Kim (Einaudi)
eBook - ePub

Kim (Einaudi)

  1. 368 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Kim O'Hara è un ragazzino di Lahore, orfano di un sergente irlandese, che attraversa l'India in compagnia di un lama tibetano alla ricerca di un fiume miracoloso. Oltre ad essere il capolavoro di Kipling, la straordinaria storia di questo ragazzo sveglio e intraprendente che diventa un importante membro del servizio segreto coloniale britannico, è allo stesso tempo un canto alla bellezza e alla cultura indiane e, soprattutto, il ritratto indimenticabile di un adolescente, diviso tra Oriente e Occidente, sedotto dallo splendore militare e soggiogato da un'inquietudine mistica che lo condurrà fino alle pendici dell'Himalaya.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806166984
eBook ISBN
9788858403136
Kim

Capitolo primo

Tu che segui la Via Stretta dai roghi
di Tofet fino al Giorno del Giudizio
sii gentile quando il «pagano» prega
Buddha a Kamakura!
Buddha a Kamakura
Sedeva, beffandosi delle ordinanze municipali, a cavallo del cannone Zam-Zammah, sul suo basamento di mattoni di fronte al vecchio Ajaib-Gher – la Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il museo di Lahore. Chi possiede Zam-Zammah, il «drago che alita fiamme», possiede il Punjab; poiché il grande pezzo di bronzo verde è sempre al primo posto nel bottino del conquistatore.
Qualche giustificazione c’era, per Kim – il quale aveva cacciato dall’affusto il figlio di Lala Dinanath – poiché gli inglesi tenevano il Punjab, e Kim era inglese. Pur essendo egli nero come un tizzo, non meno degli indigeni; pur preferendo parlare il vernacolo, mentre la sua lingua madre la smozzicava con incerta cantilena; pur mischiandosi in perfetta eguaglianza ai ragazzini del bazar, Kim era bianco… un povero fra i piú poveri bianchi. La mezzosangue che lo accudiva (una fumatrice di oppio che faceva finta di tenere una bottega di mobili usati presso la piazza in cui sostano le vetture da nolo a buon mercato) ai missionari diceva di essere la sorella della madre di Kim; ma sua madre era stata bambinaia nella famiglia di un colonnello, e aveva sposato Kimball O’Hara, un giovane sergente portabandiera del reggimento irlandese dei Mavericks. Questi in seguito trovò lavoro alle ferrovie Sind, Punjab & Delhi, e il suo reggimento ritornò in patria senza di lui. La moglie morí di colera a Ferozepore, e O’Hara si lasciò andare al bere e ai vagabondaggi su e giú lungo la strada ferrata, insieme al figlioletto di tre anni dagli occhi vivaci. Istituti e cappellani, impensieriti per il bimbo, cercarono di prenderlo presso di loro, ma O’Hara continuò a girovagare finché non s’imbatté nella donna che fumava oppio, e da lei contrasse il vizio, e morí come muoiono i bianchi poveri in India. Al decesso, i suoi averi constavano di tre documenti: uno che chiamava il suo «ne varietur», perché le due parole erano scritte sotto la sua firma in calce al testo; e un altro il suo «nullaosta di trasferimento» fra le logge. Il terzo era l’atto di nascita di Kim. Nelle ore di ebbrezza da papavero seguitava a ripetere che quelle cose avrebbero comunque fatto del piccolo Kimball un uomo. Mai e poi mai Kim avrebbe dovuto separarsene, poiché afferivano a una grande magia… una magia simile a quella praticata dagli uomini, laggiú, dietro il museo, nel grande Jadoo-gher azzurro e bianco: la Casa magica, come noi chiamiamo la Loggia Massonica. Un giorno, diceva, tutto avrebbe trovato felice conclusione, e il corno di Kim sarebbe asceso alla gloria tra i due pilastri – mostruosi pilastri – della bellezza e della forza. Il Colonnello in persona, su un cavallo, alla testa del miglior reggimento del mondo, si sarebbe preso cura di Kim… del piccolo Kim, che avrebbe avuto sorte piú prospera di suo padre. Novecento diavoli di prima classe, il cui Dio era un Toro Rosso in campo verde, si sarebbero presi cura di Kim, se non avevano dimenticato O’Hara – questo povero O’Hara, caposquadra sulla linea di Ferozepore. Poi piangeva lacrime amare sulla sedia di giunco sgangherata in veranda. E fu cosí che, dopo la sua morte, la donna cucí pergamena, nullaosta e atto di nascita in un astuccio di cuoio per amuleti, e lo appese al collo di Kim.
