Senza di te
Ricordo che ho baciato Mauro sulla bocca. Ci siamo messi a ridere, Marta piú di tutti. A lei Mauro è sempre piaciuto, dice che è una persona vera, Marta non ha paura a usare degli aggettivi cosí, che imbarazzerebbero chiunque.
Mauro non smetteva di raccontare: – Lo sapete cosa ha fatto Edo stamattina?
Era una celebrazione. A vederla adesso un monumento al niente, ma quella sera era una celebrazione. Mauro era euforico, gli altri applaudivano, io… credo che mi godessi lo spettacolo.
– Non si è svegliato.
– Non ci posso credere…
– Ho aspettato sotto casa sua per venti minuti prima che scendesse. Siamo stati gli ultimi a Milano a conoscere i risultati.
L’idea del ristorante argentino era venuta a Silvia, la ragazza di Mauro, che di noi quattro era quella che conosceva i nomi dei locali nuovi, e li avrebbe anche frequentati se non avesse dovuto fare i conti con le ristrettezze di Mauro. Ma l’idea era piaciuta a tutti. Ristorante costoso. Doppia coppia. Era un modo ufficiale, un modo naturale di festeggiare l’esame. Persino Marta aveva reagito con entusiasmo, si era alzata dal divano del mio soggiorno appena l’aveva sentito, come se volesse correrci.
Non so se intanto che le passavo la giacca ho sbirciato la camicia di seta attillata che le stava benissimo, lei porta sempre maglioni larghi, e quando si mette una camicia cosí s’intravedono di colpo le tette sotto i bottoncini in tensione, di colpo gli altri vedono quello che conosco soltanto io. Non so se ho sfiorato i suoi capelli, sciolti, come li porta di solito solo per me. Era solo la mia donna bellissima che voleva farmi piacere.
Marta alle dieci di sera ha sonno, si addormenta ovunque, al cinema, in macchina, se non ha ancora sonno va a letto lo stesso perché sa che arriverà, e poi lavora in ospedale, spesso fa i turni, si occupa di cardiologia pediatrica e, anche se non me l’ha mai detto, penso che per lei sarebbe un crimine sbadigliare davanti a un bambino che si toglie la maglietta.
Marta quella sera si è alzata di scatto dal divano come se il suo massimo desiderio fosse ubriacarsi con noi al ristorante argentino. Si è stretta sotto il mio braccio per strada, ha cercato argomenti con Silvia, ha parlato seria con Mauro che sembra riuscire a parlare solo con lei, ha alzato il bicchiere di Margarita sei, sette volte, anche se odia i superalcolici, ha riso come ride lei, con tutta la faccia, in silenzio.
– Pensa che ieri è andato a dormire a casa apposta per svegliarsi in tempo questa mattina.
Mi piace sentire Marta parlare di me. Smonta qualsiasi cosa prendendomi in giro, fa quello che non farebbe mai quando siamo soli. Non so perché, ma mi piace che lo faccia. Era in piedi, si stava portando un altro bicchiere alla bocca in una specie di gioco di abilità, intrecciata al braccio di Mauro, mentre io spalmavo della salsa verde su qualcosa.
– Cos’hanno detto in studio?
Silvia bucò l’atmosfera.
– Lo sapevano già. Almeno il padre di Edo lo sapeva, pare che sia andato in tribunale all’alba senza dir niente a nessuno.
Mauro rispose senza lasciare il braccio di Marta, senza farci caso. Mi ritrovai a fissare mio padre salire sulla scalinata di marmo, con i suoi passi piccoli: doveva esserci andato prima di tutti gli altri, quando era sicuro di non incontrarmi.
Erano ancora in piedi con i bicchieri e le braccia intrecciate, alla fine fu Marta a sganciarsi buttando lí una domanda a Mauro, senza attenzione, divertita. Eppure, non so perché pensai che la risposta le interessasse davvero.
– Adesso devi spiegarmi come sei riuscito a tenere Edo in casa per tanto tempo. Io non ce l’ho mai fatta.
