La freccia del tempo
eBook - ePub

La freccia del tempo

o La natura dell'offesa

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

La freccia del tempo

o La natura dell'offesa

Informazioni su questo libro

In questa storia raccontata a ritroso, la vita di un criminale di guerra nazista, il dottor Tod T. Friendly, viene narrata a partire dalla sua conclusione, procedendo all'indietro verso l'inizio. Cosí il dottor Friendly muore e in seguito si sente significativamente meglio, rompe con le sue amanti con un gesto che prelude alla loro seduzione; inoltre fa scempio dei propri pazienti prima di mandarli a casa.
Fuggendo dal corpo del medico morente, che aveva lavorato come complice dei nazisti nei campi di concentramento, la coscienza del dottor Friendly inizia a vivere la sua vita dal fondo, consapevole soltanto che quella che sta vivendo è la vita di un uomo orribile in un tempo tremendo.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a La freccia del tempo di Martin Amis, Ettore Capriolo in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806199142
eBook ISBN
9788858404027

Parte prima

1.

Ciò che va via torna indietro

Mi feci avanti, dal piú buio dei sonni, e mi trovai circondato da medici – medici americani: sentii il loro vigore, tenuto a stento sotto controllo, come la sovrabbondanza dei loro peli corporei; e il tocco ostile delle loro mani ostili – mani di medico, cosí forti, cosí pulite, cosí aromatiche. Benché la mia paralisi fosse pressoché completa, scoprii che ero in grado di muovere gli occhi. O almeno i miei occhi si muovevano. I medici sembravano approfittare della mia immobilità. Intuii che stavano discutendo il mio caso, ma anche altri argomenti relativi al loro abbondante tempo libero: hobby e via dicendo. E mi venne un’idea, sorprendente per fluidità e sicurezza, pienamente formata, pienamente definita: come odio i medici. Qualsiasi medico. Ogni medico. Pensate alla storiella ebraica della vecchia signora che corre sconvolta sulla spiaggia: «Aiuto! Mio figlio medico sta annegando». Divertente, direi. Il suo orgoglio, voglio dire, è divertente: è piú grande del suo amore. Ma perché l’orgoglio per i figli medici (perché non la vergogna, perché non un terrore incredulo?); intimi dei bacilli e delle trichine, dei traumi e delle necrosi, con il loro disgustoso vocabolario e il loro disgustoso arredamento (l’insanguinata pettorina di gomma appesa al suo gancio). Sono i portieri della vita. Ma perché un uomo deve voler essere questo?
I medici intorno al mio letto indossavano, ovviamente, gli abiti del tempo libero; emanavano un’aria di abbronzata compostezza unita a quell’unanimità che deriva dalla sicurezza del numero. Considerata la mia situazione, avrei potuto giudicare offensivi i loro modi indifferenti. Mi rassicurava tuttavia l’insulsaggine stessa di questi medici o fanatici del jogging o culturisti, di questi esperti in vigore – qualcosa che aveva a che fare con il loro austero perseguimento della vita comoda. La vita comoda, se non altro, è meglio della vita scomoda. Comprende la pratica del surfing, per esempio, e piacevoli accordi per operazioni a termine, e il tiro con l’arco e le gite in elicottero e le cene succulente. Dormendo, avevo sognato un... No, non fu cosí. Lasciate che metta la cosa in questi termini: a incombere sull’oscurità dalla quale ero apparso c’era una figura, una figura maschile, con un’aura assolutamente intollerabile, ricca di cose come bellezza, terrore, amore, sozzura e soprattutto potere. Questa figura, o essenza, maschile pareva indossare una veste bianca (un camice bianco da medico). E stivali neri. E aveva un sorriso di un certo tipo. Penso che l’immagine potesse essere un negativo spettrale del medico numero uno – la sua tuta sportiva nera e le sue scarpe di tela, e la strizzata d’occhio soddisfatta che fece indicando il mio petto e scrollando il capo.