– E un giorno, – disse, rammentando nebulosamente i vaticinii di O’Hara, – verrà a prenderti un grande Toro Rosso in campo verde, e il Colonnello a cavallo di un gran cavallo, sí… e – passando a parlare inglese – novecento diavoli.
– Oh, – rispose Kim – me ne ricorderò. Verranno un Toro Rosso e un Colonnello a cavallo… ma prima, mio padre diceva, verranno i due uomini a preparare il terreno. Cosí sempre facevano, secondo mio padre; ed è sempre cosí quando gli uomini compiono magie.
Se la donna avesse mandato Kim con quelle carte al Jadoo-Gher locale, egli sarebbe stato certo accolto dalla Loggia Provinciale, e inviato all’orfanotrofio massonico tra i monti; ma per quello che aveva sentito dire della magia, non si fidava. E anche Kim, la pensava a modo suo. Giunto all’età dell’indiscrezione, apprese a evitare i missionari e i bianchi dall’aria seriosa che chiedevano chi fosse e cosa facesse. Perché Kim non faceva un bel nulla, e con strepitoso successo. Vero, conosceva la magnifica città murata di Lahore, da Delhi Gate fin laggiú a Fort Ditch; si accompagnava a individui che conducevano vite piú bizzarre di un sogno di Harún ar-Raschid; e la sua, vita, era tanto avventurosa da poter stare nelle Mille e una notte: ma di una bellezza, che i missionari e i segretari degli istituti di carità non potevano vedere. Nei rioni lo soprannominavano «Piccolo Amico di tutto il Mondo»; e spesso, sgusciante e sfuggente com’era, sbrigava commissioni notturne sui tetti affollati, a beneficio di giovani bellimbusti azzimati e lustri. Erano tresche, certo – questo lui lo sapeva, come tutto sapeva già del male, da quando aveva imparato a parlare – ma quello che adorava era il gioco in quanto tale – le ronde furtive nel buio per vicoli e rigagnoli, l’inerpicata lungo un pluviale, le immagini e i rumori del mondo femminile sulle piane tettoie, e il volo a precipizio dall’uno all’altro tetto col favore del buio rovente. Poi c’erano i santoni, fachiri cosparsi di cenere presso i loro tempietti di mattone sotto gli alberi, lungo il fiume, con i quali intratteneva rapporti familiari: li salutava al loro ritorno dalla questua e, se non c’era nessuno lí intorno, mangiava dal loro stesso piatto. La donna che lo accudiva insisteva piangendo che avrebbe dovuto indossare panni di foggia europea – calzoni, camicia, e un cappello ammaccato. Ma quando si occupava di certi suoi affari, Kim trovava piú comodo vestire come gli indú o i maomettani. Una volta uno dei bellimbusti – quello che trovarono morto in fondo a un pozzo la notte del terremoto – gli aveva dato un completo da indú – la tenuta di un monello da strada di bassa casta – e Kim lo serbava nascosto sotto delle travi nel deposito di legna di Nila Ram, dietro l’Alta Corte del Punjab, dove i tronchi fragranti di deodara, dopo avere disceso il Ravi, vengono lasciati a stagionare. Quando era tempo di lavoro o di burle, Kim faceva ricorso a quei vestiti tornando poi all’alba alla veranda, esausto dal troppo vociare sulla scia di un corteo di matrimonio, o dal troppo sbellicarsi a una festa indú. A volte nella casa c’era cibo, ma di regola no; e allora Kim tornava fuori, per mangiare con i suoi amici indigeni.