Per settimane, ogni sera, io e Mauro eravamo usciti dallo studio per salire subito a casa mia. Facevamo la doccia a turno, guardavamo per mezz’ora lo sport su Sky, poi ci mettevamo a ripassare. Una sola volta ero riuscito a trascinare Mauro in gelateria, mentre gli ripetevo il delitto tentato, leccavo il pistacchio camminando per strada e gli ripetevo il delitto tentato: quando uno sta per sparare e gli si inceppa la rivoltella, quando va via la luce al supermercato e uno ha la refurtiva sotto il giubbotto. Mauro non voleva smettere di ripassare neanche per un istante. Glielo rinfaccio ancora adesso.
Marta riprese, ridendo, bisbigliando e ridendo insieme, non so come facesse.
– Credo che tu abbia diritto a un aumento.
Rideva. Celebrava. Beveva. Marta riusciva a fare tutto insieme. Mauro fece solo una smorfia di approvazione. Fu di nuovo Silvia a rispondere.
– Non è il caso di parlarne. Sarà lo studio a valutare…
Mi chiesi cosa fosse troppo Silvia per riuscire a dire delle mezze frasi cosí. Troppo formale. Troppo cattolica. Troppo stupida. Sapevamo tutti che l’assegno di Mauro era inadeguato, non c’erano misteri, io e Mauro ne avevamo parlato decine di volte. L’augurio di Marta era sincero, centrava il punto. In quell’istante sperai solo di aver visto male il prospetto delle retribuzioni per i nuovi avvocati. Per Mauro ci sarebbe stato un avanzamento, non un cambio di vita.
page_no="13" Ma Mauro e Marta in piedi erano bellissimi. Erano una coppia meglio assortita di quanto non lo fossimo noi. La faccia distesa di Mauro compensava gli zigomi sottili di Marta, poi lei gli arrivava alla spalla, non si sarebbe dovuto piegare per baciarla, come faccio io.
Uscimmo dal locale di via Chiesa Rossa e chiamai due taxi. Sul marciapiede continuavamo a ridere, io li facevo ridere, parlavo e loro ridevano, non so cosa dicessi, avevo bevuto e li facevo ridere.
Quando il taxi arrivò ci salii sopra insieme a Marta. L’abbracciai stretta portandola contro di me. Si lasciava baciare, il taxista ogni tanto guardava nello specchietto. Marta non se ne accorse, neanche della strada piú lunga che ci fece fare prendendo la via della Darsena, Marta guardava me e basta.
Nel suo bilocale alla Bicocca abbiamo fatto l’amore un paio di volte. Dicono che se qualcuno ha bevuto troppo solo un grande spavento o un orgasmo intenso possono portare rapidamente alla lucidità. Alle tre di notte eravamo in cucina, lei era seduta accanto a me, teneva i piedi distesi sulle mie ginocchia e prendeva gli acini d’uva uno alla volta, portandoseli alla bocca. Sorrideva chiedendomi come fosse possibile che l’uva non mi piacesse.
Il giorno dopo arrivai in studio alle dieci. Da casa di Marta mi ci volle quasi un’ora per raggiungere il centro con l’autobus. Nell’atrio incontrai Mauro, riposato e perfetto come se la sera prima non fosse uscito per niente.
– Dove stai andando?
– In tribunale. C’è udienza… Te n’eri dimenticato?
Risposi senza voltarmi e senza smettere di correre su per le scale: – Completamente.
Corsi in mansarda a cambiarmi. Vivo all’ultimo piano del palazzo dell’ufficio. È un piccolo appartamento con un sacco di finestre lunghe e strette. Quando mio padre era diventato socio dello studio se l’era comprato, e quando si era sposato con mia madre ci erano andati a vivere per qualche anno. Dopo la laurea mi sono trasferito io. Difficile pensare a qualcosa di piú comodo. Per andare al lavoro scendo cinquanta scalini, e se durante il giorno ho bisogno del bagno salgo fino a casa. Allo stesso tempo nessuna intrusione, nessuna incursione genitoriale. Non ricordo l’ultima volta che ci sono venuti, rispettano la mia indipendenza in maniera quasi pedante. L’unica che ci sale è la donna delle pulizie dello studio che, due volte alla settimana, dà una sistemata.
