Parte seconda
Poi un mattino, quando si fu sciolta l’ultima neve, lei andò dai due vecchi e li baciò entrambi.
– Devo lasciarvi, adesso, – disse.
– Perché? – chiesero loro piangendo.
– Sono una bambina delle nevi. Devo andare dove fa freddo.
– No! No! – piansero loro. – Non puoi andartene!
La tennero stretta, e qualche goccia di neve cadde sul pavimento. Lei si sottrasse rapida al loro abbraccio e corse fuori dalla porta.
– Torna indietro! – gridarono.
– Torna da noi!
Da La bambina di neve, rinarrata da Freya Littledale
14.
Era una cosa imprevista, aspettare con ansia ogni nuovo giorno. Quando Mabel si svegliava al mattino, era pervasa da una trepidazione gioiosa, e per un attimo non ne capiva il motivo. Era una giornata speciale per qualche ragione? Un compleanno? Una festività? C’era qualcosa in programma? Poi ricordava: c’era la possibilità che venisse a trovarli la bambina.
Mabel era spesso alla finestra, ma non con la stanchezza malinconica dell’inverno precedente. Al contrario, scrutava fuori tutta eccitata, e con la speranza che la bambina col cappello di pelliccia e i mocassini di cuoio sbucasse dai boschi. I giorni di dicembre avevano una certa luminosità e brillantezza, come la brina sui rami spogli, scintillante al mattino appena prima di sciogliersi.
Ma Mabel si tratteneva. Si immaginava di correre incontro alla bambina quando fosse comparsa ai margini del bosco, e di gettarle le braccia al collo facendole fare una giravolta. E invece no. Aspettava paziente nella capanna e fingeva di non accorgersi del suo arrivo. Quando la bambina entrava, Mabel non si precipitava a ripulirla, a toglierle dai capelli le foglie e i licheni, a lavarle i vestiti e a mettergliene di puliti. È vero, a volte immaginava la bambina con un bel vestito a balze e fiocchi eleganti nei capelli. A volte sognava persino a occhi aperti di invitare Esther per il tè e presentarle la bimba come fosse la sua.
Non faceva niente di tutto ciò. Erano solo stupide fantasie che avevano piú a che fare con le sue idee romantiche sull’infanzia che con quella ragazzina misteriosa. L’unico vero desiderio che aveva, una volta messa da parte ogni vanità e frivolezza, era toccare la bambina, accarezzarle la guancia, stringerla forte e inalare a fondo il suo profumo d’aria di montagna. Invece si accontentava dei sorrisi della bambina, e ogni mattina guardava dalla finestra, sperando che quel giorno venisse.
Mabel non riusciva a trovare uno schema logico in quelle visite. Per circa una settimana la bambina venne a sere alterne, ma poi per due o tre giorni non si fece vedere, e infine una mattina venne e invece di seguire Jack alla stalla si mise in cucina con Mabel. La osservava impastare il pane, ed era come se un uccello canoro fosse atterrato sul davanzale della camera da letto. Mabel non voleva spaventarla e farla scappare con movimenti troppo bruschi, perciò imitava i modi tranquilli e pacati di Jack. Parlava sottovoce, spiegandole come si dovesse infarinare l’impasto e continuare a manipolarlo al punto giusto, fino a quando non fosse diventato liscio ed elastico al tatto. Disse alla bimba che era stata la zia di Jack a insegnarle a cuocere il pane, sbalordita com’era dal fatto che una donna adulta e sposata non ne fosse capace.
Quella sera, la bambina si fermò a cena. Jack tornò dalla stalla e Mabel e la piccola si sedettero a tavola con lui. La bambina chinò il capo prima ancora che lui cominciasse a recitare la preghiera, e gli sguardi di Jack e Mabel si incrociarono. Si era ormai abituata ai loro usi.
Jack sembrava insolitamente di buonumore, faceva battute scherzose e parlava della sua giornata di lavoro mentre si passavano l’un l’altro le pietanze. A un certo punto, si rivolse alla bambina per chiederle il sale. Lei era concentrata sul suo piatto e non se ne accorse nemmeno. Jack si schiarí la gola, quindi tamburellò leggermente le dita sul tavolo.
Questa cosa sta cominciando a diventare ridicola, disse.
