Sabato…
«Viiiiiveeereee, senza maliinconiiiaaa, viiveere, senza malinconiiiaa», mi sono alzato cantando, forse grazie a qualche traccia di alcol di stanotte, ancora nelle vene. «Viiiiiveeereee…», ho ripetuto un po’ di volte solo alzando la voce, perché non sapevo andare avanti. Deve essere una canzone di un secolo fa, riemersa in uno dei sogni che ho fatto. Forse la sentivo cantare per strada dal garzone del panettiere, quando ero piccolo. O da un mio zio vecchio scopatore che andava nell’orto a dare una controllatina al culo delle giornaliere. Per fortuna i sogni non li ricordo bene, ma ho l’impressione che ci fosse di tutto. Sogni riassuntivi, come si preparasse una fine – di una stagione almeno –, come si cercasse di tirare delle somme. «Vai sempre a tirar fuori delle robe, tu!…», mi avrebbe rimproverato mia madre fissandomi preoccupata. Non io, le risponderei adesso, ma qualcuno dentro di me…
«Viiiiiveeereee… Viiiiiveeereee…», ho ripreso a cantare, per distrarmi, e anche perché questa parte mi sembrava la piú importante. È sabato, e il sabato è un bel giorno. Dal sabato del villaggio in poi. Figurarsi nelle grandi città. E anche qui a Torino, piccola provincia, possono succedere tante cose. Anzi, oggi devono succedere. Non è ancora la vita nuova, che comincia lunedí, ma è già un altro giorno dopo la fine. Che è stata ieri.
Faccio la mia lenta colazione, ovvero due o tre tazze di caffè e le videate dei giornali di oggi su internet, poi telefono a David. Risponde Annette, sua moglie, prova a passarmelo, lo sento biascicare poche parole, difficili da capire. Ma qualcosa intuisco. Gli dico che cambierò subito le prenotazioni: lunedí a Zurigo, tutto il giorno con lui, e di lí proseguirò poi per Londra. Per iniziare martedí mattina… Anche se né di venere né di marte… mi verrebbe da dirgli. Un giorno di ritardo sull’inizio della nuova vita, beh, mi spiace, ma che ci posso fare? È da ieri che tutto continua a cambiare.
Visto che non è presto, comincio a mandare sms ad amiche e amici. Messaggi seriosi, ai pochi rimasti. E telefonate a chi non legge gli sms. Sono lontani i tempi in cui osavo provocare, magari di notte, quando non riuscivo a dormire. Allora riaccendevo la luce e scrivevo:
‘COME C’È LAI?’
c’era scritto nel cesso
dell’istituto dove una volta
ho fatto supplenza. E io
andavo sempre a pisciare
per farmi rifare quella
domanda allettante e
perfetta.
A distanza di anni sentivo risuonare un’eco dantesca in quel «lai», come se l’errore fosse un lamento che denunciava lo stato d’animo del ragazzo, la necessità di quella domanda, il desiderio e l’angoscia che erano passati dai suoi pensieri al gessetto. Ma le mie amiche, anche le iscritte alla Crusca, anche Susanna, ovvero Suor Algida, che recitava terzine di Dante come fossero stati proverbi napoletani, non potevano cogliere queste risonanze, shoccate dal fatto che si parlasse di cazzo.
Il mattino seguente, dopo le nove e mezza, arrivavano le risposte. All’ora delle signore. L’unica a rispondere subito, nel cuore della notte, era Elisa, l’outsider. Con un talento formidabile. Divina.
