Telefonata. Sull’indovino appare un numero che non conosco.
– Pronto.
– Il collega Malinconico?
Guardo il soffitto con una tolleranza da allevatore di polli. Quando un avvocato mi chiama collega, penso subito che stia per chiedermi uno sconto.
– Sí, – ammetto, rassegnato.
– Ciao colle’ sono Gaetano Picciafuoco chiamo per Fantasia allora qua la situazione è delicata e sí che stiamo parlando di una persona discussa poi chiaramente mi dici che opinione ti sei fatto di tutta la storia comunque secondo me ce ne possiamo uscire puliti se stiamo ai fatti perché va bene che avete trovato una mano seppellita nel mio giardino ed è ovvio che ce l’ha messa il cane perché nella buca era finita pure la medaglietta del collare ma questo non significa che sono stato io, che vogliamo fare, la proprietà transitiva dei cani? A parte il fatto che se ero stato io uno non ero cosí fesso che andavo a mettere la mano proprio nel mio giardino e due ammesso e non concesso avrei scavato piú a fondo mentre invece la trascurabile profondità della fossa dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che siamo davanti al tipico seppellimento dell’animale che nasconde la preda e quindi torniamo al punto di prima, dove volete andare a parare, che io devo rispondere di quello che fa il mio cane, no perché se è cosí a questo punto arrestateci a tutti e due non ti sembra?
Allontano il cordless dall’orecchio e lo guardo, basito. Se dovessi usare una sola parola per definire il mio stato d’animo rispetto alla valanga logorroica che mi ha appena travolto, direi: scettico. Davvero, non so se crederci. E intanto che mi pongo il problema, sta ancora parlando, questo qua.
– Insomma un cane è un cane e poi stiamo parlando di un pittbull mica di un barboncino che dove lo lasci lo trovi, il pittbull è autonomo è gladiatore è criminale va sbariando per i fatti suoi non è che quando si ritira uno gli domanda che ha portato a casa, come ti sembra a te?
Dovrei dire qualcosa, immagino; e invece mi sorprendo a cadere dalle nuvole.
– Aspetta un attimo, – riesco a inserirmi quando la mancanza d’ossigeno lo costringe a fermarsi un mezzo secondo per riprendere la staffetta, – forse hai saltato qualche passaggio che mi manca. Tu difendi questo Fantasia? Fantasia Domenico, in arte Mimmo ’o Burzone?
– E certo, – risponde il, diciamo cosí, collega.
– Beh, scusa, ma non capisco io che c’entro.
– Perché, non lo sai?
– Non so cosa?
– Che siamo in due, – dice, con una botta in corpo che non riesce a contenere.
Vado in stallo. Benché avessi già capito che il Borsone mi aveva nominato suo difensore, rimango abbastanza sgomento dalla conferma che m’è appena giunta. Non che ci sia niente di strano, anzi: la sostituzione e/o l’aggiunta degli avvocati è una pratica abituale, specialmente fra i detenuti. Dal carcere, ogni giorno partono nomine e revoche che nemmeno una stazione ferroviaria. In materia di diritto di difesa i galeotti sono portati quasi biologicamente alla sperimentazione. Prendono e lasciano con una naturalezza addirittura offensiva. Dispongono degli avvocati, li usano (quelli piú giovani soprattutto). A volte succede che ne nominano uno dimenticandosi di revocare l’altro (oppure lo fanno apposta per tenersene uno di scorta, che non si sa mai), e cosí va a finire che il giorno dell’udienza si presentano in due, che nell’imbarazzo stipulano un’alleanza provvisoria nella reciproca speranza di farsi fuori in seguito.
Il fatto è che qui da noi gli avvocati sono diventati come gli assicuratori, o gli agenti immobiliari. Ce ne sono a bizzeffe, uno piú affamato dell’altro. Basta fare due passi in una strada anche periferica e contare le targhette affisse ai portoni. Un avvocato, oggi, per una nomina anche d’ufficio è disposto a piroette e carpiati della dignità fantasiosissimi. E la molla non è l’ambizione economica o il desiderio di prestigio sociale: nemmeno piú questo. Qui si tratta, ma davvero, di stare sul mercato con un minimo di sensatezza (cioè, pagare le spese e portare qualche soldo a casa) o chiudere baracca. E la vera tragedia è che questa politica della sopravvivenza accomuna ormai trasversalmente sfigati e garantiti, privilegiati e poveri cristi. Nel senso che il rampollo dell’avvocato di successo ha una fame di procacciamento pratiche mediamente pari o addirittura superiore a quella di chi è professionalmente figlio di n.n. È la nuova cultura della concorrenza, palazzinara e bulimica, che ha equiparato avidità e bisogno, ponendo sul piano di una falsa parità contendenti che partono da posizioni completamente diverse. Ricchi e poveri che lottano per le stesse cose: ecco a voi la morte del principio di uguaglianza.