Il tempo passava ora senza che fosse possibile seguirlo, perché era dedicato alla lotta, con il letto come trappola o come fossa, coperta di reti, e la sensazione di partire per un terribile viaggio verso un terribile segreto. Che cosa c’entrava con lui il segreto? Con lui: l’uomo piú sbagliato nel luogo piú sbagliato e nel momento piú sbagliato. Stavo diventando decisamente piú forte. I miei medici andavano e venivano, con mani pesanti e alito pesante, per ammirare i miei nuovi gorgoglii e uggiolii, le mie contrazioni piú spettacolari, i miei atletici sobbalzi. Spesso c’era lí un’infermiera, sola, in un’adorabile veglia. La sua uniforme color crema aveva un suono protettivo – un suono nel quale sentivo di poter deporre tutte le mie voglie e tutta la mia fiducia. Perché a questo punto avevo avuto un notevole miglioramento e mi sentivo in gran forma. Mai stato meglio. Le sensazioni, con tutti i loro lussi, tornarono prima sul lato sinistro (all’improvviso), poi su quello destro (in modo meravigliosamente furtivo). Mi guadagnai anche l’elogio dell’infermiera quando arcuai flessuosamente la schiena, piú o meno senza aiuto, mentre lei si affaccendava con la padella... Comunque restai lí sdraiato, in uno stato d’animo di pacata celebrazione, per tutto il tempo che durò, sino all’ora nera – e ai suoi inservienti. I medici maniaci del golf sapevo come trattarli, l’infermiera era senza alcun dubbio un inutile in piú. Ma poi arrivarono gli inservienti, che mi praticavano un trattamento a base di elettricità e di aria. Erano tre. Non fecero cerimonie. Entrarono frettolosi nella camera, m’infagottarono nei miei vestiti e mi portarono in giardino su una barella. E fin qui tutto bene. Poi con dei cavi, simili a due telefoni (bianchi – al calor bianco), mi colpirono il petto. Alla fine, prima di andarsene, uno di loro mi baciò. Credo di conoscere il nome di quel bacio. Si chiama bacio della vita. Poi devo essere svenuto.
Quando rinvenni, fu con un udibile schiocco nelle orecchie e una consapevolezza intensa della mia solitudine, con un senso di amore e di ammirazione per il corpo grosso e impassibile entro il quale mi trovavo, che continuava a essere distratto e indifferente, e si sforzava di allungare le braccia oltre l’aiuola di rose per sistemare una fila di clematidi staccatasi dalla parete di legno. Il grosso corpo continuava a darsi da fare con lenta competenza; sí, conosce davvero il suo mestiere. Io sentivo sempre il desiderio di rilassarmi e di dare un’occhiata come si deve al giardino – ma c’è qualcosa che non funziona. Qualcosa non funziona affatto: questo corpo nel quale mi trovo non prende ordini da questa mia volontà. Guardati attorno, dico. Ma il collo mi ignora. I suoi occhi hanno un loro programma. È grave? Va bene cosí? Non mi lasciai prendere dal panico. Mi accontentai della visione periferica, che, in fin dei conti, è la migliore delle alternative. Vidi una flora ricciuta agitarsi e tremare, come pulsazioni o esplosioni sommesse da un lato della testa. E intorno un verde pallido, rigato e sbalzato da una pallida luce come... come i soldi americani. Continuai a sforzarmi finché non cominciò a fare buio. Mollai allora gli utensili nella baracca. Un momento. Come mai sto camminando all’indietro verso la casa? Un momento. È il crepuscolo che sta per arrivare, o è l’alba? Qual è – qual è la sequenza del viaggio che sto facendo? Quali sono le sue regole? Perché gli uccelli cantano in un modo cosí strano? Dove sto andando?