Mentre tamburellava i calcagni contro Zam-Zammah, ogni tanto interrompeva di giocare al re del castello con il piccolo Chota Lal e Abdullah – il figlio del venditore di dolci – per rivolgere qualche impertinenza al poliziotto indigeno di guardia alle file di scarpe presso la soglia del museo. Il grosso punjabi sorrideva tollerante: conosceva Kim da lungo tempo. E altrettanto l’acquaiolo, che dall’otre di pelle di capra rovesciava l’acqua sulla strada riarsa. E altrettanto Jamwhir Singh, il falegname del museo, chino alle nuove casse per l’imballaggio. E altrettanto tutti gli altri, lí attorno, eccetto i contadini della campagna, che accorrevano alla Casa delle Meraviglie per vedere i manufatti fabbricati dagli uomini nella loro provincia e altrove. Il museo era dedicato alle arti e ai prodotti indiani, e chiunque volesse saperne di piú poteva chiedere lumi al Conservatore.
– Via! Via! Fammi salire! – gridò Abdullah, arrampicandosi sulla ruota di Zam-Zammah.
– Tuo padre era un pasticciere, e tua madre rubava il ghi –, canterellò Kim. – È da tanto che tutti i musulmani sono caduti da Zam-Zammah!
– Fai salire me! – strillò il piccolo Chota Lal, con il berretto ricamato d’oro. Suo padre valeva forse mezzo milione di sterline, ma l’India è l’unico paese democratico del mondo.
– Anche gli indú son caduti da Zam-Zammah. I musulmani li han buttati giú. Tuo padre era un pasticciere…
Si interruppe: poiché da dietro l’angolo, dal clamore del Motee bazar, si avvicinava un uomo quale Kim, che si piccava di conoscere tutte le caste, non aveva mai visto. Era alto piú di un metro e ottanta, vestito con una pletora di panneggi di tessuto frusto, simile a una gualdrappa, e Kim non seppe ascrivere nessuna fra tutte quelle pieghe a un mestiere o professione di sua conoscenza. Teneva penzoloni alla cintura un lungo portapenne di ferro traforato e un rosario di legno simile a quelli dei santoni. Sul capo aveva una specie di gigantesco berretto scozzese. Il viso era giallo e grinzoso come quello di Fook Singh, il calzolaio cinese del bazar. Gli occhi a mandorla sembravano fenditure di onice.
– Chi è quello? – chiese Kim ai suoi compagni.
– Forse un uomo, – rispose Abdullah, guardando con un dito in bocca.
– Su questo non c’è dubbio, – replicò Kim, – ma non un uomo che io abbia mai visto in India.
– Un prete, forse… – suggerí Chota Lal sbirciando il rosario. – Guardate! Si dirige alla Casa delle Meraviglie.
– No, no, – rispose il poliziotto scuotendo la testa. – Non capisco la tua lingua. – La guardia parlava punjabi. – O Amico di tutto il Mondo, che dice?
– Fallo venire qui, – gli fece Kim; e scese con un salto da Zam-Zammah mostrando i talloni nudi. – È un forestiero, e tu sei un bufalo.
L’uomo si volse con fare smarrito e andò verso i ragazzi. Era vecchio, e il gabbano di lana odorava ancora forte dell’artemisia dei valichi montani.
– Oh, bambini… che cos’è quella grande casa? – chiese in ottimo urdu.
– L’Ajaib-Gher, la Casa delle Meraviglie! – Kim non lo chiamò con nessun appellativo… né Lala, né Mian. Non riusciva a indovinare quale fede seguisse.
– Ah! La Casa delle Meraviglie! Si può entrare?
– Sta scritto sulla porta: tutti possono entrare.
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– Senza pagare?
– Io entro ed esco. E di certo non sono un banchiere, – rise Kim.
– Ahimé! Io sono vecchio. Lo ignoravo –. Poi, giocherellando con il rosario, fece un mezzo giro su se stesso in direzione del museo.
– A che casta appartieni? Dov’è la tua casa? Vieni da lontano? – gli domandò Kim.
