, si troverebbe a suo agio in cotal giro di lune. Eppure quando il Dante era bambino, a quest’epoca già si sentiva il verso del cuculo:
Al cinque di maggio, il cucco ha il suo paraggio;
se il cucú non viene ai dieci, gli è perso per le siepi;
se il cucú non viene ai trenta,
l’è finii nella polenta.
Nella tasca le due monete da cento díndano che è un piacere. Una vera ricchezza. E se ne usasse una per un giretto in centro? Potrebbe fare un salto dal Parafina: è tanto che insieme non fanno una bella ciciarada con tutti i sentimenti.
Detto fatto. Biglietto, timbro, ghignetto ai controllori, scale mobili, banchina, treno che arriva rombando. Nel vagone si mette in un angolino in fondo. Buffo, gli altri voltano la testa dall’altra parte, fingono di non vederlo, quasi che un’occhiata valesse come una strusciata contaminante. Lui invece pianta gli occhi addosso alla gente: gli è sempre piaciuto osservare chi gli sta intorno e, da quando fa il barbone, è diventato il suo passatempo preferito, che lui chiama «farsi un film»: il lampo di un destino su cui fantasticare. Ché in ciascuno dei passeggeri – il cinquantenne corpulento con le maniche alla Menelík, cortissime ai polsi, e le cosce grasse strette nei jeans; l’impiegata con la ruga nella fronte cosí netta che pare una cicatrice; la studentessa che arriccia il nasino di topo sotto gli occhialini da saputella; il pensionato con le bretelle che gli tirano su i pantaloni a mezza schiena tanto da farlo sembrare appeso a un gancio; il ragazzetto foruncoloso che dà l’impressione di essere diventato grande solo da poche ore; i due barbudos con il loden che duettano di politica come se fossero in una bolla d’aria che li isola dagli altri – il Dante si diverte a individuare le smorfie che l’anima disegna sui visi, i gesti abituali che si fissano in tratti del corpo: gli sembra che rivelino indizi sul passato delle persone, le paure e i desideri che covano, un’infanzia non finita, i segni di una malattia. Guarda le facce illuminate dalle lampadine spettrali della sotterranea e gli pirlano per la testa biografie possibili. Ma la cosa che lo fascina maggiormente è il fatto che si tratta di sconosciuti che probabilmente non incontrerà mai piú per tutta la vita: visi che per lui nascono e muoiono nello stesso attimo... Mentreché loro, niente: gnanca mi guardano in faccia, le pupille fisse nel vuoto. Pelabròcch! Che ’l sapientíssen e parfònd cervèll de Quèll che sta dessôra ai tecc gli regali lo zufoletto!
Cambio di linea a Loreto. Un lungo corridoio. Varda chi c’è! il Dadà... Da un bel pezzo al Dante non capitava di incrociarlo. Cosa ci farà quaggiú? Ché il Dadà è alcolizzato e nano. Una specie di Ollio rimpicciolito da uno stregone o da un alchimista. Un viso grottesco che ispira repulsione la prima volta che lo si vede: la zucca di capelli corti un’unghia, il collo incassato tra le spalle come quello di uno scimpanzé; e poi un corpo a palla, le braccia sproporzionatamente lunghe, la camminata a ballonzoni su gambette da cane. Deve avere una quarantina d’anni, ma non sa parlare: dalla sua bocca escono soltanto dei balbettii, da-dà da-dà. Come sopravviva, non lo sa nessuno. Il Dante infatti non l’ha mai visto accostarsi agli altri barboni; probabilmente non ha mai conosciuto la donna; e se qualcuno gli si avvicina troppo, sembra ringhiare: diffida di tutti, quelli che lo prendono in giro per il suo aspetto da mostricino, quelli che gli offrono da bere per ubriacarlo e rubargli i pochi spiccioli che tien nascosti nelle mutande.
Mentre aspetta che le porte del nuovo treno si chiudano, ha il tempo di vedere il Dadà trotterellare lungo la banchina sull’infamia delle sue gambette gnome, accostarsi a una parete e cominciare a sfregarcisi contro, furiosamente, lanciando urla. Probabilmente è tormentato dai suoi inquilini, pidocchi e pulci, generazioni e generazioni che su di lui sono nate e si sono riprodotte. O forse, pensa il Dante, se ho capii nò Roma per toma, il Dadà sta cercando di reclamare alla parete indolente il calore che la vita gli ha negato da quando era uno spermatozoo difettoso non ancora concepito... Qualche passeggero si tira indietro schifato. Una sciôra, stizzosa ’me ’na passera biotta, la mètt giò on spuèll, tanto che accorrono due sorveglianti che si buttano sul Dadà. Perché nel teatrino della normalità, se qualcuno lancia un grido di disperazione, bisogna subito ripristinare l’ordine turbato.
La parola «addio» afferrata al volo, leggera ’me un buff, mentre sale le scale della metropolitana. Perché certe parole sono cosí speciali, cosí misteriosamente dense? Come amore, cenere, perdita, mai piú...
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Al Cordusio la pioggia ha una consistenza che promette di durare tutto il dí, chissà fino a domani. Tram affollati, un rebelòtt di auto. Lo stridere di pneumatici sull’asfalto bagnato. Tombini intasati di tutto lo stronzame di Milano.
Verso il Castello, davanti a una libreria. Copertine di plastica colorata, autori stranieri, il banale che galoppa, quella parola «best seller» che adesso è di moda. O secolo ignorant...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Inverno
  5. Primavera
  6. Estate
  7. Autunno
  8. Tre noticine