Una routine, comunque, si è sicuramente stabilita. Sembra che io riesca a capire come vanno le cose.
Io vivo quaggiú, nell’America delle corde del bucato e delle cassette postali, l’America innocua, affabile crogiolo di colori primari. L’America del tu-sei-okay io-sono-okay. Il mio nome, ovviamente, è Tod Friendly. Tod T. Friendly. Oh, sí, sono lí, sono lí negli anni verdi, o davanti al Mondo delle Ferramenta di Hank, o sulla macchia d’erba vicino al bianco municipio, con il petto in fuori e le mani sui fianchi e una sorta di oh-oh-oh muto. Perché questo è il tipo d’uomo che io sono. Sono lí – sono lí nel negozio di commestibili, nell’ufficio postale, con i miei «Salve», i miei «Arrivederci» e i miei «Bene, bene». Ma non va esattamente cosí. Va piuttosto in questo modo:
– Eneb, eneb, – dice la signora della farmacia.
– Eneb, – mi associo io. – Ats emoc?
– Ats emoc iel e?
– Mmm-mmm, – dice lei, scartocciando la mia lozione per i capelli. Io mi allontano, camminando all’indietro, con una leggera scappellata. Parlo senza determinazione, come faccio ogni altra cosa. In verità, mi ci volle un bel po’ per rendermi conto che il miserevole cinguettio che udivo intorno a me era, in effetti, composto di parole umane. Cristo, persino le allodole e i passeri sembrano piú dignitosi. Traduco questi gorgheggi umani perché mi interessano. Li imparai presto. Ora li uso correntemente, lo so perché li uso anche nei sogni. C’è un’altra lingua, una seconda lingua, qui nella testa di Tod. Noi sogniamo a volte anche in questa lingua.
Ma sí, ecco che andiamo, ordinatamente incappellati, elegantemente calzati, con la «Gazette» ripiegata sotto il braccio, superando i vialetti d’accesso (FITTAMENTE ACCOSTATI), le cassette postali con le loro scritte (Wells, Cohen, Rezika, Meleagrou, Klodzinski, Schering-Kahlbaum e non so chi altro), le tranquille ambizioni di ogni dimora (Siete Pregati Di Rispettare I Diritti Dei Proprietari), gli autobus pieni di ragazzini e i cartelli gialli che dicono RALLENTARE – BAMBINI e la nera sagoma di quel giovincello precipitoso con la sua cartella ben stretta (naturalmente non sta guardando. È troppo impegnato a correre. Il viso, gli occhi sono rivolti in basso. Non bada alle macchine, solo al legittimo esercizio dei propri poteri terreni). Quando i piccoli si comprimono per passarmi davanti nel Superette, do alle loro zazzere un vecchio e casto arruffio. Tod Friendly. Non ho accesso ai suoi pensieri – ma sono inondato dalle sue emozioni. Sono un coccodrillo nel denso fiume della sua sensibilità. E sapete una cosa? Ogni sguardo, ogni paio d’occhi, anche se si restringono in un’ingegnosa valutazione, si rivolgono a qualcosa che è dentro di lui, e io sento il fuoco della paura e della vergogna. È in questa direzione che sto andando? E la paura di Tod, quando mi soffermo ad analizzarla, è davvero spaventosa. E inspiegabile. Ha a che fare con la sua mutilazione. Chi potrebbe perpetrarla? E lui, come fa a evitarla?