– Vengo da Kulu… di là dal Kailas… ma come puoi conoscerlo? Fra i Monti dove – sospirò – l’aria e le acque sono fresche e limpide.
– Aha! Khitai (un cinese), – disse orgogliosamente Abdullah. Una volta Fook Singh l’aveva cacciato dalla sua bottega perché aveva sputato sull’idolo che stava sopra le scarpe.
– Pahari (un montanaro), – disse il piccolo Chota Lal.
– Sí, figliolo… un montanaro di monti che tu non vedrai mai. Sentito qualche volta parlare del Botiyal (Tibet)? Io non sono un Khitai, dovete sapere, ma un Bhotiya (un tibetano)… un lama: o, diciamo, nella vostra lingua, un guru.
– Un guru tibetano, – disse Kim. – Non ne avevo mai visti. Dunque sono indú, in Tibet?
– Noi siamo seguaci della Via di Mezzo, viviamo in pace nelle nostre lamasserie, e prima di morire mi sto recando a visitare i Quattro Luoghi Sacri. E ora voi, che siete bimbi ne sapete quanto me che sono un vecchio –. E fece un sorriso benevolo ai ragazzi.
– Hai mangiato?
L’uomo si frugò in seno e tirò fuori una logora ciotola di legno per la questua. I ragazzi annuirono. Tutti i preti di loro conoscenza elemosinavano.
– Non ho ancora desiderio di mangiare. – Volse la testa al sole come una vecchia tartaruga. – È vero che vi sono molte immagini nella Casa delle Meraviglie di Lahore? – Ripeté quelle ultime parole come chi chieda conferma di un indirizzo.
– È vero, – rispose Abdullah. – È piena di but pagani. Anche tu sei un idolatra.
– Non gli badare, –interloquí Kim. – È il palazzo del governo, e non contiene idolatria, ma solo un sahib dalla barba bianca. Seguimi, e ti mostrerò.
– I preti sconosciuti mangiano i bambini, – sussurrò Chota Lal.
– E lui è uno sconosciuto, e un but-parast (idolatra), – soggiunse Adbullah il maomettano.
Kim rise. – È nuovo… correte a mettervi in salvo fra le gonne della mamma. Vieni!
Kim fece scattare il tornello e passò oltre; il vecchio lo seguí, e poi si fermò attonito. Nell’atrio si elevavano le opere piú grandi realizzate dalla scultura greco-buddhista , solo i dotti sanno quando, da artieri le cui mani perseguivano, e non senza maestria, il tocco greco misteriosamente tramandato. Vi erano centinaia di pezzi: fregi con figure in rilievo, frammenti di statue e lastre fitte fitte di figure che avevano incrostato le pareti di mattoni degli stupa e dei vihara buddhisti nel Nord, e ora, ritrovate e catalogate, erano il vanto del museo. A bocca aperta per lo stupore, il lama guardò questo e quel pezzo, e alla fine ristette come in estasi nella contemplazione di un altorilievo con l’incoronazione o l’apoteosi del Signore Buddha. Il Maestro era ritratto assiso su un loto dai petali scavati cosí a fondo da apparire quasi staccati. Lo attorniava una gerarchia adorante di re, anziani e Buddha piú antichi. Sotto, c’erano acque ricoperte di loti, con pesci e uccelli acquatici. Due dewa dalle ali di farfalla gli tenevano una ghirlanda in capo; e al di sopra di essi un’altra coppia reggeva un ombrellone sormontato dal gemmato diadema del Bodhisat.
– Il Signore! Il Signore! È proprio Sakya Muni, – diceva il lama quasi singhiozzando; e intonò sottovoce la meravigliosa invocazione buddhista:
A Lui la Via e la Legge
che Maya tenne sotto il cuore,
il Bodhisat, di Ananda Signore.
– Ed Egli è qui! Ed è qui anche l’Eccellentissima fra le Leggi. Il mio pellegrinaggio incomincia bene. E che opera! Che opera!