Io ho visto cose che voi non avvocati non potete neanche immaginare. Ho visto professionisti anziani leccare sfacciatamente il culo a magistrati ventinovenni. Ho visto avvocati giovanissimi portare personalmente il caffè a tutti i carrozzieri del quartiere nella speranza di una pratica d’infortunistica stradale. Ho visto appostamenti all’ingresso degli obitori, con volantinaggio di biglietto da visita all’arrivo della barella. Ho visto contabili di camorra e specialisti della punizione corporale per ritardato pagamento del pizzo, trattati con un ossequio e un’attenzione degni di un’alta carica dello Stato. Ho visto colleghi fare anticamera a cancellieri miserabili in cambio di una nomina d’ufficio, con pagamento anticipato di percentuale fissa sull’onorario. Ho visto guardie carcerarie spendere il nome di questo o quel collega con i parenti dei detenuti in cambio di un abbonamento alle partite di calcio. Ho visto colleghi poco piú che trentenni accordarsi con cancellieri notoriamente farabutti per truccare un’asta fallimentare, pilotando l’assegnazione dei beni all’incanto. Ho visto le loro foto sul giornale qualche tempo dopo. Ho visto sinistri stradali cosí sputtanatamente falsi da farti venire voglia di prendere le parti dell’assicurazione (che è un po’ come se uno, una bella mattina, si convertisse all’antisemitismo militante). Ho visto patrocinanti in Cassazione brigare per diventare amministratori di condominio. Ho visto professori universitari telefonare a indagati eccellenti offrendo il proprio patrocinio pur sapendo che era già stato nominato qualcun altro, millantando conoscenze personali con il pubblico ministero titolare dell’inchiesta e svalutando fra le righe le capacità professionali del collega. Ho visto l’avvocato a cui il professore universitario stava cercando di fare le scarpe riferire lo scandaloso retroscena a un gruppo di giovani colleghi e neanche venti minuti dopo incontrare il professore all’ingresso del tribunale e abbracciarlo come un fratello ritrovato in un programma di Maria De Filippi. Ho visto lo stesso avvocato convincere l’indagato eccellente che sí, effettivamente sarebbe stata una mossa saggia estendere il patrocinio anche al professore, perché un simile collegio difensivo gli avrebbe assicurato la vittoria della causa con fiato di trombe. Ho visto, all’udienza, l’indagato eccellente seduto fra l’avvocato e il professore: sembrava piú preoccupato di loro che dei giudici. Ho sentito il professore, in piena arringa, prendere una cappella giuridica di una tale grossolanità che se fosse capitato a uno studente all’esame sarebbe stato messo alla porta. Ho visto l’avvocato abbozzare e vergognarsi come un complice, dribblando lo sguardo allibito dei giudici. Ho visto il figlio dell’avvocato diventare assistente di cattedra del professore universitario che aveva cercato di fregare l’incarico a suo padre. Ho visto tante altre cose, ma se non mi fermo va a finire che facciamo notte.
– Pronto, – sento dire dall’altro capo del telefono.
Il tono del mio interlocutore è assolutamente sfastidiato, da saputello che ti tratta come gli stessi facendo perdere tempo.
– Sono qua, – scandisco, polemico. Infatti abbassa subito la cresta, il guappo di cartone.
– Non sentivo piú niente.
– Stavo pensando.
– Ah.
– Abbi pazienza, colle’, – chiedo ingenuamente, – ma se Fantasia aveva già un avvocato, cioè tu, com’è che non ti ha chiamato per assisterlo all’interrogatorio?
Segue pausa di meditazione.
– Mi ha chiamato, – risponde, sospirando come gli avessi messo il dito sulla piaga, – solo che avevo il telefono staccato, quel giorno.
Al che realizzo che è meglio cambiare discorso.
– Senti una cosa, – faccio, – com’è questa storia del cane?
– Perché, non lo sai?
– Se te lo sto chiedendo.
– Ma scusa, non hai letto le carte?
Figura di merda.
– No. Sí. Cioè, volevo che mi spiegassi meglio.
Mi risponde in telegrafico-sufficiente. Ma stavolta glielo lascio fare, considerata la gaffe.
– La mano. Nel giardino. Ce l’ha messa. Il cane. Di Fantasia. Un pittbull. Ringo.
– Ecco. Va bene. Abbiamo saputo pure il nome e la razza. E poi?
– E poi niente, l’ha presa e l’ha seppellita nel giardino. Sai come fanno gli animali quando vanno a caccia, che dopo si nascondono la preda? L’ha messa là, dietro al garage. Arrivano i carabinieri, trovano la mano e vai con le manette. Nella buca c’era pure la medaglietta del collare, col nome e l’indirizzo. Evidentemente Ringo l’ha persa mentre scavava.
– Ah, – allibisco, mentre organizzo su due piedi una proiezione immaginaria della scena in cui il pittbull s’introduce furtivamente nella sala autoptica attrezzata dal Borsone nel garage della sua villetta mezza condonata, vede sul tavolo operatorio i tranci di cadavere, guaisce per l’emozione, non ci pensa due volte, ruba la mano e sgattaiola fuori all’insaputa del Borsone, probabilmente allontanatosi per un’impellenza improvvisa (tipo una telefonata sul cellulare che non prendeva o per pisciare, chi lo sa). Poi m’immagino il Borsone che torna, fa la conta degli arti e non si trova. Devo trattenermi per non scoppiare a ridere.
Me lo vedo, incazzatissimo, che esce in giardino e va a perquisire la cuccia di Ringo; il pittbull, in disparte, lo guarda con le orecchie abbassate temendo il pestaggio imminente; il Borsone non trova la refurtiva nella cuccia, si aggira negli immediati dintorni senza successo, quindi passa al piano b: afferra la bestia per il collare e la interroga, Parla bastardo, dimmi dove l’hai messa; R...