Matrimonio combinato
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Matrimonio combinato

  1. 300 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Storia dopo storia le protagoniste di questi racconti finiscono per sembrare tante variazioni di un unico personaggio centrale: la giovane donna indiana immigrata negli Stati Uniti alle prese con progetti matrimoniali, obblighi coniugali, questioni patrimoniali. Tutte ugualmente «in bilico», le donne della Divakaruni vivono sulla propria pelle il conflitto fra l'antica società patriarcale e le nuove vite dove sperimentare soddisfazioni e angosce inedite. Molte di loro sceglieranno di deludere le aspettative tradizionali, di andare a convivere, di liberarsi di un marito crudele o piú semplicemente di indossare abiti occidentali. Ricomporre le loro esistenze secondo nuovi schemi non sarà né facile, né indolore.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806174224
eBook ISBN
9788858403204

La storia della cameriera

Il sole del pomeriggio accende di bagliori le pieghe morbide del sari bianco e rosso di Deepa Mashi, mentre con un sospiro di soddisfazione per il pasto appena consumato mia zia si abbandona all’indietro sulla sedia a sdraio cosparsa di cuscini. La luce le splende nei capelli, ancora lucidi e neri come nella mia infanzia, quando amavo farvi scorrere le dita. Gli uccelli ghu-ghu tubano nell’ombra tranquilla al riparo delle gronde di casa sua, e in lontananza sento il richiamo attutito del venditore di kulfi che ripete: «gelati freschi freschi, gelati dolci dolci». Per un attimo mi sembra di non essermene mai andata da Calcutta.
Poi Mashi dice: – Allora, Manisha, ho saputo che ti sposerai presto.
Non sono sorpresa di questo commento. Mi aspettavo una frase del genere fin da quando, in tono di studiata indifferenza, avevo accennato a mia madre di avere conosciuto un professore bengalese all’università della California dove insegno inglese. Eppure una delusione aspra e amara mi stringe la gola. Speravo che questa volta le cose sarebbero andate diversamente tra me e mia madre.
Le avevo parlato di Bijoy la prima sera, appena arrivata a casa. Eravamo sole nel suo piccolo appartamento affacciato sul giardino pubblico pieno di alberi di kadam, che esalavano nell’aria scura e umida il loro profumo troppo dolce. Ci servimmo delle vivande cucinate dalla cameriera prima di andarsene. Riso, dal, un semplice stufato di cavolfiore alle spezie. Mia madre vive in modo spartano. Le melodie del Rabindra Sangeet fluttuavano dalla radio dei vicini nell’aria immobile della sera – «Ami chini go chini tomare, ti conosco bene, donna di una terra lontana al di là dell’oceano». Mi parve fosse il momento giusto per parlare, se non come madre e figlia, almeno da donne adulte e intelligenti.
Ma quando mi fui confidata, lei si limitò a sollevare lo sguardo e a scoccarmi un’occhiata che poteva essere sospettosa o soffusa di disapprovazione, o addirittura esprimere sollievo perché sull’orizzonte desolato delle mie prospettive coniugali si era finalmente profilato un candidato al ruolo di marito. Non sono mai stata brava a leggere negli occhi di mia madre. – Ne sono davvero felice, cara, – commentò. Poi riprese a descrivere la cerimonia di battesimo del figlio maggiore di mia cugina a Burdwan, l’anno scorso.
Deepa Mashi aspetta la mia risposta. Perciò mi sforzo di ridere e alzo le mani in un gesto di esagerata protesta, sentendomi risucchiata all’indietro dall’abitudine infantile di nascondere la sofferenza con l’allegria. – Mashi! Ho appena cominciato a frequentare Bijoy! Nessuno ha parlato di matrimonio finora.
La zia apre la scatoletta d’argento del paan, sceglie con cura una foglia di betel arrotolata e se la mette in bocca. – Vi conoscete da due mesi, no?
