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1.
Per un anno intero non fece altro che guidare, viaggiando avanti e indietro per l’America nell’attesa che i soldi finissero. Non aveva pensato che sarebbe continuato cosí a lungo, ma una cosa ne portò con sé un’altra, e al momento in cui Nashe si rese conto di ciò che gli stava accadendo, non aveva piú la possibilità di desiderare che finisse. Il terzo giorno del tredicesimo mese incontrò il ragazzo che si faceva chiamare Jackpot. Fu uno di quegli incontri casuali, imprevisti, che sembrano nascere dall’aria sottile – un ramoscello spezzato dal vento che improvvisamente atterra ai tuoi piedi. Fosse capitato in qualunque altro momento, Nashe probabilmente non avrebbe aperto bocca. Ma poiché si era già arreso, poiché credeva che non ci fosse piú niente da perdere, considerò l’estraneo come una sorta di sospensione della pena, come un’ultima possibilità di fare qualcosa per sé prima che fosse troppo tardi. E proprio per questo non ebbe esitazioni. Senza il minimo tremito di paura, Nashe chiuse gli occhi e saltò.
Tutto si ridusse alla sequenza, all’ordine degli eventi. Se l’avvocato non ci avesse messo sei mesi a trovarlo, non sarebbe mai stato per strada il giorno in cui incontrò Jack Pozzi, e di conseguenza nessuna delle cose che derivarono da quell’incontro sarebbe mai accaduta. Nashe trovava sconvolgente pensare alla sua vita in questi termini, ma il fatto fu che suo padre era morto da un mese buono quando Thérèse lo piantò, e se lui avesse avuto una vaga idea del denaro che stava per ereditare, probabilmente sarebbe riuscito a convincerla a restare. Anche se lei non fosse rimasta, non ci sarebbe stato alcun bisogno di portare Juliette in Minnesota a vivere con sua sorella, e quella sola cosa sarebbe bastata a impedirgli di fare ciò che poi fece. Ma allora aveva ancora il lavoro (era pompiere), e come poteva prendersi cura di una bambina di due anni quando il suo mestiere lo costringeva a star fuori di casa a qualunque ora del giorno e della notte? Se avesse avuto un po’ di soldi, avrebbe assunto una donna che abitasse con loro e badasse a Juliette, ma se avesse avuto un po’ di soldi non avrebbero affittato il piano terra di una misera casa bifamiliare a Somerville, e soprattutto Thérèse non sarebbe mai scappata via. Non che il suo stipendio fosse cosí basso, ma la malattia di sua madre, quattro anni prima, aveva prosciugato le sue risorse, e stava ancora pagando le rate mensili della casa di riposo in Florida dove era morta. Date le premesse, la casa di sua sorella gli era sembrata l’unica soluzione. Almeno, Juliette avrebbe avuto la possibilità di vivere in una vera famiglia, di essere circondata da altri bambini e di respirare un po’ d’aria pura, e questo era molto piú di qualsiasi cosa che poteva offrirle lui. Poi, di colpo, l’avvocato riuscí a trovarlo e il denaro gli cadde in grembo. Si trattava di una somma colossale – piú o meno duecentomila dollari, che per Nashe erano una cifra quasi inimmaginabile – ma ormai era già troppo tardi. Troppe cose si erano messe in moto nei cinque mesi trascorsi, e nemmeno i soldi potevano piú fermarle.
Non aveva visto suo padre per piú di trent’anni. L’ultima volta era stato quando aveva due anni, e da allora non avevano avuto piú nessun contatto – non una lettera, non una telefonata, niente. Secondo l’avvocato che si era occupato del suo patrimonio, il padre di Nashe aveva trascorso gli ultimi ventisei anni della sua vita in California, in una piccola città nel deserto, non lontano da Palm Springs. Era proprietario di un negozio di ferramenta, nel tempo libero giocava in borsa, e non si era piú risposato. Si era tenuto il passato per sé, disse l’avvocato, e fu solo quando entrò un giorno nel suo ufficio per fare testamento che Nashe senior disse per la prima volta di avere dei figli. «Stava morendo di cancro, – continuò la voce al telefono, – e non sapeva a chi altri lasciare i soldi. Pensava che avrebbe potuto dividerli tra i suoi due figli – metà a lei e metà a Donna».
