Racconti di caccia
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Racconti di caccia

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Racconti di caccia

Informazioni su questo libro

La caccia che viene narrata da Rigoni Stern in questi quattordici racconti non è un hobby o uno sport, è una passione. È una lotta contro se stessi, contro la fame, la stanchezza, il sonno, il freddo, sapendo che bisogna essere giusti al momento giusto, perché alla base c'è un rapporto non tanto con l'animale, quanto con il selvatico, la preda.
Eppure queste storie, attraverso un linguaggio lirico e allo stesso tempo semplice, non ci parlano solo di uomini in attesa e animali braccati, ma anche di silenzi piú importanti delle parole, di verità che scottano come il fuoco, di valori incontestabili e solenni. Sono storie a volte commoventi a volte un po' barbare, ma la violenza non è mai gratuita, è inesorabilmente regolata dai meccanismi della natura.
Perché il male, sembra ricordarci Rigoni Stern, è solo dell'uomo, quando dimentica o disprezza o distrugge gli equilibri della montagna e del bosco.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
Print ISBN
9788806207830
eBook ISBN
9788858404744

Una lettera dall’Australia

Un giorno incontrai per la montagna un tale che aveva inciso sul cinturino del cappello questa frase: L’è andà cosí.
Gli chiesi: – Com’è andata? – E lui guardando lontano e stringendosi nelle spalle rispose: – Mah! cosí l’è andà.
In quell’anno, il 1945, ritornavano a casa quelli che erano rimasti. Come nelle sere d’autunno ritornano alle stalle le pecore, le mucche e le capre a piccoli gruppi o isolate, cosí tornavano dalla Germania, dalla Russia, dalla Francia e dai Balcani quelli che la guerra aveva portato via e lasciato vivi.
Chi era stato dalla parte dei fascisti si rintanava in casa e non aveva il coraggio di uscire; quelli che erano stati partigiani passavano cantando per il paese con fazzoletti rossi e verdi attorno al collo, e quelli che ritornavano dalla prigionia sedevano in silenzio sull’uscio di casa a fumar sigarette e a guardare il volo degli uccelli.
Arrivai a piedi dall’Austria e in montagna era primavera; il mio amico, invece, arrivò in autunno dalla Prussia. Era una sera lucida, con i faggi, i larici e le nuvole colorate di rosso.
Magro e sparuto come un falco spelacchiato, la divisa a strappi e rammendi da non riuscire a capire dove finissero gli uni e incominciassero gli altri; a tracolla il tascapane con dentro la gavetta, il cucchiaio e la mantella stazzonata ed unta. Camminava per i prati senza tanto affrettarsi e dalla Prussia a qui aveva fatto tutta la strada a piedi cercando di evitare gli incontri con i soldati di qualsiasi razza. Non si era fidato di salire su treni e camion: per esperienza sapeva che lo avevano sempre portato in luoghi poco ospitali. Al massimo era salito su un carro di contadini e per il resto via, lungo strade secondarie, e montagne dove c’erano.
Ora era finalmente arrivato e non se ne rendeva conto; guardava attorno quelle cose: le sue montagne, i prati, il bosco, l’orto, la casa stessa come fossero cose nuove e le vedesse per la prima volta. Con il piede aprí il cancello che dava sulla strada e allora si ricordò: un ricordo che gli venne come un richiamo nella nebbia, che cosí faceva un tempo quando ritornava alla sera dalla cava di pietre; prima che arrivasse la cartolina rosa. Aprire il cancello era l’atto definitivo e ultimo che aveva sempre inconsciamente aspettato in tutti quegli anni, e se si era comportato da uomo e non da pecora matta era anche per questo e per quello che sarebbe stato dopo.
Il primo giorno stette in casa; girava per le stanze, oppure si sedeva vicino al focolare e fissava immoto il fuoco. Il mattino successivo andò in Municipio a dare il nome per la carta annonaria. Dopo, molto raramente lo si incontrava in paese. Era sempre a vagabondare per i boschi, con la scure e la gravina, per sradicare i ceppi degli abeti tagliati dai tedeschi per fare i ponti sul Po.
Anch’io, in quel tempo, quasi tutti i giorni andavo per i boschi come un orso ferito, masticando ricordi ed esperienze per cercar di vederci chiaro in questo mondo e ritrovarmi. Intanto preparavo la legna per l’inverno, e la solitudine e l’esercizio fisico mi giovarono piú che le iniezioni di calcio.