«Quando, mi chiedo – come ho fatto per tutti gli anni della mia infanzia – le due sorelle hanno trovato il modo di incontrarsi per discutere della loro errabonda figlia e nipote?» Tutto il risentimento che provo si concentra su mia madre: dovrebbe essere lei a pormi queste domande, non mia zia, per quanto bene le possa volere.
– Lo sai per quanto tempo ho frequentato tuo zio prima di sposarlo? – continua Deepa Mashi.
Certo che lo so. Me l’ha detto centinaia di volte. Ma so anche quanto le piaccia ripeterlo. Perciò le offro un sorriso affettuoso e pieno di aspettativa.
– Quindici minuti durante la cerimonia di presentazione della sposa, nemmeno un secondo di piú! – Mashi parla con l’esuberanza espansiva e affannata che mette in tutte le sue storie. – E l’anno scorso, ringraziando il Signore, abbiamo celebrato il ventesimo anniversario di matrimonio –. Chiude la scatola del paan con uno scatto trionfante, come se avesse appena avuto la meglio su un punto di importanza capitale.
Mi rifugio nei luoghi comuni. – I tempi sono cambiati, Mashi.
Lei dissolve i decenni con un gesto sprezzante della mano inanellata e piena di fossette. – Oh voi ragazze, succubi dell’influenza americana! Le cose davvero importanti non cambiano mai.
Forse ha ragione. Sono tornata a casa dopo tre anni all’estero, convinta di essere diventata una persona adulta e sofisticata, decisa ad affrontare il cortese distacco di mia madre. Durante il volo verso l’aeroporto di Dum Dum continuavo a ripetermi che non le avrei presentato la mia vita perché la giudicasse e l’approvasse, come avevo già fatto tante volte in passato. Eppure ero ricaduta quasi subito nella vecchia trappola. Le trasformazioni, quelle veramente significative, hanno bisogno di qualcosa di piú del tempo e della distanza, e perfino del desiderio, suppongo.
Quella prima sera, a casa, pur soffrendo a causa dell’apparente indifferenza della mamma, mi ero intromessa a forza nella sua descrizione degli ospiti alla cerimonia del battesimo. – Bijoy insegna psicologia: è piuttosto raro trovare degli indiani in questo campo, almeno in California.
Mi sentii colmare di rabbia verso me stessa dopo aver precipitosamente pronunciato quelle parole, con l’ansia acerba di un’adolescente qualsiasi, bramosa dell’affetto dei genitori, ancora prima di sentirmi rispondere, nel tono di voce controllato e armonioso che ricordavo cosí bene, che doveva trattarsi di un uomo davvero interessante. Provai l’impulso familiare e furioso di pronunciare una frase abbastanza brutale da riuscire a mandare in frantumi la sua padronanza di sé. «Hai ragione, mamma, è molto interessante: soprattutto a letto». Ma inghiottii entrambe, la rabbia e le parole. A cosa sarebbe servito? A cosa era servito finora ogni mio tentativo?
Per tutto il liceo mi ero sforzata di primeggiare agli esami, di distinguermi nelle dissertazioni e di arrivare prima nelle gare di recitazione; ma non avevo mai ottenuto le lodi cui anelavo, l’abbraccio forte e pieno di gioia, tanto impetuoso da lasciarmi senza fiato, che le altre madri elargivano alle figlie per risultati assai meno brillanti. Per un po’ all’università avevo provato a fare il contrario, saltavo le lezioni e me ne andavo in giro con gli studenti piú ribelli a fumare sigarette (un impensabile sacrilegio per una ragazza indiana di buona famiglia), e una volta o due addirittura ganja, lasciandomi prendere per mano dai ragazzi in pieno giorno nel parco del maidan, dove sicuramente qualcuno mi avrebbe vista e avrebbe riferito tutto a mia madre. Ma la sua unica reazione fu di guardarmi con una distaccata tristezza, come avrebbe potuto fare con il personaggio di un libro o di un film, sostenendo di non capire per quale ragione volessi rovinarmi la vita in quel modo. Quando, nell’estremo tentativo di forzarla a manifestare una qualsiasi reazione emotiva, le avevo annunciato le mie intenzioni di partire per l’America, si era limitata a raccomandarmi: – Stai attenta, e scrivimi se hai bisogno di qualcosa –. All’aeroporto aveva premuto contro la mia una gota fredda e asciutta (mentre intorno a noi tutti i genitori stringevano convulsamente a sé i figli in partenza, abbandonandosi a fiumi di lacrime), e aveva detto: – Desidero il meglio per te, lo sai.