La bambina si allarmò. Lui moderò il suo tono di voce.
Ti dobbiamo pur chiamare in qualche modo. Sarai «bambina» per sempre?
La bambina restò in silenzio. Jack allungò la mano sopra la sua testa per prendere il sale, apparentemente rinunciando all’idea di darle un nome. Mabel aspettò, ma Jack riprese a mangiare.
Pruina, mormorò la ragazzina.
Cos’hai detto, piccola? chiese Mabel.
Il mio nome. Pruina.
Puoi ripeterlo, piú lentamente?
Pru-ii-naa.
Ogni sillaba era un quieto sussurro. Mabel sulle prime non riuscí a mettere insieme quei suoni estranei, tutte quelle vocali senza consonanti, ma poi udí qualcosa che le fece pensare agli alberi in lontananza e una boccata d’aria alla fine, suoni che in effetti descrivevano quella bambina seduta alla loro tavola. Pruina.
Che cosa vuol dire? chiese Mabel.
La bambina si morse il labbro inferiore e si accigliò.
Dovete vederlo, per saperlo.
Poi il suo viso si illuminò.
Ma ve lo farò vedere. Un giorno vi mostrerò cosa vuol dire.
Pruina. È un bel nome.
Bene allora, disse Jack. Questo rende le cose un po’ piú semplici, non vi pare?
Quella sera, dopo che la bambina se ne fu andata, ripeterono piú volte il suo nome. Cominciava a scivolare agilmente sulle loro lingue, e a Mabel piaceva la sensazione che le lasciava in bocca, il modo in cui le sussurrava all’orecchio: Hai visto come ha chinato la testa Pruina a cena? Non è una bambina stupenda, Pruina? Che cosa porterà Pruina la prossima volta che ci verrà a trovare? Erano come bambini che giocavano a fare la mamma e il papà, e Mabel era felice.
L’alba irruppe argentea sui cumuli di neve e gli abeti, e Mabel era al tavolo della cucina che cercava di disegnare il cesto di ramoscelli di betulla che avevano ricevuto dalla bambina. L’aveva appoggiato alla scatola di legno delle ricette in modo che fosse inclinato verso di lei, e cercava di ricordare l’aspetto che aveva quando era pieno di frutti di bosco. Era troppo tempo che non disegnava, e le sue mani tenevano goffamente la matita, sbagliando le ombreggiature e le angolature. Frustrata, si portò una mano alla nuca e si stiracchiò.
Alla vista della bambina che sbirciava nella finestra, Mabel sobbalzò, ma poi sorrise e alzò la mano per salutarla. Quando la bimba rispose al saluto con la sua, fu travolta da un moto di affetto.
Pruina, piccola. Entra, entra.
La bambina portava con sé l’odore della neve, e l’aria nella capanna si fece piú fresca e luminosa. Mabel le sciolse la sciarpa, le sfilò i guantini, il cappello di pelliccia e il cappotto di lana. La bambina la lasciò fare, e Mabel si strinse al petto gli indumenti, sentí il freddo dell’inverno, la lana ruvida, e il bruno pelo setoso. Si appese la sciarpa al dorso della mano, stupefatta che il ricamo a goccia di rugiada di sua sorella ora adornasse la ragazzina.
Che cos’è? Cosa stavi facendo?
La bambina si piazzò davanti al tavolo con una matita da disegno in mano.
Stavo disegnando, disse Mabel. Vuoi vedere?
Posò gli indumenti della bambina su una sedia e lasciò la porta socchiusa, in modo che passasse un po’ d’aria fresca, per lei. Poi scostò una sedia per farla sedere e le si mise accanto.
Questo è il mio album da disegno. E queste sono le mie matite. Volevo disegnare il cestino che ci hai regalato. Vedi?
Mabel sollevò il foglio.
Oh, disse la bambina.
Non è granché, vero? Temo di aver perso ogni talento, se mai l’ho avuto.
Io lo trovo molto grazioso.
La bambina sfiorò la superficie della carta con le dita e schiuse le labbra stupita.
Cos’altro sai disegnare? chiese.
Mabel alzò le spalle.
Qualunque cosa voglio, credo. Anche se non riuscirà necessariamente come dovrebbe.
Sei capace di disegnare me?
