Occidente per principianti
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Occidente per principianti

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Occidente per principianti

Informazioni su questo libro

Un giornalista fantasma sulle tracce della prima amante di Rodolfo Valentino. Un possibile scoop che diventa una caccia all'uomo. Un inseguimento che molto presto si trasforma in un viaggio allucinato su e giù per l'Italia. Una stagione - l'estate del 2001 - molto simile a una «zona oscura», una soglia spalancata tra due secoli, due momenti storici, due diversi modi di percepire la realtà. Questo romanzo massimalista e scatenato è anche una tragicomica riflessione sulla società dello spettacolo, e prova ad addentrarsi nelle pieghe di un Paese (il nostro) in cui le città, la vita pubblica e persino i sentimenti dei suoi abitanti sembrano essere la copia - luminosa e inquietante - di un originale smarrito chissà dove. Un importante quotidiano nazionale viene raggiunto da una notizia che si potrebbe trasformare nello scoop della stagione: da qualche parte, in Italia, sarebbe ancora viva la prima amante di Rodolfo Valentino. Ma dove si trova questa donna, presumibilmente ultracentenaria? Ed è poi proprio una donna? E quanto, in fin dei conti, la sua esistenza può ritenersi attendibile? Un ghost writer senza prospettive, un regista inseguito dai creditori e una studentessa di cinema bella e infedele si mettono sulle tracce dell'unica persona in grado di testimoniare l'iniziazione sentimentale dell'«uomo più desiderato del suo tempo», con l'obiettivo di strappare un'intervista. I tre abbandonano Roma - morta e stagnante come una palude - per puntare verso Milano, o quel che resta dell'ex capitale morale, invertendo a un certo punto la rotta verso sud fino a raggiungere il paesino dell'entroterra pugliese da cui, circa un secolo prima, era partito alla volta di New York un giovane di belle speranze e dallo sguardo enigmatico, un'anonima creatura di carne e sangue destinata a diventare la prima grande icona dello show-biz. Sorprende, in questo romanzo di Nicola Lagioia, la capacità di inventare una lingua letteraria che è fatta anche di cinema, di fumetti, di siti internet surreali o morbosi, di molto tempo speso davanti a una cattiva televisione. Così la scrittura torna a essere un modo per leggere la realtà, il punto in cui l'intelligenza e la fantasia s'incontrano per fare del piacere di raccontare uno scorcio luminosissimo sull'universo circostante: non solo l'Italia divorata dal moloch dello spettacolo, ma la libertà obbligatoria dei trentenni destinati a un infinito precariato intellettuale, il senso d'irrealtà di un mondo in cui le cose non sono più davvero «le cose».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806167608
eBook ISBN
9788858403365

Libro secondo

Il viaggio

L’AUTOSTRADA
Al casello di Orte, come per magia, il traffico iniziò ad aprirci un varco verso la luce del primo pomeriggio. Zelda tirò un sospiro di sollievo, si passò le mani tra i capelli, distese le gambe in prossimità dei bocchettoni d’aria e mi guardò lanciato in una serie di sorpassi. Il suo silenzio, durante i lunghi minuti dell’ingorgo, aveva avuto lo strano effetto di trasferire su di me la responsabilità dei rallentamenti. Non avrei saputo dire che cosa le fosse girato per la testa nella mezz’ora che era stata necessaria a superare un’autocisterna carica di insetticida soltanto per vedere il grande serbatoio luccicante sfilarci nuovamente accanto nel rettilineo successivo. E anche Zelda, ne sono certo, interrogata sull’argomento, non avrebbe saputo articolare una risposta che andasse oltre il giudizio finale. Ovvero: io ero uno stronzo e un incapace, un elemento relegato nei bassifondi della scala evolutiva grazie al quale lei adesso si trovava in una situazione orrenda. Era accaldata, stanca, annoiata, aveva i vestiti che le si appiccicavano addosso, e incominciò a deprimersi non appena un tabellone luminoso annunciò CODE PER KM 6.
