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«Vai, fallo, Erica. Poi vedremo».
È da ieri sera che la frase le rintrona in testa senza tregua. Pensare che Dario l’aveva appena bisbigliata. A letto, al buio, ed era tardi, quell’interminabile tardi che solo l’insonnia riesce a sentire, come i pipistrelli con gli ultrasuoni.
«Vai, fallo, Erica. Poi vedremo». Che strana quella combinazione di ordine e proposito. A lei toccava fare, a tutti e due vedere. Poi.
Quanti giorni sono che quella frase le ronza dentro le orecchie?
Erica fa il conto: uno due tre quattro cinque sei. Sette giorni fa a Dario è arrivata quella lettera. Non c’è neanche piú bisogno di aprirla, ormai: si riconosce dal colore, dal formato, dal modo in cui sta scritto l’indirizzo. E poi già lo sapeva, la lettera è una pura formalità. Ma finché non ti arriva a casa resta un angolino, piccolo e buio, di speranza. Magari ci hanno ripensato.
Invece no. La lettera è arrivata, puntuale come le brutte malattie. Altri sei mesi, sei, di cassa integrazione. Dopo una serie di tre mesi tre, un mese uno, sei mesi sei che non si ricorda nemmeno piú quando è cominciata, povero Dario.
Solo che questa botta qui ha tutta l’aria di essere l’ultima. C’è odore di chiusura, in fabbrica. E un’aria pesante, tremenda. Il piú triste è il padrone: non ti stupiresti di sapere, una mattina, che s’è buttato nel fiume per la disperazione. Fa quasi piú pena lui degli operai. Però anche loro. Cioè noi. Mica si può tirare avanti in eterno con la cassa integrazione, che a fine mese non ci arrivi a meno di trovarti un’altra specie di lavoro che poi con i tempi che corrono si sta freschi.
Chi l’avrebbe mai detto, anche solo qualche anno fa, che Dario ed Erica si sarebbero ridotti cosí. Lei con il suo bel diploma in tasca. Lui in gamba, anche se senza diploma perché studiare gli ha sempre fatto schifo.
Per Erica il precariato è diventato quasi una vocazione: call center, promotrice commerciale (quella era la cosa che piú ha odiato: il sabato pomeriggio in un supermercato enorme, grande come una città, con una cuffia beige in testa, dietro un banchetto di cartone a tentare di infilare biscotti in mano alla gente. Quei biscotti non li può piú vedere). È finita a fare i lavori di casa da una signora. Quando ne ha bisogno lei (la signora, non Erica). E Dario?
Dario fa lampadine. Ma le lampadine consumano sempre meno, per rispetto dell’ambiente. Evviva il risparmio energetico, porca miseria. Alla faccia dell’ambiente, Dario è in cassa integrazione non lo sa piú nemmeno lui da quanto e chissà perché; questa volta qualche speranza l’aveva, malgrado la faccia sempre piú lunga del capo. Che poi ha i suoi capi anche lui – solo che si dice «indotto», che fa piú elegante. Il padrone produce per conto terzi, insomma. E quel terzi lí sembra fregarsene di mandare in malora tutta la ditta, padrone compreso.
«Vai, fallo, Erica. Poi vedremo»: la frase le è suonata nelle orecchie questa mattina alle sei, insieme al pianto di Eugenio. Dario non c’era già piú nel letto, chissà dov’era andato. Forse ai mercati generali, a racimolare qualcosa spostando casse di frutta e verdura: che tristezza.
Quanto ne avevano parlato, di quella possibilità. Il banco dei pegni. Erica manco sapeva che esistesse, un posto cosí, finché Dario non gliel’aveva spiegato per bene. Due, tre volte, perché la faccenda pareva piuttosto complicata. Vai con una cosa, ti danno dei soldi in cambio e anche un foglio. Puoi riprendertela, se hai i soldi piú un po’ di piú (interessi e altra roba che lei non aveva capito). Comunque è un posto sicuro, di una grande banca, non degli strozzini, tutt’altro. Si poteva star tranquilli. Poi vedremo, però.
Ma perché doveva andarci lei?
Per giorni e giorni ne avevano discusso.
Perché lei e non lui?
«Perché è tuo, Erica».
Non era mica convincente, quella spiegazione.
Lei si vergognava, non sapeva come fare. Non poteva andarci lui? E poi, bisognava proprio farlo? Non c’era un’altra strada?