Sí. Oh, sí. Ma ti devo avvertire, non sono mai stata molto brava a fare i ritratti.
Mabel sistemò la sedia della bambina vicino alla finestra in modo che la luce invernale le illuminasse un lato del viso e i capelli biondi. Per tutta l’ora seguente, Mabel spostò lo sguardo dal foglio alla bambina e viceversa, aspettandosi che lei protestasse, ma non si lamentò né si mosse nemmeno una volta. Stoica, teneva il mento leggermente alzato e lo sguardo fermo.
A ogni tratto di matita, era come se Mabel avesse esaudito il suo desiderio, come se tenesse la bambina fra le braccia, le accarezzasse la guancia, le lisciasse i capelli. Tracciò la curva delicata degli zigomi, la sommità delle piccole labbra, l’arcata indagatrice delle sopracciglia bionde. Riservata, prudente e coraggiosa, innocente e accorta… qualcosa nel modo di girare la testa, nell’inclinazione degli occhi, suggeriva un che di selvatico, e Mabel voleva catturare anche quello. Assorbí e memorizzò ciascuno di questi dettagli.
Vuoi vederlo?
È finito?
Mabel sorrise.
È quanto di meglio riesco a fare, per oggi.
Girò l’album verso la bambina, senza sapere che reazione aspettarsi.
La bambina inspirò, e poi batté le mani tutta contenta.
Ti piace?
Oh, sí! Sono io? Sono cosí?
Non ti sei mai vista, piccola?
La bambina scosse la testa.
Mai? Non ti sei mai guardata allo specchio? Be’, adesso vado a prenderlo. Molto meglio di qualunque ritratto sia in grado di farti io.
Mabel andò in camera da letto e tornò con uno specchietto in mano.
Lo sai cos’è questo? È un piccolo vetro e ti ci puoi guardare dentro.
La bambina alzò le spalle esili.
Ecco, vedi? Sei tu.
La bambina scrutò nello specchio, gli occhi sgranati e l’espressione seria. Allungò una mano e sfiorò la superficie scintillante con la punta di un dito, poi si toccò i capelli, il viso. Sorrise, girò la testa da una parte e dall’altra, si scostò i capelli dalla fronte, sempre guardandosi allo specchio.
Ti piacerebbe tenere il disegno che ti ho fatto?
Pruina sorrise e annuí.
Mabel piegò il ritratto fino a ridurlo a un quadratino, perché la bambina potesse infilarselo in tasca.
Dopo cena, quando la bambina se ne fu andata, Mabel si mise a lavorare a maglia accanto alla stufa. Fuori il vento spazzava la valle del fiume e a lei parve di sentire anche un altro rumore. Un latrato mesto.
– È il vento, Jack?
Lui era alla finestra e guardava nel buio.
– No. Credo che siano quei lupi piú a monte. Ho anche sentito degli ululati, l’altra notte.
– Ti spiace attizzare il fuoco? Credo di essermi presa un raffreddore.
Lo guardò mettere dei ceppi di betulla nel fuoco, le fiamme avvolsero la corteccia cartacea riflettendo una luce sfarfallante sulle pareti della capanna. Poi andò alla finestra anche lei e scrutò la notte per un po’, come faceva sempre.
– Sarà al sicuro? – disse Mabel. – Il vento soffia cosí forte. E i lupi.
– Io credo che stia bene.
Contrariamente alle loro abitudini, restarono alzati fino a tardi. Jack uscí piú volte a prendere altra legna, nonostante ci fosse una pila di ceppi nell’ingresso, e Mabel continuò a ricamare, sebbene avesse le mani stanche e le bruciassero gli occhi. Alla fine, non riuscendo piú a restare svegli, si trascinarono a letto insieme. Si addormentarono al suono del vento che soffiava nella valle.
15.
Era metà febbraio quando ad Alpine arrivò un pacco col treno, indirizzato a Mabel e avvolto in carta marrone. Jack lo portò a casa, insieme a qualche provvista acquistata all’emporio con gli ultimi soldi rimasti.
Mabel aspettò che lui uscisse di nuovo prima di sedersi al tavolo per aprirlo. Era arrivato, finalmente? Le sembravano passati secoli da quando aveva scritto alla sorella per chiederle del libro. Per diverse settimane aveva sperato, ma poi, non vedendolo arrivare, aveva immaginato che non l’avesse trovato o che non si fosse nemmeno data la pena di cercarlo.