E la cosa peggiore era che parlava sul serio, e io non ne dubitavo. Sorvegliava la mia vita con estrema cura e attenzione, anche se da lontano. Per tutta l’infanzia avevo sempre ottenuto qualsiasi cosa cui aspirassi – qualsiasi cosa nell’ambito dei beni materiali – talora addirittura prima di chiedere. Ma quello che pensava lei, quello che desiderava, quello che la faceva gridare in sogno (perché l’avevo sentita, una volta o due) non lo seppi mai. Era come se si fosse costruita intorno una parete di ghiaccio, sottile, invisibile e impossibile da infrangere. Per quanto spesso mi ci scagliassi contro, mi veniva impedito di valicarla.
Forse ormai aveva perso la capacità di aprirvi un varco per me. Forse era giusto ciò che sosteneva la gente, che con la morte del marito e del figlioletto, in un’epidemia di colera diffusasi improvvisamente a Calcutta quando io avevo circa cinque anni, era morta anche una parte di lei. (Ma perché questa spiegazione continuava a sembrarmi troppo semplice?) Ad ogni modo, mi aveva ceduta a Deepa Mashi, la quale, essendo senza figli propri, si era assunta con entusiasmo il ruolo di vice madre, lodandomi e blandendomi e consolandomi in tutti quegli anni, ponendomi anche domande imbarazzanti – e di fronte al mio rifiuto di rispondere, abbandonandosi a scenate fragorose e abbastanza teatrali da soddisfare i bisogni di attenzione di qualunque adolescente. Un’altra ragazza si sarebbe potuta risentire per simili intromissioni, ma io gliene ero grata. Nelle occasioni in cui mi pareva di scomparire sotto lo sguardo pacato e privo di passioni di mia madre, la voce di Deepa Mashi, pronta a ridere delle mie pazzie, a sgridarmi per le mie malefatte, mi dava forma e solidità. In segreto, afflitta dal senso di colpa, desideravo essere la sua vera figlia.
– Dovremmo pensare al tuo abito da sposa, – dice ora la zia. – Chissà quando tornerai a trovarci. E i matrimoni hanno l’abitudine di capitare quando meno te lo aspetti.
Vorrei parlarle di Bijoy. Non è come gli altri indiani, e certamente non come quelli che conosce lei, ingegneri e contabili con tanto di seri occhiali cerchiati d’oro e rispettabili stilografiche Parker infilate nel taschino: onesti, virtuosi e noiosissimi. Al nostro secondo appuntamento disse di considerarmi attraente: desiderava frequentarmi, ma non era ancora pronto a impegnarsi in prospettiva del matrimonio. Provai un impulso di rabbia e mi sentii offesa: molto piú dolorosamente che se fosse stato un americano a parlarmi cosí. Quella sera presi l’autobus per tornare a casa, dopo avere informato Bijoy in tono gelido della mia ferma intenzione di non incontrarlo piú.
E non ci vedemmo per un mese, durante il quale continuai a pensare a lui senza tregua, in modo ossessivo. La sua totale noncuranza per le regole che facevano parte della mia giovinezza – e certamente anche della sua – mi affascinava. Alla fine di quel periodo riuscii a ottenere l’invito a una festa dove sapevo che l’avrei trovato. Accettai la sua proposta di accompagnarmi a casa. Gli permisi di baciarmi, e quando premette impetuosamente le labbra sulle mie, schiudendole a forza con la lingua mentre armeggiava sui bottoni della mia kurta con mani esperte, mi dissi di avere ottenuto proprio ciò che volevo. Una relazione libera e priva di legami. Navigare senza mappe nei mari stupefacenti di esperienze che persone come mia madre non avrebbero neppure potuto immaginare. Ricacciai indietro il senso di vergogna, le vecchie voci echeggianti nella mente, «Gli uomini non si comportano cosí con le donne quando le rispettano».