Guardate. Stiamo diventando piú giovani. Sul serio. Stiamo diventando piú forti. Stiamo persino diventando piú alti. Non riconosco bene il mondo in cui siamo. Tutto mi è familiare, ma non tutto è rassicurante. Al contrario. È un mondo di sbagli, di sbagli diametrali. Anche tutti gli altri stanno diventando piú giovani, ma sembra che non ci badino, come non ci bada Tod. Non trovano la cosa insensata e leggermente disgustosa come la trovo io. Tuttavia io non ho potere, e non posso far niente per nessuna cosa. Non posso fare di me un’eccezione. Anche gli altri hanno, come me, qualcun altro al loro interno, un passeggero o un parassita? Sono fortunati. Scommetto che non fanno i sogni che facciamo noi. La figura in camice bianco e stivali neri. Sulla sua scia una bufera di vento e di grandine, come una tempesta di anime umane.
Ogni giorno, quando Tod e io abbiamo finito di leggere la «Gazette», la riportiamo all’emporio. Io guardo con attenzione la data. E procede cosí. Dopo il 2 ottobre, hai il 1° ottobre. Dopo il 1° ottobre, il 30 settembre. Come vi spiegate questo?... Si dice che i pazzi hanno in testa una scenografia teatrale o cinematografica, che mettono in ordine e arredano e nella quale si muovono. Ma Tod, in apparenza, è sano di mente, e il suo mondo è comune ad altri. Mi sembra però che il film stia andando all’indietro.
Non sono del tutto un ingenuo.
Per esempio, scopro di essere in possesso di una notevole quantità d’informazioni prive di valore o, se preferite, di conoscenze generali. E = mc2. La velocità della luce è di 300 000 chilometri al secondo. L’universo è finito, ma sconfinato. In quanto ai pianeti, sono Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno, Plutone – povero Plutone, subzero, subnormale, fatto di ghiaccio e di roccia, e cosí lontano dal calore e dalla luce del sole. La vita non è una scodella di ciliegie. È tutta giostra e altalena. A volte vinci, a volte perdi. Tutto si compensa. Tutto trova la sua misura. Ciò che va via torna indietro. 1066, 1789, 1945. Ho uno splendido vocabolario (monade, retrattile, necropoli, palindrome, anti-disestablishmentarianism) e una tranquilla padronanza di tutte le regole grammaticali. L’apostrofo in «Please Respect Owner’s Rights» non è dove dovrebbe essere. (Come non lo è su quel cartellone della Route 6 che segnala ed esalta «Rogers’ Liquor Locker»). A parte le parole che indicano movimento o azione, le quali mi fanno sempre allungare la mano verso le mie virgolette («dare», «cadere», «mangiare», «defecare»), il linguaggio scritto, a differenza di quello parlato, ha sempre un senso chiaro. Ecco un’altra storiella. «Lei mi telefona e dice: “Vieni subito. Non c’è nessuno in casa”. Allora vado e indovinate. Non c’è nessuno in casa». Marte è il dio romano della guerra. Narciso s’innamorò del proprio riflesso – della propria anima. Se mai fate un patto col diavolo, e lui in cambio vuol prendere qualcosa di vostro – non lasciategli portar via il vostro specchio. Non il vostro specchio, che è il vostro riflesso, che è il vostro doppio, che è il vostro compartecipe segreto. A favore del diavolo c’è da dire una cosa: agisce di propria iniziativa, non esegue ordini altrui.
Nessuno potrebbe accusare Tod Friendly di essere innamorato del proprio riflesso. Al contrario, non sopporta di vederlo. Si agghinda al tatto; preferisce un rasoio elettrico e si taglia personalmente i capelli con un rozzo paio di forbici da cucina. Dio sa che aspetto ha. In casa nostra ci sono parecchi specchi, come potete immaginare, ma lui non li affronta e non li consulta mai. Io traggo ogni tanto un’indicazione dalla vetrina spenta di un negozio, o anche una deformazione occasionale dalla lucidatura di un rubinetto o di un coltello. Bisogna dire che la mia curiosità è fortemente limitata dalla trepidazione. Il suo corpo non è per nulla promettente: le epiche macchie sul dorso delle mani, il torso mollemente