– Strano modo di farsi perdonare, – disse Nashe.
– Be’, il vecchio era un tipo strano, non c’è dubbio. Non dimenticherò mai quello che mi disse quando gli domandai di lei e di sua sorella. «Probabilmente mi odiano a morte, – disse, – ma ormai è troppo tardi per piangerci sopra. Mi piacerebbe solo passare da loro dopo che sono crepato – tanto per vedere la faccia che faranno quando gli arriveranno i soldi».
– Mi meraviglio che sapesse dove trovarci.
– Non lo sapeva, – disse l’avvocato. – E mi creda, ci ho messo un’ira di Dio di tempo per rintracciarvi. Ci sono voluti sei mesi.
– Sarebbe stato molto meglio per me se mi avesse telefonato il giorno del funerale.
– Qualche volta hai fortuna, qualche volta no. Sei mesi fa non sapevo nemmeno se lei era vivo o morto.
Provare dolore era impossibile, ma Nashe dava per scontato che sarebbe stato colpito in qualche altro modo – da un sentimento simile alla tristezza, forse, da una tardiva ondata di rabbia e di rimpianti. Era suo padre, dopo tutto, e questo solo fatto avrebbe dovuto far sorgere qualche cupo pensiero sui misteri della vita. Ma accadde che Nashe non sentisse quasi altro che gioia. Il denaro rappresentava qualcosa di cosí straordinario, di cosí monumentale nelle sue conseguenze, che travolse tutto il resto. Senza fermarsi a considerare la faccenda troppo attentamente, pagò il suo debito di trentaduemila dollari alla casa di cura Terre Amabili, andò a comprarsi una macchina nuova (una rossa Saab 900 a due porte – la prima auto non usata che avesse posseduto) e si prese i giorni di vacanza che aveva accumulato negli ultimi quattro anni. La sera prima di lasciare Boston diede una generosa festa in proprio onore, fece baldoria con gli amici fino alle tre del mattino e poi, senza curarsi di andare a letto, saltò sulla sua macchina nuova e andò in Minnesota.
Fu là che cominciò a sentirsi crollare il mondo addosso. Nonostante tutte le feste e i ricordi a cui lui e Juliette si abbandonarono in quei giorni, Nashe si rese gradualmente conto che la situazione era irreparabile. Era stato troppo a lungo lontano da lei, e adesso che era tornato a riprenderla, era come se Juliette non si ricordasse di lui. Aveva creduto che bastassero le telefonate, che quelle conversazioni due volte la settimana l’avrebbero comunque tenuto vivo nella sua memoria. Ma che ne sanno i bambini di due anni delle telefonate interurbane? Per sei mesi non era stato per lei che una voce, una vaporosa collezione di suoni, e a poco a poco si era trasformato in un fantasma. Anche dopo due o tre giorni che lui era in casa, Juliette continuava a essere timida ed esitante, a ritrarsi di fronte ai suoi tentativi di afferrarla come se non credesse piú interamente alla sua esistenza. Era diventata parte della sua nuova famiglia, e lui era poco piú di un intruso, un alieno piombato da un altro pianeta. Si maledisse per averla lasciata lí, per aver organizzato le cose cosí bene. Adesso Juliette era l’adorata principessina della famiglia. C’erano tre cuginetti piú grandi con cui giocare, c’era il labrador, c’era il gatto, c’era l’altalena nel cortile, c’era tutto quello che potesse desiderare. Pensava con irritazione che suo cognato aveva usurpato l’affetto di Juliette, e col passare dei giorni faceva sempre piú fatica a non mostrare il suo risentimento. Ray Schweikert, un ex giocatore di football che era diventato professore di matematica e allenatore della squadra della scuola, era sempre parso a Nashe una specie di testa di legno, ma non c’erano dubbi che coi bambini ci sapeva fare. Era Mister Bontà, il babbo americano dal cuore grande cosí, e con Donna a tenere insieme le cose, la famiglia era solida come una roccia. Adesso Nashe aveva un po’ di soldi, ma le cose erano davvero cambiate? Cercò di immaginare i vantaggi per Juliette se fosse tornata a Boston a vivere con lui, ma non riuscí a mettere insieme una sola ragione a sua difesa. Voleva essere egoista, non rinunciare ai suoi diritti, ma cominciò a mancargli il coraggio, e alla fine si arrese all’ovvia verità. Se avesse strappato Juliette a quel mondo le avrebbe fatto piú male che bene.