Ma riuscirei soltanto ad angustiare Mashi se le confessassi che vivo con un uomo con cui non sono sposata, con cui forse non mi sposerò mai. Il suo mondo è assai piú lineare, un mondo di forme semplici dai brillanti colori primari ben separati gli uni dagli altri, come nei calendari religiosi appesi sulle pareti del soggiorno di casa sua. Perciò è molto piú facile per me, qui, seduta sotto il ritmo lento del ventilatore, cullata dal profumo caldo di sole dei gelsomini e delle gardenie in giardino, dal fruscio del mali intento ad annaffiare il prato, abbandonarmi alla sua fantasia.
– Mi metterò un sari di seta di Benares, immagino, ma non voglio i colori sgargianti della tradizione –. Una parte di me è divertita dal tono enfatico con cui parlo, come se quel che immagino potesse davvero accadere. – Sai cosa intendo: arancione e bordò, viola intenso, rosso vivo –. Mi rendo conto di stare pensando al sari nuziale di mia madre. Una volta mi era capitato tra le mani, l’avevo trovato avvolto in una coperta e buttato in fondo a un baule, quasi fosse un sordido segreto. – Impossibile portarli in seguito, soprattutto in America –. Sono compiaciuta per l’abilità con la quale lascio intendere la mia intenzione – destinata a giungere doverosamente alle orecchie di mia madre – di non tornare in India. Di non stabilirmi qui. – Forse il color zafferano sarebbe grazioso: un pallido giallo zafferano. Sí, proprio cosí. Per le mie nozze voglio un sari di Benares color zafferano.
Mashi rimane in silenzio per un lungo momento. Poi con voce stranamente tranquilla soggiunge: – Oh, cara, non zafferano, non quel colore.
– Perché no? – domando, sorpresa dalla sua insolita serietà.
– È una tinta cosí piena di dolore.
– Una strana osservazione la tua. A me è sempre sembrato allegro: il colore degli inizi.
– Penso tu abbia ragione. È solo che mi ricorda... – La voce di Deepa Mashi scompare in un sospiro.
– Cosa ti ricorda, Mashi?
– Oh, niente, niente, è soltanto una storia, – dice la zia intrecciando le mani. – Una storia triste, un racconto di malaugurio, non certo destinato alle future spose. Vieni, ti preparo un po’ di tè al cardamomo: mi ricordo bene quanto ti piaceva.
Ma come la maggior parte delle donne indiane, Mashi non è molto brava a dire di no. Perciò quando, incuriosita dall’inquietudine della sua voce, insisto, mi racconta la storia.
C’era una volta una giovane moglie, la gemma degli occhi di suo marito. Era bellissima, affascinante, intelligente, e aveva anche frequentato l’università, un fatto raro per le donne di quel tempo. Il marito amava citare la cosa conversando con gli amici, soprattutto perché lei non ostentava la propria istruzione e si rimetteva quasi sempre alla sua superiore capacità di giudizio.