Vedi, Gianni? Dobbiamo
affrettarci anche noi a
scrivere una poesia in
qualche cesso, per
passare alla storia, per
rimanere almeno in
qualche memoria…
La Signora Teocon avrebbe letto un messaggio solo se le fosse arrivato per posta. In questo caso avrebbe brandito la sua stilografica o una Lettera 22 e su un foglio di carta raffinatissima, senza nome, col solo indirizzo stampato, quasi fosse 10, Downing Street, me ne avrebbe scritte, gelidamente, di tutti i colori, a raffica, partendo dall’igiene dei cessi oggi utilizzati solo dai tossici per farsi le pere fino a stigmatizzare questa nevrosi tutta moderna dei ragazzi circa le dimensioni del loro orrido coso. Al punto che lei era stata persino costretta a mandare alcuni suoi giovani assistiti a una visita medica, perché la dichiarazione scritta di uno specialista sulle misure conformi dei loro organi genitali costringesse questi ragazzi a piantarla con il lagnoso senso di inferiorità. Loro, già con mille problemi veri ancora con la stupida fissa d’avercelo piccolo… Come se la cosa avesse una qualche importanza… Insopportabili, secondo lei. Io invece li avrei baciati.
Allora prendo il coraggio a quattro mani e le telefono, discolo anch’io, per informarla sulla mia ultima, terribile marachella. Pronto ad ascoltare le sue rimostranze, le critiche, le reprimende, i tentativi di correggere un altro dei miei errori. Invece La Signora Teocon è stranamente remissiva, non fa tante domande, sembra soltanto prendere atto di quel che le comunico, senza lasciarsi ai commenti. Probabilmente se ne sta immersa nella sua vasca da bagno, sospesa sulle bolle, le correnti e i massaggi della Jacuzzi. Meglio cosí, me ne libero in fretta, con un sospiro di sollievo.
A Susanna invece ho mandato un sms, come sempre.Ma stavolta non risponde. Altro vuoto. Mi aspettavo un altro dei suoi nonsense, le spiritosate brevi in cui gioca la carta dell’ingenuità o della leggerezza, secondo lei. Come quando le mandavo di notte i messaggi dei ragazzi:
‘Come ce l’hai?’ io lo
chiedo al gelataio di piazza
Euclide e lui risponde sempre
‘Bono, signò, bono!’
Quando l’ho conosciuta, Susanna citava Stanley Kubrick, anche con qualche forzatura, una settimana sí e una no sulla sua pagina di critica del cinema, pareva l’avesse scoperto e lanciato lei in Italia, poi andava a incontrarlo nel suo ritiro di Childwickbury, vicino a St Albans, a nord di Londra, forse per consigliarlo o per concordare con lui servizi culturali sui suoi lavori. Una donna intelligente, senza dubbio, ma se non conoscevi Cioran con lei non riuscivi a parlare. Appena lo capiva drizzava la schiena, nel suo salotto tappezzato di libri, sembrava un tenore che attacca una romanza, impostava la voce sui toni bassi, da maschio tragico, e ti impartiva una bella lezione. Cosí facendo era riuscita a crearsi la fama e il rispetto della dura dal punto di vista culturale in un ambiente, quello del cinema, ad alta incidenza di analfabetismo.
Conoscendola meglio rimanevi stranito. Ti accorgevi che piú di ogni altro sentimento era l’invidia a muoverla. E ti chiedevi perché. Non c’erano ragioni. Eppure aveva segreti travasi di bile che intuivi da brevi malumori che la rendevano d’improvviso silenziosa. Per amore, per qualche amicizia, per ciò che gli altri riuscivano a fare. L’amarezza affiorava sul suo volto. Il fatto che niente di suo, malgrado l’autorità che tanti le riconoscevano, approdasse mai alla stampa in un volume le provocava un risentimento che poco a poco è degenerato in un vero e proprio calando intellettuale e sessuale. S’è allontanata dai filosofi, dai grandi registi e dagli amanti. Nuovo ideale programmatico, o meglio, nuova scusante, è diventato l’artista settecentesco, colui che non esita ad abbassarsi, apparentemente, perché capace di esprimere la sua arte in qualunque cosa gli venga commissionata.