Quando disse a Donna ciò che stava per fare, lei cercò di dissuaderlo usando molti degli argomenti che aveva tirato fuori dodici anni prima, quando le aveva detto che stava pensando di lasciare l’università: non essere avventato, aspetta un po’, non tagliare i ponti dietro di te. Aveva quell’aria preoccupata da sorella maggiore che le aveva visto indosso per tutta la sua infanzia, e anche adesso, tre o quattro vite dopo, sapeva che lei era l’unica persona al mondo di cui poteva fidarsi. Andarono avanti a parlare fino a tardi, seduti in cucina, molto tempo dopo che Ray e i bambini erano andati a letto, ma nonostante tutta la passione e il buon senso di Donna, finí proprio come dodici anni prima: Nashe la fiaccò finché lei si mise a piangere, e poi andò avanti per la sua strada.
La sua unica concessione fu che avrebbe aperto un fondo fiduciario per Juliette. Donna si accorse che lui era sul punto di commettere una follia (e gliel’aveva detto quella notte), e prima che desse fondo all’intera eredità, voleva che ne mettesse in salvo una parte, in un posto dove non potesse essere toccata. La mattina dopo Nashe passò due ore col direttore della Northfield Bank e concluse le pratiche necessarie. Si trascinò in giro per il resto della giornata e parte della seguente, e poi rifece le valigie e le caricò nel bagagliaio della macchina. Era un caldo pomeriggio di fine luglio, e l’intera famiglia uscí sul prato di fronte alla casa per salutarlo. Uno dopo l’altro, abbracciò e baciò i bambini, e quando alla fine venne il turno di Juliette, distolse gli occhi dai suoi sollevandola in braccio e premendo il volto contro il suo collo. «Fa’ la brava, – disse. – Non dimenticarti che papà ti vuol bene».
Aveva detto loro che contava di tornare in Massachusetts, ma, senza sapere come, si trovò ben presto a viaggiare nella direzione opposta. Questo avvenne perché mancò la rampa di accesso all’autostrada – un errore abbastanza comune – ma invece di fare trenta chilometri in piú per prendere l’autostrada nella direzione giusta, imboccò impulsivamente la rampa successiva, ben sapendo che aveva preso la strada sbagliata. Fu una decisione improvvisa e non premeditata, ma nel breve tempo che passò fra le due rampe Nashe si rese conto che non c’era differenza, che in fondo le due rampe erano una sola. Aveva detto Boston, ma era solo perché doveva dir loro qualcosa, e Boston fu la prima parola che gli venne in mente. Dato che nessuno si aspettava di vederlo là per altre due settimane, e aveva cosí tanto tempo a disposizione, perché preoccuparsi di tornare indietro? Era una prospettiva vertiginosa: immaginare tutta quella libertà, capire quanto poco importava la sua scelta, qualunque fosse. Poteva andare ovunque volesse, poteva fare qualunque cosa si sentisse di fare, e non c’era nemmeno una persona al mondo che ci avrebbe badato. Finché non fosse tornato, avrebbe potuto anche essere invisibile.