Quando mi fui cambiato tornai di sotto. Misi la testa dentro lo studio per prendere il fascicolo dell’udienza, almeno cosí avevo pensato di fare, ma dovetti fermarmi qualche istante di piú a osservare quello che sarebbe stato il guscio della mia nuova vita. Mio padre e gli altri soci avevano deciso che io e Mauro, per preparare gli orali e poi per ricevere i clienti, avevamo bisogno di due studi singoli. Cosí avevano fatto portare i nostri computer nelle due piccole stanze rimaste libere alla fine del corridoio. A quell’ora gli uffici erano deserti, c’erano solo le segretarie nell’ingresso. Mi chiusi dentro il mio studio per vedere che effetto faceva. Nessuno. La nuova architettura d’interni delle mie giornate, il riconoscimento di dieci anni di studi mi era estraneo, indifferente a tal punto che era come se mi guardassi da un ponte, come se lontano, in basso, mi vedessi aprire ante e cassetti senza curiosità. Poi, seduto per un istante sulla sedia con il piano della scrivania rivolto alla porta chiusa, quasi che il mondo potesse bussare ed entrare da un momento all’altro, l’unica cosa che provai fu tenerezza per mio padre, per l’elfo notturno che la sera prima aveva aspettato che uscissi per costruire quella sorpresa.
Anche se ero in ritardo, accesi il computer e in un istante aggiornai il mio status su Facebook.
Di quello che è successo ieri sera non mi ricordo niente.
Ho uno studio nuovo con le stampe dei Navigli alle pareti.
Dopo mezzanotte passo alle Colonne.
page_no="15" Non so perché lo facessi. Mi divertiva. Era una cosa normale. Gli altri lo facevano. Ci aggiornavamo continuamente. A cosa scrivere ci pensavo quando camminavo per strada, facevo scorrere quello che mi era capitato nelle ultime ore, immaginavo quello che avevo davanti, sceglievo, e quando tornavo a casa scrivevo ai confini del mio mondo qual era il mio status. Era un processo chimico, asciugavo ore di esistenza in una ventina di caratteri digitali sul mio account. Eravamo come i piloti della Formula 1 a cui attaccano i sensori al petto, appiccicano le ventose, le sonde per il controllo a distanza. Tutto il mio mondo conosceva in diretta le mie pulsazioni e le mie aritmie. Anche se, alla fine, nessuno conosceva niente. Sono felice | sono infelice | sono incazzato | quando sento i Coldplay sembra notte anche a mezzogiorno. Una volta sono arrivato a scrivere che mi sentivo una mongolfiera. Gli status di Facebook sono tutti uguali, egocentrismi che nessuno capisce, masturbazioni asettiche in serie. Mentre le scrivevo erano essenziali, per me come per chiunque altro le scrivesse, serie o idiote che fossero rappresentavano il nocciolo, lo scheletro di quel momento, una roba tipo il tuo posizionamento rispetto alla vita, alla giornata almeno. Erano solo inutili. A rileggerle in fila nello storico, non si ricordano piú gli umori che c’erano dietro, rimane solo un elenco interminabile di stupide frasi molto sentite.
In udienza la controparte c’era già. C’era Mauro. Mancava solo l’avvocato Sforza che era in delega per la causa. Lui è l’unico socio dello studio che si mette in delega in tutte le cause.
– Non risponde al cellulare. Non so dove sia, – Mauro si era avvicinato a me, cercando di non farsi sentire.
Non era un’udienza semplice. C’erano da sentire testimoni su capitoli di prova che non finivano piú e gli importi in gioco erano da capogiro.
– Avvocati, possiamo incominciare?
page_no="16" – Un momento solo signor giudice, ci scusi –. Poi ancora sottovoce verso di me: – Che cazzo facciamo?
– Ci sono i testimoni, mica possiamo rimandarli a casa. Tu comincia che io vado a cercarlo.
– Ma non posso…
– Vai.
Ormai il giudice iniziava a innervosirsi a vederci confabulare in fondo all’aula.
Uscii. Sullo scalone incontrai mio padre che saliva senza fretta.
– Sforza non è venuto. Sto andando a cercarlo.
– Sforza è bloccato in Corte d’appello, sto venendo io.
Risalii i gradini fino in cima, lui con calma dietro di me.
– È già iniziata. C’è Mauro da solo, dentro.