«No, – aveva risposto lui. Sempre no. – È tuo. Non c’è un’altra strada. Ma poi vedremo». Povero Dario: sembrava invecchiato, negli ultimi tempi. No, invecchiato forse è una parola grossa. Certo piú curvo, pesante, chiuso. Trentacinque anni neanche ancora compiuti, e un bel po’ di nausea per la vita. Anche con i bambini. Alessandro dev’essersene accorto che suo padre non ci sta piú con la testa, quando gioca con lui. Ha sette anni, ma è sveglio, le cose le capisce e le orecchia anche dai muri di casa.
Cosí stamattina quando si è svegliata che Dario già non c’era piú e Dio solo sa dov’era andato, Erica l’ha fatto davvero.
Ha dato il biberon a Eugenio che a casa loro non ci sarebbe bisogno dell’orologio perché alle sei spaccate si sveglia urlando di fame, senza sgarrare di un minuto. Ha preso il primo caffè della giornata, che era appena tiepido nella moka – si vede che Dario era uscito da un po’, non tanto. Ha fatto il letto, messo su la lavatrice, lavato i piatti sporchi di ieri sera ch’era troppo stanca a furia di parlare. Ha acceso la tele, ma senza mettere il volume tanto non vale la pena di sentire. Nel frattempo si è svegliato anche Alessandro. Francesco quello mai, bisogna sempre dargli qualche scossone, tirare su di brutto le persiane. È un ghiro, mica un bambino di tre anni.
Li ha caricati tutti e tre in macchina – chissà per quanto potranno ancora tenerla, la macchina, con quel che costa. La scuola è già finita, ma l’asilo di Francesco è aperto fino a fine mese, almeno uno è sistemato. «Alessandro aspettami un momento in macchina, dai un’occhiata a tuo fratello se perde il ciuccio mi raccomando che non caschi per terra sotto il sedile che è tutto lurido». Depositato Francesco, è tornata in macchina e gli altri due li ha portati a sua madre, che sembrava appena sveglia e neanche tanto, sveglia. Pensare che gliel’aveva detto, ieri sera: guarda che domani ti porto i bambini perché ho delle cose da fare, mamma. Ci ha messo una vita a rispondere al citofono, un’altra vita ad aprire la porta di casa. Già si crepava di caldo alle otto del mattino, poveri bambini. E speriamo che non gli dia la minestrina in brodo a mezzogiorno, almeno, ad Alessandro. Di chiedere del menu non ha osato. Alessandro l’ha guardata mentre s’avviava giú per le scale con un’aria un po’ malinconica. Un giorno o l’altro di questi lo porta al mare. Col treno, che non ci è mai andato, in treno.
Poi è tornata a casa, perché voleva fare le cose con calma.
Anche se non è che ci fosse poi molto da fare.
Lo tiene in un sacchettino di pelle rossa, morbido morbido, con i laccetti rossi pure loro. Dentro il cassetto della loro biancheria, tutta insieme: boxer di lui, reggiseni e slip di lei. Qualche perizoma ma solo per le grandi occasioni, perché le dà fastidio. A lui piace cosí, e quando fanno sesso non glielo toglie mai, se ha indosso quello. Anzi, ci gioca fino allo sfinimento. Il sacchettino rosso con l’anello sta nel cassetto. E forse è per quello che gli è venuta l’idea, perché se lo trovano sotto gli occhi quasi ogni giorno, al cambio della biancheria. Prendi, metti, togli, e il sacchetto è sempre lí, un po’ in fondo al cassetto ma mica troppo, tanto che lo sguardo ci casca, il piú delle volte.
Che tempi di merda, pensa Erica in ascensore, che saranno le otto e mezza del mattino, non di piú, e fa strano tornare a casa cosí presto, con tutta la giornata ancora davanti. È come rientrare da un lungo viaggio anche se lei di viaggi lunghi non ne ha mai fatti. In Egitto, ecco, sí, per il viaggio di nozze. Quasi se l’era dimenticato.
Va dritta in camera da letto, cercando di non pensare a niente, men che meno a quel che sta facendo. Prova a pensare a Dario, solo che subito salta su la frase che rintrona, «Vai, fallo, Erica. Poi vedremo», e allora lo scaccia via, lui e quelle parole.
Apre il cassetto, fa finta di frugare un po’ fra le mutandine colorate (non una che sia bianca o nera o beige), alza persino qualche boxer di lui, tutti uguali (bianchi con l’elastico alto e nero che dà giú il colore anche al centesimo lavaggio, anche a trenta gradi). Eppure lo sa bene dov’è, il sacchettino rosso: è lí, nell’angolo a destra, un po’ in alto ma non troppo, il ciuffo del nodo che spunta sotto un reggiseno imbottito rosa antico.