– Il sahib è laggiú, – disse Kim, e guizzò fra le teche dell’ala delle arti e dei manufatti. Un inglese con la barba bianca stava guardando il lama, il quale si girò gravemente salutandolo, e dopo aver frugato un momento tirò fuori un taccuino e un pezzo di carta.
– Sí, quello è il nome… – disse il Conservatore sorridendo alla grafia goffa, infantile.
– Me l’ha dato uno di noi, che ha compiuto il pellegrinaggio ai Luoghi sacri… ed è ora abate del Monastero di Lung-Cho, – balbettò il lama. – Mi ha parlato di questo –. La mano magra e tremula si mosse a indicare intorno.
– E allora benvenuto, o lama del Tibet. Ecco qui le immagini, ed eccomi io stesso, – diede uno sguardo alla faccia del lama, – per ricevere la conoscenza. Vieni un poco nel mio ufficio –. Il vecchio tremava dall’emozione.
L’ufficio altro non era che un bugigattolo con un tramezzo a separarlo dalla galleria bordata di statue. Kim si abbassò, l’orecchio contro una fessura aperta dal caldo nella porta di cedro e, seguendo il suo istinto, si protese per vedere e ascoltare.
Gran parte della conversazione non gli fu comprensibile. Il lama, prima esitante, parlò al Conservatore della propria lamasseria, la Such-zen, antistante le Rocce Dipinte, a quattro mesi di cammino. Il Conservatore estrasse un grande album di fotografie e gli mostrò esattamente quel luogo, appollaiato su di una rupe che dominava la gigantesca valle a strati multicolori.
– Sí, sí! – Il lama inforcò un paio di occhiali con la montatura in corno di fattura cinese. – Ecco la porticina da cui facciamo entrare il legno prima dell’inverno. E tu… gli inglesi sanno queste cose? Colui che ora è l’Abate di Ung-Che me l’aveva detto, ma io non gli credetti. Il Signore… l’Eccellentissimo… viene onorato anche qui? E la sua vita è nota?
– Sta tutta incisa nelle pietre. Vieni a vedere, se hai riposato.
Il lama ciabattò nella sala principale e, con il Conservatore al suo fianco, passò in rassegna la collezione con la reverenza di un devoto e l’istinto a valutare di un artefice.
Riconobbe episodio dopo episodio della splendida storia, sconcertato qua e là dalla maniera greca poco familiare, ma deliziato come un bimbo a ogni nuova scoperta. Laddove la sequenza si spezzava, come nell’Annunciazione, il Conservatore suppliva, con fotografie e riproduzioni tratte dalla sua scorta di libri in francese e in tedesco.
Ecco il devoto Asita, equivalente di Simeone nella storia cristiana, che teneva il Santo Bambino sulle ginocchia mentre sua madre e suo padre ascoltavano; ed ecco gli episodi della leggenda del cugino Devadatta. Ecco avvilita la malvagia donna che accusò il Maestro di impurità; ecco la predicazione nel Parco dei Cervi; il miracolo che sbalordí gli adoratori del fuoco; ecco il Bodhisat nei reali paludamenti del principe; la nascita miracolosa; la morte a Kusinagara, dove il discepolo debole venne meno; mentre pressoché innumeri erano le repliche della meditazione sotto l’albero della Bodhi; e l’adorazione della ciotola per la questua era ovunque. In pochi minuti il Conservatore vide che il suo ospite non era il semplice mendicante che snocciola rosari, ma uno studioso di vaglia. E riesaminarono ancora tutto quanto, mentre il lama fiutava tabacco, si puliva gli occhiali e parlava spedito come un treno in un misto stupefacente di urdu e tibetano. Aveva sentito dire dei viaggi dei pellegrini cinesi Fa-Hsien e Hiuen Tsiang, ed era ansioso di sapere se esistesse una traduzione della loro cronaca. Trattenne il fiato mentre sfogliava smarrito le pagine di Beal e di Stanislas Julien. – È tutto qui. Un tesoro sotto ch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Fra i raggi della Ruota di Claudio Magris
  5. Kim
  6. Glossario
  7. Indice