La mia presunta inettitudine, circondata dal silenzio e dall’afa, diventava sempre piú tangibile, e cominciò a estendere i suoi effetti al crollo improvviso della stazione radio su cui ci reggevamo sin dall’ingresso in autostrada, alla mancanza di aria condizionata, al soffocante panorama di lamiere, parabrezza e gas di scarico che marciava sull’asfalto bollente come un esercito di barbari alla conquista del nulla. Ma all’altezza di Orte il traffico era svanito del tutto. Avevamo proceduto a passo d’uomo fino a pochi metri prima, per cui fu una sorpresa constatare come al posto di quella che sarebbe dovuta essere la causa dell’ingorgo, sul tratto di asfalto dove ci aspettavamo di trovare ambulanze, argani, macchie d’olio e triangoli luminosi, non ci fosse niente. Ai bordi della strada sostavano solo quattro uomini, due per ogni lato, con tuta gialla, elmetto da operaio e scarponcini. Ognuno maneggiava una bandierina. Sembravano i gonfalonieri dei comuni medievali. Erano seri e concentrati, come se tutto quell’agitarsi di braccia servisse veramente a qualche cosa, tanto che per un attimo mi venne in mente che l’ingorgo fosse stato la conseguenza di un vortice magnetico creato dai quattro in modo consapevole, muovendo le bandierine secondo uno schema ben preciso.
Fu sufficiente superarli perché la macchina venisse spinta da un’accelerazione supplementare. Un velo trasparente di felicità ci cadde allora addosso. Strinsi il volante tra le mani e mi lanciai in una serie di manovre azzardate. Zelda iniziò a rilassarsi. Si tolse gli occhiali da sole e sfilò i piedi dai sandali. Sorrideva a occhi chiusi. Davanti a noi non c’era piú nessuno. La ragazza raccolse dal sedile posteriore la carta autostradale e cominciò a elencarmi le prossime uscite come se stesse pronunciando i nomi delle città invisibili. Potevano essere le quattro del pomeriggio. Ci lasciavamo alle spalle un grande campo di papaveri, mentre davanti, al di là del parabrezza, una flotta di nuvole a forma di disco volante sembrava richiamarci verso sé. Si sentí un bip prolungato. Sul display del cellulare era possibile leggere la data: il primo agosto del 2001.
ANTEFATTO N.1
«Una macchina, – aveva detto due giorni prima Mario Materia da un telefono pubblico. – Devi andare a Milano e ti serve una macchina». Bene. Il problema non era la macchina – di macchine, assicurò, me ne trovava quante volevo. Un focolaio si era riacceso da qualche parte ai confini della città, questo era il punto. Oppure la scintilla era scoccata molto piú lontano, al di là delle Alpi, in un ufficio triste e silenzioso. Qualcuno aveva sollevato la cornetta del telefono e adesso loro erano sulle sue tracce. «Vuoi dire…» «Non parlare, – mi scongiurò, – non fare nomi». Avevo presente la scena finale di Carlito’s Way? Al Pacino non ha fatto niente di male, sta risalendo la china, vuole rifarsi una vita ma poi finisce ammazzato come un cane tra le braccia della sua donna. «Una volta che ti hanno messo gli occhi addosso…» disse Materia ricalcando i vecchi manuali di sceneggiatura. Gli chiesi se era successo qualcosa di concreto. Mi disse di non fare l’ingenuo. Era questione di ore: avrebbero aperto con la fiamma ossidrica la saracinesca della casa-laboratorio, si sarebbero guardati intorno, avrebbero cosparso di benzina il pavimento e se ne sarebbero tornati nelle loro fogne lanciandosi alle spalle un cerino ancora acceso. «E comunque, – aggiunse prima di attaccare, – ci vediamo davanti a Santa Maria Maggiore. Fra mezz’ora».