Pur di vincere la mala sorte, pur di riuscire a veder pubblicato quel che scriveva, Susanna le ha tentate tutte. Poesie, racconti, romanzi, drammi per il teatro – su cui persino Sarah ha glissato – e intanto, nell’attesa di qualche risposta, ha preso a tradurre, ovvero a declassare, le cose che aveva scritto ripensandole per il cinema, ed è finita, in fondo al percorso, a lavorare per la tv. Magari sotto pseudonimo. «… per appassionarsi a un mestiere di merda, bisogna merdificarsi», scrive un grande esperto dell’Occidente attuale. E Susanna c’è riuscita bene, persino con entusiasmo, incoraggiata dal successo delle sue nuove cacatine. Adesso, dopo tanti anni, i dirigenti di Rai Uno ogni volta definiscono le sue proposte «perle» o «veri gioielli», e li accodano sempre alla loro waiting list. In una sua storia, pensata come un grande romanzo, da non sacrificare mai al piccolo – in tutti i sensi – schermo, c’è una giovane coppia di omosessuali, uno frocetti l’altro frocione, uno dolce a cui piace far marmellate e l’altro manager, duro, vestito proprio come si vestono i manager d’oggi, con la camicia bianca, l’abito grigio scuro e le scarpe chiare, tinta cuoio. I due osano andare in giro, in pubbliche conferenze e talk show a rivendicare la loro normalità di coppia e il loro diritto di adottare un figlio. Aveste letto… Roba da far accapponare la pelle.
Prima di tutto mi viene da dire che alle donne dovrebbe essere proibito scrivere di froci. E l’ho sempre detto e ripetuto anche a quella mia amica che mi sfidava con una tipica formula sessantottesca che dice che non c’è bisogno di essere una gallina per capire se un uovo è marcio. Argomento questo che piace anche a Susanna, nel contenuto, non nella formulazione che lei trova rude. Beh, continuerò a ripeterlo, ci sono galline, americane specialmente, piccole e colorate, stupidissime, che proprio non sanno niente di uova, fresche o marce che siano, eppure scrivono di froci in romanzetti fasulli e irreali o addirittura in saghe rosa con frocetti uguali a martiri che scopano pudichi, fanno tutto senza lasciar capire niente, grandi passioni sotto le coperte, o in sponde erbose di laghi, su letti di petali di fiori, e poi d’improvviso muoiono per la causa della liberazione e sembrano valorosi eroi neri uccisi dopo l’abolizione della schiavitú. Ma forse sono ingiusto: anche tanti froci, come le donne, dovrebbero evitare di scrivere storielle gay da leggere in metrò, con i soliti tumulti adolescenziali, i giovani belli e sensibili o le nuove normalità di coppie mature e doppiamente noiose.
A parte cacate come queste, il romanzo della mia amica era ancora peggio. Leggendolo, come è toccato fare a me in diverse stesure, si provava un senso di imbarazzo. Ci si vergognava. Non c’era una frase, un gesto in cui si avvertisse qualcosa della particolarità e delle caratteristiche di qualche genere di omosessuale. Niente. E pensare che Susanna ha tanti amici froci e lesbiche. Ma fa come se non lo fossero, e lei ovviamente pensa che questo sia il miglior segno di apertura. La sua storia doveva esser stata scritta cosí: il frocetto nelle prime stesure si chiamava Maria, poi col computer, usando trova e sostituisci, Maria è diventato Mario, e i lei lui, cosí lo scandalo psicologicamente profondo di una coppia gay si è palesato al grande pubblico dei lettori. A me diceva, dopo che le ho fatto conoscere Manu: «Ti preferisco solo. Solo sei meglio». Certo, andavo meglio solo, taciturno e pieno di domande e rovelli, piuttosto che contento e teso a soddisfare i capricci di Manu, in una coppia palesemente non normale formata da un vecchio e un ragazzo. E per niente domestica o fasulla come quella dei suoi froci.