Guidò per sette ore filate, si fermò un momento per fare il pieno, e poi continuò per altre sei ore finché la stanchezza non ebbe la meglio su di lui. Era ormai nel Wyoming, e l’alba cominciava a sorgere all’orizzonte. Prese una stanza in un motel, dormí sodo per otto o nove ore, e poi andò nel ristorante accanto e scelse dal menú una bistecca e delle uova. Nel tardo pomeriggio era di nuovo in macchina, e ancora una volta guidò per tutta la notte, senza fermarsi finché non arrivò a metà del New Mexico. Dopo quella seconda notte, Nashe si rese conto che aveva perso il controllo di se stesso, che era caduto nella stretta di qualche forza sconcertante e invincibile. Era come un animale impazzito, che sbandava alla cieca da un chissà dove all’altro, ma nonostante prendesse mille volte la risoluzione di fermarsi, non riusciva a decidere di farlo. Ogni mattina andava a dormire dicendosi che ne aveva avuto abbastanza, che era ora di finirla, e ogni pomeriggio si svegliava con lo stesso desiderio, con lo stesso bisogno irresistibile di strisciare di nuovo in macchina. Rivoleva quella solitudine, quella corsa notturna attraverso il vuoto, quel rimbombo della strada sulla sua pelle. Continuò per tutte le due settimane, e ogni giorno si spingeva un po’ piú lontano, ogni giorno cercava di guidare un po’ di piú del giorno prima. Coprí l’intera parte occidentale della nazione, zigzagando avanti e indietro dall’Oregon al Texas, lanciandosi per le autostrade enormi e vuote che tagliano Arizona, Montana e Utah, ma sembrava che non guardasse alcunché né si preoccupasse di dov’era, e tranne che per il paio di frasi che era costretto a dire per far benzina o ordinare da mangiare, non proferí una sola parola. Quando finalmente tornò a Boston, Nashe si disse che era sull’orlo del crollo mentale, ma era solo perché non riusciva a pensare a nient’altro che spiegasse ciò che aveva fatto. Come scoprí alla fine, la verità era meno drammatica. Semplicemente si vergognava di se stesso per il fatto che gli era piaciuto cosí tanto.
Nashe credeva che sarebbe finita lí, che ormai era riuscito a venire a capo di quello strano piccolo virus che si era infilato nel suo sistema, e adesso sarebbe scivolato di nuovo nella solita vita di prima. All’inizio sembrò che andasse tutto bene. Il giorno del suo ritorno i colleghi lo presero in giro perché non era abbronzato («Che cosa hai fatto, Nashe, hai passato le vacanze in una grotta?»), e a mezza mattina stava già ridendo per le solite battute e le barzellette sporche. Ci fu un grande incendio a Roxbury quella notte, e quando giunse la richiesta di un paio di automezzi di riserva, Nashe arrivò al punto di dire a qualcuno che era contento di essere tornato a casa, che gli erano mancate le uscite in servizio. Ma questo stato d’animo non durò, e alla fine della settimana la sua inquietudine cresceva, la notte non riusciva a chiudere gli occhi senza ricordarsi della macchina. Nel suo giorno di riposo guidò fino al Maine e ritorno, ma questo sembrò solo peggiorare le cose, perché lo lasciò insoddisfatto e bramoso di stare piú tempo dietro il volante. Lottava per riottenere la stabilità di prima, ma la sua mente continuava a ritornare alla strada, all’entusiasmo che aveva provato quelle due settimane, e poco alla volta cominciò ad abbandonare ogni resistenza. Non voleva lasciare il lavoro, ma cosí non aveva tempo per guidare e cos’altro doveva fare? Nashe era nel corpo dei pompieri da sette anni, e considerava insensata anche solo un’ipotesi del genere – gettare via il lavoro per obbedire a un impulso, per un’agitazione senza nome. Era il solo lavoro che avesse mai significato qualcosa per lui, e aveva sempre considerato una fortuna l’esservisi imbattuto. Dopo aver lasciato l’università, era passato nei primi anni da un lavoro all’altro – libraio, uomo dei traslochi, barista, tassista – e aveva partecipato per caso all’esame per diventare pompiere, perché un cliente che una notte aveva caricato sul taxi aveva intenzione di concorrere e convinse Nashe a tentare. Quell’uomo fu scartato, ma Nashe finí per ottenere il voto piú alto assegnato quell’anno, e da un momento all’altro gli fu offerto un lavoro a cui per l’ultima volta aveva pensato quando aveva quattro anni. Donna rise quando la chiamò per dirle le novità, ma lui fece comunque il periodo di addestramento. Non c’erano dubbi che fosse una scelta curiosa, ma il lavoro lo assorbiva e continuò a renderlo felice, e lui non si pentí di averlo accettato. Fino a qualche mese prima gli sarebbe stato impossibile immaginare di lasciare il corpo, ma tutto ciò era prima che la sua vita si trasformasse in una telenovela, prima che la terra si aprisse attorno a lui per inghiottirlo. Forse era il momento giusto per cambiare. Aveva ancora piú di sessantamila dollari in banca, e forse avrebbe dovuto usarli per andarsene finché poteva.