L’AUTOSTRADA
Alle cinque di pomeriggio eravamo già all’altezza di Firenze. Sui 130 il telaio dell’ax iniziava a vibrare. Premevo il piede destro sulla tavoletta ma avevo l’impressione che da un momento all’altro potesse partire una vite. La vecchia Citroën si sarebbe aperta sotto i piedi. Avremmo sentito un improvviso sapore di sangue e asfalto prima che un Tir lanciato a tutta velocità arrivasse a cancellarci dalla faccia della terra. Ma gli autotreni viaggiavano senza nessuna fretta. E una lastra turchese si interponeva lentamente tra le pareti fiammeggianti del cielo estivo. Il profilo della luna iniziò a emergere da ovest come un piccolo semicerchio d’acqua mentre la monotonia del paesaggio collinare era interrotta dai lunghi capannoni bianchi che diventavano piú numerosi man mano che viaggiavamo verso nord.
Sul sedile posteriore c’era un quotidiano spiegazzato. Dallo specchietto riuscivo a vedere i grossi caratteri della pagina degli esteri. L’articolo l’avevo già letto. In Germania un autobus era precipitato da un viadotto sfondando il tetto di una fabbrica. C’erano stati dei morti. L’autista del veicolo, miracolosamente salvo, giurava di non essersi addormentato al volante. Era come se a un certo punto l’autobus avesse deciso di lanciarsi sul guardrail. Zelda disse che, per quello che aveva potuto leggere in rete, Rodolfo Valentino aveva fatto le elementari a Taranto e poi era entrato nell’Accademia Militare di Venezia: avremmo dovuto cercare in una di queste due città. Risposi che non significava niente. Erano passati quasi novant’anni. Avremmo potuto fantasticare sulla cosa per ore. Ma poi Valeria Sastri, il nostro prezioso contatto lombardo, ci avrebbe messo sulla strada giusta.
Zelda iniziò a giocare con l’autoradio fino a quando non trovò una versione da centro commerciale di The Times They Are A-Changin’. Ridemmo nervosamente, mentre il sole si apriva gli ultimi poligoni di luce tra i boschi di pini. Mancavano meno di quattro ore alla destinazione, ma il verde delle colline e il bianco dei capannoni industriali si allungavano oltre i confini della rete autostradale, ed era come se una destinazione fosse davvero concepibile solo sull’altra faccia della terra. Erano almeno cinque anni che non mi allontanavo da Roma. La sensazione di benessere che provavo al volante dipendeva da questo. Ogni chilometro bruciato era come un giorno che separa il convalescente dalla scomparsa di una brutta febbre. Perché Roma non era diversa da un continuo stordimento che, al pari delle epidemie, andava irradiandosi per movimenti circolari. Con la scusa di proteggerti ti inoculava il suo codice e tu iniziavi a lavorare per lei, trasmettevi questo bacillo ai vicini con la speranza che a loro volta riuscissero a portarlo oltre l’ultima porta dell’ultimo confine cittadino. Era questa la città che aveva creduto di poter dare un ordine al mondo: una conca spalancata, pronta a inghiottire di tutto, una madre capace di trasformare anche i figli adottivi in carne della propria carne abbandonandoli per sempre dentro le curve di un intestino senza uscita. Per questo ogni volta è cosí difficile raggiungere il casello Romanord. Gli svincoli della tangenziale diventano nodi inestricabili fatti di copertoni sgonfi, camion che ripartono a fatica e automobili in panne – qualcosa non vorrebbe farti andare via dalla città, se pure ti avventuri per strade secondarie, cerchi di raggiungere la Salaria passando per Monte Sacro, per il Tufello, per Tor di Quinto: è inutile, trovi sempre un incidente, una deviazione imprevista, una pattuglia di falconi.
«La ragazza del Piper, – disse Zelda con uno sbadiglio. – Fermati alla prossima. Ci prendiamo un caffè e andiamo in bagno».