Sorrise. Sotto la barba grigia si vedeva in ritardo quando sorrideva. Si capiva dagli occhi.
– Non è in un campo di battaglia. Sta solo discutendo una causa.
Si fermò sotto lo stipite della porta aperta. C’erano una decina di persone dentro e nessuno si accorse di noi.
– Fammi vedere come se la cava.
Gli scintillavano gli occhi. Seguiva Mauro che cercava le parole, i movimenti giusti per stare a galla. Sembrava un allenatore che spia il suo atleta restando nascosto dietro le tribune.
Durò pochi istanti, poi l’avvocato di controparte lo vide e venne a stringergli la mano.
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In studio le cose non erano cambiate. Non andavano quindi cosí bene, anche se non so quanto allora me ne rendessi conto.
Non erano cambiate, solo che nel frattempo io ero diventato avvocato. I miei profitti erano quasi raddoppiati e ormai, anche se me lo aveva ritagliato mio padre, avevo una specie di portafoglio clienti, ma al tempo stesso tutto era come prima. Stessa insicurezza. Stessa richiesta di aiuti. La gente che avevo intorno mi voleva bene, non solo perché ero il figlio di Gregotti. Ero simpatico, non ero arrogante, non facevo fatica a sorridere, e piacevo alle ragazze. Bastava facessi un cenno e c’erano decine di persone pronte ad aiutarmi, cancellieri, impiegate, colleghi a cui chiedere un parere. Persino i due soci anziani mi aiutavano. Con Sforza capitava di rado, ma Banti, che era il piú vecchio dello studio e non aveva figli, finiva per darmi qualche consiglio ogni volta che mi incontrava in corridoio con un fascicolo in mano. In caso di emergenza potevo chiedere a Mauro che diventava invece ogni giorno piú sicuro, piú bravo. Mio padre seguiva le vicende da lontano, a intermittenza, come un faro. Mi indicava qualche segreto sui clienti, ma di piú ormai non poteva fare senza esporsi verso gli altri soci. Non c’era niente che non andasse, niente per cui prendermi da parte, eppure sono sicuro che, quando alzava lo sguardo dal fondo del corridoio, dietro gli occhiali a mezzaluna che metteva per leggere guardasse preoccupato verso la mia porta.
page_no="18" Delle attività dello studio, quando andavo a casa dei miei, non si parlava mai. Ci andavo una volta alla settimana e – in quell’intreccio di luoghi e lavoro che era la nostra famiglia – io e mia madre non avevamo uno spazio comune. Entrambi passavamo con mio padre metà delle nostre vite, ma le metà diverse. Erano incontri sghembi, io e mio padre quasi annoiati di stare insieme, lei che cercava di recuperare momenti e informazioni che non le appartenevano. Senza riuscirci. Alla fine si metteva a parlare dei suoi studenti, dei suoi corsi, di teatro. Era piú facile per me seguire la sua vita di quanto lei non potesse seguire la mia. Quando me ne andavo mi abbracciava sulla porta, come se si accorgesse un’altra volta che del figlio senza misteri che viveva nella sua mansarda a quattrocento metri da lei in verità sapeva sempre meno. Mi sono sempre chiesto quanto mio padre le raccontasse di come mi muovevo in studio, dei suoi dubbi. Lo faceva di certo, ma io non sono mai riuscito a immaginarlo.
Sono cresciuto in una casa trasparente, senza chiavi alle porte, dove si usciva nudi dal bagno e non si nascondeva niente. Nessuno abbassava la voce per parlare di un altro.
Non so dire come trascorressi il tempo con Marta. Era la mia donna e ci stavo bene. C’erano le abitudini, e i momenti nei quali ti trovavi dentro senza sapere da dove erano venuti. Durante le vacanze di Natale passammo un pomeriggio intero ad attaccare le stelle e i pianeti sul soffitto in camera sua, se li era comprati non so come in un negozio di carte nautiche in viale Monte Nero. Quando si libera di tutto Marta gioca con le cose strane che le vengono in mente, le piace esplorare quello che non capisce, e mi porta con lei. Quella volta il gioco erano le stelle.
Lei era rimasta a terra con la mappa astronomica distesa sul pavimento e io in ...