rivestito di carne che odora di pollame e di menta, i piedi. Nelle vie di Wellport incontriamo ogni tanto qualche bel vecchio americano, nonni fusti e solidi lupi di mare, che sono «meravigliosi». Tod non è meraviglioso. Non ancora. È ancora piuttosto squallido, tutto curvo e storto e vergognoso. E il suo viso? Be, è successo una notte tra un brutto sogno e un altro. Aveva raggiunto per gradi la stanza da bagno buia e se ne stava accasciato sul lavabo, sentendosi perduto, spersonalizzato e cercando di calmarsi o di dominarsi con l’acqua fredda. Tod gemette e si raddrizzò davanti allo specchio buio e allungò una mano verso l’interruttore. Facile farlo, pensai. Sarebbe dovuto succedere alla velocità della luce. Calma ora. Eccoci...
Mi aspettavo di avere un aspetto di merda, ma era ridicolo. Oddio. Assomigliamo davvero alla merda. Piú precisamente a una merda di vacca. Oddio. C’è qualcuno che sia effettivamente presente lí dentro? Sí: piano piano assunse una forma – la testa di Tod. Fiancheggiati dalle grandi chitarre delle orecchie, i capelli si stendevano radi sul cuoio capelluto color buccia d’arancia, simili a vermi bianchi. Unti per di piú. Su questo avevo contato: ogni mattina mette in bottiglia l’untume che emanano, e ogni paio di mesi lo porta in farmacia per 3 dollari e 45. Lo stesso fa per la cipria profumata che la sua carne oscuramente colpevole si scrolla di dosso... Il viso poi: tra le sue rovine e le sue macerie, che non dicono nulla, c’è una voluta di espressività intorno agli occhi, austera, riservata, inesorabilmente buffa e piena di paura. Tod spense la luce. Tornò a letto e ricominciò il suo incubo. Le sue lenzuola avevano l’odore bianco della paura. Sono obbligato ad annusare ciò che lui annusa, la cipria per neonati, l’odore delle sue unghie prima che il fuoco le sputi fuori – e che siano poi raccolte in un piatto e di nuovo applicate in maniera tormentosa alle punte eccitate delle sue dita.
Sono io soltanto o è un modo strano di tirare avanti? L’intera vita, per esempio, l’intero sostentamento, l’intero significato (e anche una bella quantità di soldi), provengono da un unico apparecchio domestico: la manopola del gabinetto. Alla fine della giornata, prima del caffè, io entro. E lui è già lí: quell’odore caldo, umiliante. Tiro giú i pantaloni e uso la manopola magica. All’improvviso c’è tutto, compresa la carta igienica che adoperi e poi riavvolgi abilmente nel rotolo. Piú tardi tiri su i pantaloni e aspetti che il dolore ti passi. Il dolore, forse, dell’intera operazione, dell’intera dipendenza. Non c’è da stupirsi se piangiamo nel farlo. Una rapida occhiata all’acqua limpida nella tazza. Non so, ma a me sembra una vita d’inferno. Poi le due tazzine di decaffeinato prima di andare a letto.
Neanche il mangiare è attraente. Prima accatasto i piatti puliti nella lavastoviglie, che funziona discretamente, direi, come tutti gli altri miei apparecchi per risparmiare fatica, finché non compare qualche grassa carogna in tuta che li traumatizza con i suoi arnesi. Fin qui tutto bene; dopo di che scegli un piatto sporco, raccogli qualche rimasuglio dalla pattumiera e ti metti comodo per una breve attesa. Diversi pezzi vengono trattenuti nella mia bocca e, dopo un efficiente massaggio con lingua e denti, li sposto sul piatto per un’ulteriore scultura con coltello, forchetta e cucchiaio. Questo, se non altro, è abbastanza terapeutico, a meno che uno non abbia della minestra o qualcosa del genere, perché può essere una vera condanna. Poi devi affrontare l’arduo compito di rinfrescare, di radunare e di mettere via, prima di restituire queste cibarie al Superette dove, in effetti, vengo immediatamente e generosamente rimborsato per le mie fatiche. Ripercorri allora i corridoi con un carrello o un paniere, rimettendo ogni scatola e ogni pacchetto al proprio posto.