ANTEFATTO N.2
A Santa Maria Maggiore Mario Materia non c’era. Ero seduto da un quarto d’ora sulle scale della basilica e lo cercavo con lo sguardo fumando nervosamente. Il vento caldo portava un suono di trombe, di tromboni, e l’eco triplicata di un rullante che scandiva il tempo di una bossanova. I musicisti dovevano essere a poche centinaia di metri, da qualche parte oltre le lunghe file dei palazzi umbertini. Facevano una versione scatenata della Ragazza di Ipanema. Proprio nel momento in cui la muchacha si dirige verso il mare, e fa girare la testa a tutti quanti, e il poeta inizia a osservarla con tristezza pensando a quanto è alta y bronceada y joven y hermosa, vidi una nuvola di fumo mescolarsi con quello della mia sigaretta e divorarlo del tutto. «A sorci’, – disse la voce femminile, – e che nun te sei ancora ripijato dar concerto dell’artra sera?»
La ragazza si era seduta a due passi da me. Era bionda e riccia. Portava i jeans a zampa di elefante dai quali spuntavano dieci dita smaltate di rosso. Due orecchini a forma di cerchio scintillavano al sole e una canotta azzurra con i bordini bianchi le stringeva il seno. Sulla canotta c’era stampato questo grosso numero, 79, bianco e punteggiato da piccole stelle azzurre. Io dissi: «Come?» Lei disse: «L’artra sera. Ar teatrotenda. Che nun t’ho visto?» Gettò la cicca oltre le scale. Poi tirò fuori dalla borsa uno spinello e se lo accese. «Quanno è partito Il cielo te so’ venuti du’ occhi… Nun t’ho visto, dici? E vabbe’, nun t’ho visto, nun t’ho visto… Famose ’n tiro, va’». Mi passò la canna. Pensai che fosse matta o che stesse cercando di rimorchiarmi. I musicisti iniziarono a suonare Stormy Weather, ma il vento cambiò direzione e non fu possibile sentire quasi niente. La ragazza si prese le gambe tra le braccia e abbandonò la testa sulle ginocchia unite: «Pur’io me so’ commossa, che te credi? Tutta quella ggente, le mani arzate, ’a chitara. Semo er sale del monno noi, – mi prese per mano, – te ce credi all’amore sorci’?» Fui attraversato da una fitta intercostale. «È mejo finge d’esse acrobati che sentisse nani drentro, – sembrò citare lei. – Anche se ce stanno rubbando ’a libbertà. Anche se questo monno è fatto de manichini e de chi tiene i fili». Dissi un generico: «Ah». Lei mi strinse la mano. «Quer poraccio, l’hanno ammazzato l’hanno…» «Genova», provai a puntualizzare. «Ma quale Genova…» sorrise amaramente muovendo i polpastrelli sul dorso della mia mano. «Roma, quartiere Prati, appena uscito daa redazione: l’hanno freddato in machina. Cinque confetti 7,65. E tutto perché? Perché c’aveva er chiodo de di’ ’a verità. Collegava le cose. E le scriveva. Che nun le scriveva? Er petrolio. Gli assegni der presidente. I cuggini Salvo. Er magistrato Vitalone, – mise le mani sui fianchi. – ’O volemm’ discere o nun ’o volemm’ discere comme stann’e coss’?»
I miei occhi attraversarono smarriti l’intero profilo della ragazza. Si concentrarono sulla maglietta. Fui sfiorato da un pensiero che non riuscii a fermare. «Il nostro, sorci’, – disse recuperando la mia mano e la pronuncia romanesca, – è un Paese senza memoria e senza verità. Semo i fiori nella monnezza. In questo mondo di ladri». Il suo sguardo si fece malizioso. Si sganciò nuovamente dalla mia mano e prese a frugarmi tra le gambe. Su via Cavour il traffico non riusciva a defluire. (Partí un concerto di clacson). «La Materia, – disse la ragazza stringendo la materia, – la trovi all’Eur, il Palazzo della Civiltà Italiana, fra una quarantina di minuti». Abbandonò la presa e si passò le mani sulla testa. Sotto i riccioli biondi spuntò una massa di capelli nera e lucida. «Mo’ voedi bene di far prescto. Spizziati, che Mario è lí che t’ascpetta», disse questa volta in modenese. Il sole era alto. Il vento era fermo. La musica non arrivava.