La giovane moglie, considerata da tutti una donna fortunata, viveva in una zona di Calcutta antica e rispettata, in un palazzo di marmo appartenuto alla famiglia fin dai tempi del nonno. (Il nonno, il cui ritratto maestosamente racchiuso in una vetusta cornice di ottone stava appeso nell’ingresso, era famoso per le sue opere di carità – ospedali gratuiti e scuole per i quartieri piú poveri – un altro fatto che al marito piaceva menzionare quando conversava, sebbene non si occupasse personalmente di nessuno di quei progetti). Mentre il marito si trovava al lavoro (faceva l’aiuto dirigente in una rispettabilissima banca inglese rimasta in India dopo l’indipendenza), lei si teneva occupata con le faccende di casa, come si conviene a una sposa: diceva al cuoco quale piatto preparare tra quelli preferiti dal capofamiglia, e controllava le cameriere impegnate a spolverare i mobili imponenti e le pendole, e a lucidare le statuette di ottone sistemate nelle varie nicchie della casa. Faceva lunghe passeggiate in giardino e suggeriva al mali cosa piantare nelle aiuole fiorite intorno alle curve del viale di accesso. E quando il darwan (cui spettavano anche le funzioni di autista) le rivolgeva un vivace saluto militare scattando in piedi dallo sgabello dove stava seduto accanto al cancello di ferro battuto sempre chiuso, lei gli augurava il buon giorno con un sorriso e gli chiedeva notizie della moglie e dei figli – che vivevano negli alloggi per la servitú sopra il garage – chiamando per nome senza sbagliarsi ciascun componente della famiglia.
La giovane donna, commentava la gente, era doppiamente fortunata, perché non doveva abitare insieme alla suocera, ma con ogni probabilità sarebbe riuscita a mantenere un’atmosfera di armoniosa convivenza anche se l’avesse avuta in casa con sé. La madre le aveva insegnato il rispetto per gli anziani, e lei si occupava amorevolmente della zia del marito, una vecchia vedova un po’ sorda che viveva con loro, nonostante le osservazioni taglienti lasciate cadere di tanto in tanto dall’anziana parente. Allevava anche con ogni cura la figlioletta, facendole il bagno e nutrendola di persona anziché affidarla all’ayah come tante altre madri della sua stessa condizione sociale: nel pomeriggio, sdraiata accanto a lei nella cameretta bianca e fresca, la intratteneva con una storia finché la bimba non si assopiva.
Trascorreva il tempo libero a leggere i libri che il marito sceglieva per lei alla biblioteca tornando a casa dall’ufficio, e a esercitarsi nel canto. (Aveva una bella voce, e l’appassionava la musica contemporanea, perciò il marito, felice di vantarsi anche di questa sua abilità, aveva assunto una maestra che veniva ogni giovedí a insegnarle il Rabindra Sangeet). Scriveva molte lettere, soprattutto alla propria famiglia, in cui ripeteva sempre quanto fosse felice, quanto si sentisse protetta e amata, e quanto fosse benedetta dalla fortuna, specialmente ora che aspettava un secondo figlio. In una di esse chiese alla sorella minore, ancora nubile e perciò libera da responsabilità e doveri, di venire a stare da lei per alcuni mesi, fino al momento del parto. La grande casa dove le voci echeggiavano e i passi risuonavano a lungo nei vuoti corridoi qualche volta le dava un senso di solitudine. Forse sarebbe nato un maschietto questa volta, concludeva la lettera, come desiderava suo marito, un bel bambino con la pelle chiara, i riccioli e gli occhi luminosi, per portare gioia nei loro cuori e far continuare a vivere il nome della famiglia.
La cameriera arrivò poco tempo dopo.
Le due sorelle passeggiavano nel tardo pomeriggio sotto i fragranti alberi di neem, godendosi la brezza fresca prima che il sole scomparisse dietro le palme da cocco e le zanzare invadessero il giardino. Perché la piú giovane era subito accorsa, compiaciuta e anche un po’ solleticata dal fatto che la sorella maggiore, da sempre oggetto della sua ammirazione, a detta di tutti piú bella e piú intelligente e piú dolce, e sposata tanto meglio di quanto lei avrebbe mai potuto sperare, avesse davvero bisogno della sua compagnia. Gli esami di fine anno erano terminati, e si ritrova...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. I pipistrelli
  6. Abiti
  7. Strade d’argento, tetti d’oro
  8. La parola amore
  9. Una vita perfetta
  10. La storia della cameriera
  11. Scomparsa
  12. Porte
  13. L’ecografia
  14. La relazione
  15. Rivedere Mrinal
  16. Glossario
  17. Indice