C’è un’altra cosa che mi delude molto in questa vita che sto vivendo: la lettura. Ogni notte mi trascino fuori dal letto per iniziare la giornata – e con che cosa? Non con un libro. Neppure con la «Gazette». No. Due o tre ore con un chiassoso tabloid. Comincio dai piedi della colonna e risalgo laboriosamente la pagina per scoprire che ogni articolo, con criteri assai poco edificanti, viene riassunto in caratteri in corpo 18. UOMO METTE AL MONDO CANE. Oppure DIVETTA VIOLENTATA DA PTERODATTILO. Greta Garbo, leggo, è rinata in forma di gatto. Tutti quei discorsi sui «gemelli». Una superrazza nordica calerà tra poco dalle nuvole di ghiaccio cosmiche: governerà la terra per mille anni. Tutti quei discorsi su Atlantide. È giusto che siano gli addetti alla spazzatura a portarmi i giornali. Li estraggo dai sacchi – che sprigionano, sembra, dalle mascelle mostruose, la violenza industriale, dei camion della spazzatura. E cosí me ne sto seduto qui a gorgogliare nel mio bicchiere e a impregnarmi di queste stupide stronzate. Non posso evitarlo. Sono alla mercé di Tod. Cosa sta succedendo – nel mondo, voglio dire? Non posso sapere nemmeno questo. Eccetto quando l’occhio di Tod si distrae dal Cruciverba Kwik della «Gazette». Per la maggior parte del tempo i miei occhi sono fissi su roba come «il contrario di piccolo» (3) o «non sporco» (5). C’è una libreria in soggiorno. Dietro i suoi vetri polverosi, i dorsi polverosi, tutti sull’attenti. Ma no. Invece: VITA AMOROSA SU PLUTONE. «IO SONO ZSA ZSA GABOR», DICE UNA SCIMMIA. CINQUE GEMELLI SIAMESI!
Ci sono però certi vantaggi, adesso, mentre gli anni strisciano via. L’Epoca di Reagan, penso, sta facendo miracoli per il morale di Tod.
Fisicamente, sono in gran forma. Caviglie, ginocchia, spina dorsale e collo hanno smesso di farmi male in continuazione – o almeno nello stesso momento. Riesco a raggiungere i luoghi assai piú in fretta di una volta: luoghi come l’estremo opposto della camera. Ci arrivo prima che voi ve ne rendiate conto. Il mio portamento è quasi principesco. Ho venduto da un pezzo il mio bastone.
Tod e io ci sentiamo talmente su di giri che ci siamo iscritti a un circolo e ci siamo messi a giocare a tennis. Forse è stato prematuro. Perché – tanto per cominciare – ci fa dolere la schiena in maniera bestiale. Il tennis, sto scoprendo, è un gioco decisamente idiota: la palla lanuginosa schizza oltre la rete o oltre la rete metallica in fondo al campo, e noi quattro continuiamo a batterla finché non se la mette in tasca – piuttosto arbitrariamente, mi pare – il battitore. Eppure saltiamo e sbuffiamo, con una certa allegria. Ridiamo e scherziamo: i nostri cinti erniari, i nostri paragomiti. Pap, dicono le racchette. Tod è popolare; gli altri sembrano averlo in simpatia. Non so che cosa ne ricavi Tod, so solo che le sue ghiandole mi dicono che potrebbe fare a meno di attenzioni particolari, o di attenzioni in genere.
Per la maggior parte del tempo ce ne stiamo seduti nella sala del circolo e giochiamo a carte. È lí che vedo il Presidente alla tv. Sí, i vecchietti, i gruppi di anziani con le loro efelidi e i loro succhi di frutta, ricavano tutti una grande emozione dal Presidente: il suo cipiglio, le sue gaffe, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Postfazione
  9. Indice