Disse al capitano che aveva intenzione di trasferirsi in Minnesota. Sembrava una storia plausibile, e Nashe fece del suo meglio perché suonasse convincente, dilungandosi a raccontare che aveva ricevuto un’offerta per mettersi in società con un amico di suo cognato (per aprire, figurarsi, un negozio di ferramenta) e che pensava che sarebbe stato un ambiente adatto per farci crescere sua figlia. Il capitano ci cascò, ma questo non gli impedí di dire a Nashe che era un coglione. – È per quella moglie che ti sei ritrovato, – disse. – Da quando ha portato il culo fuori città anche il tuo cervello è andato a puttane. Non c’è niente di piú patetico. Vedere un uomo in gamba crollare per una fica. Prendi in pugno la tua vita, amico. Lascia perdere queste scemate e fa’ il tuo lavoro.
– Spiacente, capitano, – disse Nashe, – ci ho pensato a lungo.
– Pensato? E con che cosa? Per quello che vedo io, tu il cervello non ce l’hai piú.
– Lei è geloso, ecco tutto. Darebbe la sua mano destra per essere al posto mio.
– E trasferirmi in Minnesota? Neanche per sogno, amico. Potrei dirti diecimila cose che vorrei fare prima di passare nove mesi all’anno sotto mezzo metro di neve.
– Be’, se mai dovesse passarci, prometta di fermarsi, solo per un saluto. Le venderò un cacciavite o qualcosa del genere.
– Facciamo un martello, Nashe. Magari potrei usarlo per ficcare un po’ di buon senso dentro quella tua zucca vuota.
Ora che aveva fatto il primo passo, non gli fu difficile andare sino in fondo. Per i cinque giorni seguenti si occupò dei suoi affari: chiamò il padrone di casa per dirgli di cercarsi un nuovo inquilino, donò i mobili all’Esercito della Salvezza, chiuse i contratti di gas, luce e telefono. La noncuranza e la violenza di questi gesti gli diedero un profondo senso di appagamento, ma niente poteva contendere col semplice piacere di gettar via le cose. La prima notte passò molte ore a radunare ciò che apparteneva a Thérèse e a riempirne grossi sacchi dell’immondizia. Finalmente si liberava di lei con un’epurazione sistematica, una sepoltura collettiva di ogni oggetto che recasse la minima traccia della sua presenza. Si gettò nell’armadio di lei e rovesciò fuori cappotti e maglioni e vestiti; svuotò i suoi cassetti di biancheria, calze e gioielli; tolse tutte le foto di lei dall’album; gettò via la scatola del trucco e le sue riviste di moda; si liberò dei suoi libri, dei suoi dischi, della sua sveglia, dei suoi costumi da bagno, delle sue lettere. Questo ruppe il ghiaccio, per cosí dire, e il pomeriggio seguente, quando prese a considerare i propri possessi, Nashe agí con la stessa brutale accuratezza, trattando il proprio passato come se fosse ciarpame da buttare via. Tutto ciò che c’era in cucina finí al ricovero dei senza tetto di Boston sud. I libri andarono alla ragazza di sopra, che faceva le scuole superiori; il guantone da baseball andò al ragazzino della casa di fronte; la sua collezione di dischi fu venduta a un negozio di dischi di seconda mano a Cambridge. In queste transazioni c’era una certa pena, ma Nashe cominciava quasi a gradirla, a sentirsene nobilitato, come se credesse che piú si fosse allontanato dalla persona che era stato, migliore sarebbe diventato in futuro. Si sentiva come un uomo che avesse infine trovato il coraggio di ficcarsi una pallottola in testa – ma in questo caso la pallottola non significava morte ma vita, era l’esplosione che provoca la nascita di nuovi mondi.