Susanna e io, col tempo, siamo peggiorati in maniera opposta. A un certo punto però mi sono stancato di velare e di tacere, ho preso a parlare della mia vita sentimentale e sessuale. In maniera esplicita. Ma non sono riuscito ad andare tanto avanti, perché dall’altra parte ho sentito alzarsi un muro. Si irrigidiva, dura come un baccalà, non appena diventavo piú confidenziale. Oppure se ne usciva con cose del genere: «Cosí tu priverai la tua vita dell’esperienza di fare l’amore con un bell’uomo maturo, con un signore, che so, come il produttore Leonardi, o un intellettuale come Eco?…» «E tu, – mi toccava rispondere inorridito, – abbraccerai mai uno dei tuoi splendidi cespugli di antiche rose inglesi? Morirai senza provare almeno una volta l’esperienza di buttarti nuda e di rotolarti lí in mezzo?!» Perché lei è un’altra di quelle che ha messo la fica in soffitta, anzi, una sera, di ritorno da una festa, l’ha arrotolata come un abito lungo e costoso che non era servito a conquistare chi voleva lei e l’ha gettata rabbiosa nel fondo di un armadio. Era stanca di amanti dall’alito pesante, dice lei, e del marito, piccolo imprenditore che la tradiva con qualunque femmina. Anche a lei, come ad altre mie amiche, la fica non ha portato fortuna. Capivo la sua amarezza. Col tempo però la ferita deve essersi cicatrizzata. Susanna ha stretto le gambe e allargato il giro delle frequentazioni, si è abituata a chiudere non solo uno ma tutti e due gli occhi col marito, anzi, hanno ripreso a stare assieme in una pace tutta fraterna. Soltanto, come avessero paura di rimanere da soli, continuano a invitare amici vecchi e nuovi nelle loro case a Cortina e sull’Argentario. Ospiti splendidi e munifici. Ma vendicativi: guai a chi sfugge agli inviti nei loro ritiri, nei rustici isolati dove le giornate scorrono lente tra la lettura dei giornali, le citazioni e le discussioni un po’ forzate, la spesa dai contadini o dai pescatori nel borgo, la spiaggia privata col picnic a base di pomodoro, mozzarella e olio dei loro uliveti e poi i sonnellini pomeridiani, il lavoro in cucina e a sera gli aperitivi e le cene in giardino.
freetodesire scrive:
Ei ! Dove
giovanni scrive:
Ciao Stronzetto! Che piacere sentirti, bello. Mi sono collegato adesso per vedere la posta. Sono appena tornato dal mare…
freetodesire scrive:
Beato te. Bello? Trovato qualcuno? Avviato il processo delle corna o consumato subito ?
giovanni scrive:
Ma che corna! Un posto bellissimo che a te non piacerebbe. Spiaggia privata… Un deserto…
freetodesire scrive:
Che chic ! Sei sempre l’unico. In tutto. Quelli come te vanno tutti assieme a Ibiza o a Mikonos. Io comunque sono ancora a
La carovana non è ancora pronta. Si parte domani, anzi stanotte alle quattro !!! Pensa che bello! Mi viene male …
freetodesire scrive:
Adesso fermentano i preparativi. Padre2 carica la macchina. Sono i giorni della sua felicità. Tutti chiusi insieme… E lui che pilota i cammelli. Poi per venti giorni tutti liberi e felici di non trombare…
freetodesire scrive:
Mezzo Fratello dorme nel letto matrimoniale con loro. Solo io posso uscire da solo…
giovanni scrive:
Perché credi che qui si scopi? In un convento si combinerebbe di piú… Siamo controllati a vista. E poi qui nessuno pensa a scopare. Tranne…
freetodesire scrive:
Attento a te ! … Tento a quel che fai !!!
Che poi a casa aggiustiamo i conti…
SCHERZO DAI !!!
giovanni scrive:
Pensa a quello che fai tu.
Te ne fai già troppi a To
freetodesire scrive:
Ma è l’ultimo anno che vado in vacanza con i miei, altrimenti la prossima volta piuttosto io
giovanni scrive:
Solito esagerato…
freetodesire scrive:
in vacanza si và per scopare, altrimenti che vacanza è ?
freetodesire scrive:
e poi scopando io faccio del bene. Faccio contento qualcuno… Come te !!!
freetodesire scrive:
giovanni scrive:
Figurati. Lo so che sei un ragazzo altruista, un benefattore…
La tua bellezza è un dono per noi poveri bruttacchioni…
giovanni scrive:
E mentre fai del bene a noi vecchi gratifichi anche te stesso, godi perché piaci e guadagni pure. Ti confesso che vorrei fare anch’io come te.
freetodesire scrive:
Bè, non ci avevo mai pensato. Forse è vero.