Ebbe la tentazione di strappare subito l’involucro, ma sentiva il bisogno di mantenere il controllo della situazione. Mise a scaldare il bollitore dell’acqua e si preparò una tazza di tè. Quando fu pronto, si sedette al tavolo, tagliò lo spago con le forbici e spiegò la carta con cautela. Dentro c’erano due pacchetti avvolti separatamente.
Il piú grande sembrava decisamente un libro, ma Mabel scelse di aprire prima quello piú piccolo. Dentro c’erano delle belle matite da disegno e dei carboncini. Prese il pacchetto piú grande e lo scartò pian piano.
Il libro era proprio come se lo ricordava: enorme e perfettamente quadrato, una forma diversa da quella di qualunque altro libro per bambini che avesse mai visto. Era rilegato in marocchino azzurro. Sulla copertina era impresso uno splendido motivo argento raffigurante un fiocco di neve, e lo stesso disegno decorava il dorso. Posò il libro sul tavolo davanti a sé e lo aprí. «Sneguročka, 1857» c’era scritto con tratto leggero di matita nell’angolo superiore del risguardo azzurro marmorizzato. «La fanciulla delle nevi». Era la scrittura ordinata di suo padre. Nei suoi viaggi aveva collezionato molti libri, e alcuni li aveva portati a casa proprio per lei. Li teneva su uno scaffale del suo studio, ma ogni volta che lei voleva sfogliarli, lui li prendeva e la faceva sedere in grembo mentre voltava le pagine.
Col libro davanti a sé, Mabel ebbe la sensazione di trovarsi ancora nello studio del padre con l’odore del tabacco da pipa e dei vecchi libri. Girò la prima pagina. Sulla sinistra c’era un’illustrazione a colori coperta da un sottile foglio di carta velina, e dall’altra parte c’era la storia, scritta in caratteri squadrati e illeggibili. Era in russo! Come poteva essersene dimenticata? O forse non se ne era mai accorta. Era stato uno dei libri preferiti della sua infanzia, eppure solo ora si rese conto di non averlo mai letto davvero. Suo padre le aveva raccontato la storia, mentre lei guardava le figure. Ora si chiese se suo padre comprendesse le parole o si fosse inventato la storia basandosi sulle immagini.
Suo padre era morto da molti anni, ma adesso lei rievocò la sua voce, melodiosa e stentorea.
«C’erano una volta un vecchio e una vecchia che si amavano moltissimo ed erano contenti di ciò che avevano tranne che per un unico, grande rammarico: non avevano figli».
Mabel spostò di nuovo gli occhi sull’illustrazione. Era simile a una lacca russa, dai colori vivaci e naturali e dettagli preziosi. Mostrava due vecchi, un uomo e una donna, inginocchiati nella neve ai piedi di una bambina che da terra fino alla vita sembrava fatta di neve, mentre la parte superiore era di una bambina vera.
Le guance splendevano di vita e i capelli biondi erano tutti ingioiellati. Sorrideva dolcemente ai due vecchi, con le mani coperte dai guantini protese verso di loro. Il mantello ricamato le cadeva dalle spalle con un luccichio bianco e argento, e non era chiaro dove finisse il mantello e cominciasse la neve. Dietro di lei il paesaggio innevato era incorniciato da una fila di abeti verde cupo e, in lontananza, dalle cime aguzze e innevate delle montagne. Tra due alberi c’era una volpe rossa con gli occhi stretti e dorati come quelli di un gatto.
Fece per prendere la tazza di tè e scoprí che si era raffreddata. Per quanto tempo era rimasta a fissare l’illustrazione? Bevve un sorso di tè freddo e voltò pagina. Era notte. La bambina correva fra gli alberi. Stelle d’argento brillavano nel cielo nero-blu sopra di lei, e la coppia guardava tristemente dalla finestra della casupola.
Ogni volta che girava pagina, Mabel si sentiva stordita, lacerata.
Sollevò il libro e lo avvicinò agli occhi. L’illustrazione successiva era sempre stata la sua preferita. In una radura innevata, la bambina era circondata da ogni parte dalle bestie selvat...