Sapeva che se ne sarebbe dovuto andare anche il pianoforte, ma aspettò finché fu possibile, non volendo rinunciarvi sino all’ultimo. Era un piano verticale Baldwin che gli aveva comprato sua madre per il tredicesimo compleanno, e di questo le era sempre stato riconoscente, sapendo la fatica che aveva fatto per trovare il denaro. Nashe non si faceva illusioni sul suo talento, ma di solito cercava di dedicare allo strumento qualche ora ogni settimana, tentando di suonare in un modo o nellaltro, ma per intero, qualcuno dei vecchi pezzi che aveva imparato da ragazzo. Questo aveva sempre su di lui un effetto calmante, come se la musica lo aiutasse a vedere il mondo con maggiore chiarezza, a comprendere il suo posto nell’invisibile ordine delle cose. Ora che la casa era vuota e lui era pronto a partire, si trattenne un giorno in piú per dare un lungo concerto d’addio per le pareti vuote. Uno a uno, percorse svariate dozzine dei suoi pezzi preferiti, cominciando con le Barricate misteriose di Couperin e finendo con Jitterbug Waltz di Fats Waller: martellò sulla tastiera finché non sentí piú le dita e dovette smettere. Poi telefonò al suo accordatore degli ultimi sei anni (un cieco che si chiamava Antonelli) e si accordò per vendergli il Baldwin per quattrocentocinquanta dollari. Quando arrivarono i facchini, il mattino dopo, Nashe aveva già speso i soldi in cassette per lo stereo dell’auto. Era un atto opportuno, pensò – passare da una forma di musica all’altra – e gli piacque l’economia dello scambio. Dopodiché, non c’era piú nulla che lo trattenesse. Rimase intorno abbastanza per vedere gli uomini di Antonelli lottare per trascinare il piano fuori dalla casa, e poi, senza curarsi di salutare, se ne andò. Semplicemente uscí fuori, salí in macchina, e se ne andò.
Nashe non aveva nessun piano definito. Tutt’al piú l’idea era di lasciarsi andare alla deriva per un po’, viaggiare da un posto all’altro e vedere cosa succedeva. Pensava di stancarsi in un paio di mesi, e a quel punto si sarebbe seduto a riflettere sul da farsi. Ma i due mesi passarono e lui non era ancora pronto a smettere. A poco a poco, si era innamorato della sua nuova vita libera e irresponsabile, e una volta che questo accadde, non c’era piú nessuna ragione di smettere.
La velocità era la cosa essenziale, la gioia di sedersi in macchina e precipitarsi avanti attraverso lo spazio. Divenne il bene primario, una fame da saziare a ogni costo. Nulla attorno a lui per piú di un momento, e poiché i momenti si susseguivano, era come se lui solo continuasse a esistere. Lui era il punto fermo in un vortice di cambiamenti, un corpo che restava in equilibrio, assolutamente immobile, mentre il mondo gli si gettava incontro e scompariva. L’automobile divenne il sacrario dell’invulnerabilità, un rifugio dentro il quale nulla poteva piú colpirlo. Mentre guidava non aveva fardelli da portare, era libero dalla benché minima particella della vita precedente. Questo non significa che nella sua mente non sorgessero i ricordi, ma sembrava che non recassero piú nulla dell’antica angoscia. Forse con questo aveva qualcosa a che fare la musica, i nastri interminabili di Bach e Mozart e Verdi che ascoltava seduto al volante, come se in qualche modo i suoni emanassero da lui e impregnassero il paesaggio, trasformando il mondo visibile in un riflesso dei suoi stessi pensieri. Dopo tre o quattro mesi, aveva solo da salire in macchina per sentire che stava liberandosi del suo corpo, che appena premeva il piede sull’acceleratore e iniziava a...