Mi sorprendi sempre, come te non ce ne sono !!!
freetodesire scrive:
Ma ora devo andare. Sui cammelli il mio pc non ci sta, quindi ci sentiamo con i sms. NON PENSARMI TROPPO !!!
SCHERZOOOO. Bacio.
by Ale
Ogni due o tre sere a cena da Susanna vengono invitati ospiti di casali e ville toscane, o celebrità in transito. La famosa nightlife dell’Argentario. Spesso, un tempo, cucinavo io. Persino sushi e sashimi, pesci e polpi comprati dai pescatori al mattino presto e ingredienti che portavo da Londra. A sera arrivavano scrittrici dal doppio cognome con cotonature come fossero andate a prendere il premio Strega, grandi direttori del grande apparato Mondadori, rispettati esperti di generi letterari che non valgono niente ma che fanno soldi, giornalisti a iosa, temuti recensori delle pagine culturali, colleghi di Susanna, capaci di trasformare i comunicati stampa delle case editrici in acute interviste all’autore, sceneggiatori di cinema e tv noti come attori, famosi registi italiani. Una accolita di star da vezzeggiare. Tutti in coppie normali (anche per il numero di corna che si fanno, ma in città) e froci e playboy d’antan ammessi rigorosamente soli. Col saio. E le boccucce serrate a culo di gallina.
Susanna è brava a imporre questo clima, è come quelle gattare che la prima cosa che amano fare ai gatti è castrarli. I suoi ospiti, almeno per una sera, diventano castrati. E magari, proprio per questo, cantano meglio. Lei gode nell’inventare un pretesto per lusingare una scrittrice che non ha mai scritto una riga che rimarrà. Grandi serate. E quando gli ospiti per fortuna se ne vanno, d’obbligo i commenti. Insopportabili.
Alla fine, in un silenzio pieno di grilli e di rane, e di lucciole finalmente tornate, nello splendido giardino vicino alla discesa al mare e all’insenatura privata, si spengono le luci, per contare le stelle cadenti. Ogni anno è una gara. «E due!», si sente gridare. «Là, eccola! Io tre!» Poi il silenzio per esprimere i desideri.
Io fissavo il blu fondo e mi veniva in mente quando mio padre, da piccolo, mi portava fuori dal cortile della nostra cascina nella campagna piemontese, ai bordi dell’orto, e mi faceva vedere il Grande Carro e mi insegnava a trovare la stella del Nord. Poi rimanevo lí con gli occhi fissi al tratto piú chiaro dell’orizzonte, teso a cogliere il lontano sferragliare di un treno. Là c’era Alessandria, e quei treni, per me, congiungevano luminose fortune. Le città, con le luci, i filobus e i tram, gli ascensori, la folla, mi parevano i luoghi della contentezza, posti misteriosi in cui il mistero si svelava, dove tutto esisteva, si trovava, accadeva. Il contrario del paese buio e sonnolento in cui abitavo e che per chissà quanto tempo ancora doveva tenermi prigioniero. Fermo nell’ombra della campagna, come sulla remota sponda di un lago nero, era un vuoto della vita, allora, a farmi sentire sequestrato, vittima di un’attesa gonfia di sogni. E pure adesso, lí nel casale sull’Argentario, in una penombra che la luna rendeva chiara, con gli occhi fissi sopra la sagoma di cipressi e ulivi, era un vuoto simile a tenermi prigioniero. Pensavo a Adi, a Stronzetto, a Manu, a Jirka e a Leon, a Luca e a Pisellotto e a Max, a tutti i miei amici e amori ragazzi, loro belli e giovani, lontani a divertirsi in mezzo alla gente, io rinchiuso con altri vecchi in un noioso convento. E alla prima stella cadente il desiderio che puntualmente esprimevo era che finissero presto i giorni di quella vacanza.
Quando ho cominciato ad accorciare i miei soggiorni, ad accusare malattie e impegni lavorativi per cancellare alcune giornate di galera, a Susanna sono piaciuto meno. Un tempo mi amava, siamo stati vicini a scopare (sí,...