L’AUTOSTRADA
Viaggiando verso nord il paesaggio si addolciva. Il giallo bruciato che avevamo avuto intorno fino a qualche ora prima si ripresentava a chiazze sempre piú isolate, sovrastato dall’arancione, dal verde cupo, da un blu radioso e umido che adesso si stendeva lungo tutto l’Appennino. Erano le sei del pomeriggio. All’altezza di Carpi evitammo di un soffio la collisione con una Duna. Subito dopo averle superate, le forme della peggiore auto mai progettata in Italia iniziarono a sbandare. La Duna toccò il guardrail di sinistra, pattinò senza controllo per l’intera larghezza della carreggiata e si arenò sulla barriera opposta lasciandosi dietro una piccola cascata di scintille. Prima della curva successiva riuscimmo a vedere l’autista mentre scendeva dal veicolo. Mise le mani sui fianchi. Portò lo sguardo verso la grande natura morta di un campo di soia. Poi lo perdemmo.
L’autoradio parlò di un incidente diplomatico consumatosi al confine tra India e Pakistan. A Kasur, pochi chilometri a ovest della regione del Punjab, c’era stata un’esplosione notturna. Un deposito di fuochi d’artificio era saltato in aria. I soldati della repubblica federale indiana avevano visto questi enormi fiori colorati sbocciati dal nulla illuminare la massa grigia dei carri armati. Il ministro degli Esteri aveva parlato di «inaccettabile provocazione». Il Primo ministro pakistano aveva replicato chiamando in causa l’«utilizzo pretestuoso del caso». Un numero impreciso di testate nucleari fu prontamente inclinato di 15° verso ovest. Kalí la Nera, che si occupava di entrambi i paesi, iniziò a sfregarsi le sue quattro paia di mani. Dal cruscotto partí un leggero sfrigolio. I bocchettoni dell’aria sputarono fuori una mosca morta che si piantò sul sedile a pochi centimetri dalle mie gambe. Vidi una massa scura avvicinarsi verso destra. «Attento!» gridò Zelda. Subito dopo ci fu lo schianto.
ANTEFATTO N.3
«Spiegami questa faccenda di Rodolfo Valentino», disse Mario Materia circondato dalle architetture improbabili dell’Eur. Avevo preso la linea B da Termini e avevo visto il mio vagone svuotarsi man mano che ci dirigevamo verso la periferia. L’impasto di sudori freddi e acqua di colonia della Roma impiegatizia studentesca e paramedica andava defluendo a ogni apertura di sportello e a ogni voce di liberto prestato all’amministrazione comunale che dagli altoparlanti ci annunciava: «Cavour», «Colosseo», «Circo Massimo», «Piramide». Alla fermata di «Garbatella», mentre gli zingari scendevano per prepararsi a fare un nuovo giro, trovai posto a sedere e continuai il mio viaggio sfogliando la cronaca per casalinghi di un «Messaggero» abbandonato.
La strada verso l’Eur prevede che i vagoni della metropolitana salgano in superficie all’altezza della Magliana, lasciando intravedere il leggendario struggimento dell’edilizia popolare circondata dal mare giallo-verde di camomilla e cardi. Questo scorcio è il punto estremo e inconvertibile della città, superato il quale si offrono alla vista tutto un altro tipo di fondali: il Warner Village, insieme al giacimento inscatolato dell’Ikea e alle pettinature anonime dei praticelli degli hotel per congressisti, chiude per l’appunto, e anzi spanlanca lo spazio triangolare consacrato ai non-luoghi, tutto ansioso di vedere il proprio vertice piú stretto correre verso l’infinito. Ma un antesignano di quest’estetica da aeroporto e fast food a Roma già esisteva, e non ce lo avevano portato gli americani con le tavolette di cioccolata, ma – come per le avanguardie e i divi del cinema – eravamo stati noi i primi, avevamo gettato le fondamenta del primo non-luogo della Storia universale: Esposizione Universale Roma, come si srotola giustamente l’acronimo, che poi era uno degli ultimi tasselli lungo la linea B, e dove scesi dal treno ormai semideserto per andare a farmi prestare questa Citroën scassata da Mario Materia.