Lo ficca in tasca, non in borsa. Non ha il coraggio di aprirlo.
Il traffico verso il centro, a quest’ora, è davvero snervante.
Mentre sta cercando parcheggio, la chiama Dario sul telefonino. Da casa, che lei gliel’ha detto mille volte che costa una fortuna, dal fisso. Ma lui niente: quand’è a casa, usa il telefono di casa. Rigido come un palo, su certe cose. Erica cerca di far durare il meno possibile la conversazione: ciao sono in macchina ti chiamo dopo. Clic.
L’indirizzo se l’è scritto su un foglio, ma fatica a trovare l’ingresso del monte. L’isolato è stretto, ogni porta la rimanda a un di qua o di là dietro l’angolo. Quella della sala aste è chiusa, c’è un cartello con gli orari e i prossimi appuntamenti. Argenti. Preziosi. Tappeti. Pellicce. Le sale un nodo in gola, scaccia via l’idea remota che un giorno o l’altro il suo sacchettino finisca lí, oltre quella porta e poi chissà dove, chissà a chi. Questo, non l’aveva ancora pensato, Erica. Già tanto era lo stordimento dell’addio: immaginare anche che un giorno diventasse di qualcun’altra, be’ quello era troppo per lei.
Scappa quasi di corsa, non sa nemmeno lei in quale direzione.
Poi arriva, per caso, all’ingresso giusto. C’è gente fuori. Tre, quattro uomini con le mani in tasca. Si parlano, gridano, chiamano.
– Non c’è piú fiducia. La gente non ha piú fiducia, – dice uno.
– Eh già, – gli fa eco un altro.
Sembrano di casa, su quel tratto di marciapiede. Erica li scansa, tiene lo sguardo basso e la mano in tasca. Quella dove c’è il sacchettino. Le prude la testa, come sempre quando è molto agitata.
Ci sono alcuni scalini, un ingresso con un grosso cartello in lingue diverse: italiano, inglese, francese, arabo e sotto a matita un’altra lingua che non si capisce che cosa sia. È in caratteri latini, con molte U. Forse rumeno. Forse filippino.
Ci sono due porte, una a destra e una a sinistra. Erica non bada alla macchina per i numeri. Si volta di qua e di là, dalle facce della gente cerca di capire dove debba andare lei. Quando pensa di aver trovato la porta giusta (sí, è quella di destra), ha un momento – forse l’unico, vero – di rifiuto.
No. Non ce la posso fare. Porca miseria. Vaffanculo tutti e tutto. Non entro lí dentro.
La testa prende a farle un male tremendo, che cancella il prurito.
Poi, succede l’imprevedibile.
Di per sé, una faccenda piuttosto normale: un tizio dall’aria scorbutica esce dalla porta senza degnarla di uno sguardo. Un altro, dietro a lei, afferra la maniglia e le tiene aperto, immaginando che stia per entrare. Un gesto beneducato, di cui Erica vede solo la mano: fitta di macchioline da vecchiaia. Ma non trema, ed è grande.
– Prego, – dice una voce dietro alla mano. L’uomo alle sue spalle, di Erica ha visto soltanto i capelli castani, lunghi e lisci. La statura da modella, il corpo un po’ pesante sui fianchi e la schiena: ha messo al mondo tre figli in sei anni!
Non le resta che entrare. Il rifiuto è sparito, la rabbia anche. Eppure le tocca uscire ancora, qualche minuto dopo, quando finalmente capisce che bisogna prendere il numero. E quello giusto: «preziosi».
In fondo, per il suo sacchettino rosso non c’è parola piú adatta.
– 36.
Tocca a me.
Dove vado?
Erica si guarda intorno. Sopra uno sportello c’è una luce rossa che lampeggia. È il numero suo. Si avvicina. Ha il fiato corto, come se fosse arrivata qui di corsa da chissà quale distanza. C’è l’ha anche nella voce, il fiato corto. Le parole vengono via dalla gola come strappate a viva forza.
– Buongiorno.
– Buongiorno, devo lasciare questo.
«Poi vedremo», ha detto Dario.
Quando capovolge il sacchettino rosso sopra il piatto – come ha visto fare mentre aspettava che arrivasse il suo turno –, della frase che le ri...