Camminando sotto il sole mi guardavo intorno. La prima pietra del quartiere era stata posata per l’Esposizione in salsa littoria che avrebbe dovuto celebrare il ventennale della breve marcia e che invece, causa guerra, non aveva mai avuto luogo. Questo accresceva il suo fascino perché l’immane vuotezza che sorregge i viali, le piazze, gli archi e le sale congressi si fonda sul buco nero di un appuntamento mancato. La retorica di regime si sovrapponeva adesso a quella dei colletti bianchi (di cui l’Eur, nel frattempo, era diventato il regno), gettando luci e ombre su entrambi gli scenari.
Trovai Mario Materia in canottiera, occhiali a specchio e pantaloni mimetici. Fu lui a raggiungermi, in realtà. Io me ne stavo da qualche minuto a riconsiderare la metafisica da asporto del Colosseo quadrato e a disperare del suo arrivo. «Eccoti finalmente», disse con aria trafelata. Aveva la faccia gonfia e una grossa escoriazione sul gomito destro. Mi abbracciò con l’enfasi degli studenti meridionali quando si riconoscono tra loro nei corridoi dei politecnici del profondo nord. «Allora? Questa storia di Rodolfo Valentino?» «Allora tutto il resto!» sbottai. Perché aveva fatto l’idiota per telefono? E soprattutto, perché avevo dovuto interloquire con una pazza che riportava le dinamiche dell’omicidio Pecorelli, e cambiava pronuncia ogni due minuti, e sospirava sui versi di Renato Zero, e mi prendeva in mano la materia? «Chi, – fece lui, – Valentina? che grande artista…» Era quello che restava di un esperimento per finanziare il quale si era alleggerito di ben cinque milioni. Valentina era Settantanove, disse, e si calava anima e corpo nel cul de sac che da via Fani porta alla prima intima stretta del Ghin de Tac coi democristiani, si era capito? Neanche tanto. Mario Materia, quando gli si metteva in dubbio la riuscita di qualche performance o la pregnanza di una semplice idea, si intristiva fino alla prostrazione. Ma poi riguadagnava un certo nerbo e si metteva a spiegare.
Aveva usato questi soldi presi in prestito per finanziare trenta attori – dallo scioglimento dei Beatles ai bombardamenti in Cecenia –, uno per ogni anno che separava i Settanta dal Duemila. Tutti aspiravano a entrare in Accademia, o ne erano stati appena respinti o (meglio) espulsi, e dunque erano stufi di tirare di scherma al «Silvio D’Amico» o di verificare come l’arrosto del funerale del teatro off fosse servito freddo sulla cattedra dei docenti (quindi mangiare o morire d’inedia), ed era proprio una fortuna, allora, incontrare sul viale delle proprie disgrazie questo Mario Materia che ti metteva in mano il tuo primo stipendio da guitto passando un felice colpo di spugna sulle zeta cosí aspre (Reggio Emilia), sulle vocali aperte (Bari e dintorni), sull’impossibilità partenopea di fare fronte al gruppo «sc». A ogni attore veniva assegnato un numerino, come dal panettiere, e si trattava di andarsene in giro a impersonare il relativo anno, horribilis o grotesque che fosse. E dunque piombare la domenica sul mercato di via Sagno e far fiorire Lama Nenni e Berlinguer sul fusto tremebondo dell’Ulivo, e poi, il lunedí mattina, prendere il cappuccino al bar fingendo di non capire: in quale senso, scusi, Totti Vieri e Trezeguet? stiamo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Libro primo Il contesto
  5. Libro secondo Il viaggio
  6. Epilogo