Poca gente girava allora per i boschi, la stagione era avanzata, il terreno gelato, e forse avevano ancora l’impressione dei rastrellamenti tedeschi, perciò quando sentivo una scure battere con furia sapevo che era lui e seguendo la traccia di quei colpi andavo a raggiungerlo. Ci scambiavamo ben poche parole e mai sul passato. Per lo piú stavamo a fumare in silenzio una sigaretta di trinciato o di canale – quel tabacco aspro e forte che veniva di contrabbando per pochi soldi dal Canale del Brenta. Qualche volta, quando c’era la nebbia che gelava sui rami degli abeti dando forma a tanti baffi bianchi, accendevamo il fuoco sul quale s’abbrustoliva la polenta e, in silenzio, ognuno seguendo i propri ricordi, ascoltavamo lo scricciolo o il rosicchiare dello scoiattolo o il battere del picchio.
Prima di Natale mi trovarono un posto dove lavorare, ma lui, come venne la neve, si rinchiuse in casa, e quei mesi li passò a patate e a polenta col latte. Dopo tutto, però, era meglio che nel Lager.
Al ritorno del cuculo m’ero già abituato a rivivere tra gli uomini e fu in quel tempo che si iniziò dalle mie parti un lavoro singolare. Consisteva, questo lavoro, nell’andare alla ricerca, con cercamine magnetici lasciati dagli alleati nei campi Arar, di rottami ferrosi e metallici abbandonati per le montagne dalla vecchia guerra del ’15. Con un po’ di fortuna ne venivano buone giornate di guadagno. Dalle trincee e dai ricoveri diroccati uscivano alla luce del sole cassette di cartucce, putrelle, bombe e tutti gli altri arnesi che si adoperano in guerra. Era una miniera nascosta e tonnellate di roba prendevano la strada della pianura.
Partivano, questi recuperanti, alla mattina prima dell’alba e ritornavano alla sera sul crepuscolo, ubriachi di stanchezza e con le mani terrose e gialle per la gelatina delle bombe. Ma era anche un mestiere pericoloso e piú volte in una stagione succedeva trambusto in paese per disgrazie mortali che fatalmente accadevano. Parecchi miei conoscenti, dopo essere passati incolumi attraverso la guerra e il partigianato, lasciarono la vita sulla porta di casa. Ma questa sarebbe un’altra storia.
Il mio amico, manco a dirlo, si mise pure lui a fare questo spericolato mestiere. Comprò a rate il cercamine e, a differenza degli altri che praticavano la ricerca in gruppi di tre o quattro, se ne andava sempre solo come un eremita. Lo vedevo di sfuggita la domenica dopo la messa; si beveva un bicchiere in fretta e se ne andava dopo aver fatto provvista di tabacco per una settimana. Una volta sola lo incontrai sul lavoro. Era un pomeriggio che andavo alla posta della beccaccia e lui, vicino a casa sua, stava battendo con la mazza un proiettile da 205. Camminai lungo; avevo ancora desiderio di vivere. Smise di battere e mi richiamò indietro. Voleva vedere il mio fucile da caccia. Lo soppesò, lo imbracciò rapido e accompagnò nel volo una passera; poi l’aprí e guardò contro luce nell’interno delle canne. Nel ridarmelo disse: – Aspetta –. E andò in casa. Uscí con un fucile nuovo e me lo porse senza parole. Vidi subito che non era un fucile di lusso e rifinito a cesello ma bensí robusto e piuttosto grezzo. Lo esaminai come aveva fatto lui con il mio e mi seguiva attentamente con gli occhi in ogni mossa. Glielo restituii dicendo che era indubbiamente un buon fucile. Era contento e lo fu ancor piú quando chiedendomi cosa potesse valere dissi una cifra superiore al suo valore.
Lo aveva comperato da un artigiano di Brescia con il guadagno delle bombe, ché il vecchio se l’erano preso i tedeschi durante una perquisizione in casa al tempo dei partigiani. Finalmente poteva ritornare a cacciare come una volta; ma non aveva ancora la licenza, gli mancavano i soldi, l’avrebbe presa l’anno venturo. Ora capivo chi sparava sulla montagna nei giorni non permessi. Glielo dissi, dapprima fece il tonto ma poi rise. Volli provare il suo fucile sparando a dei barattoli messi in fila dietro la casa. Tirava anche bene se pure rinculasse un po’ troppo.
L’autunno dopo andai con lui a caccia di urogalli. Era nel mese di ottobre e i monti attorno s’erano già spolverati di neve. Passavo a prenderlo nella sua casa che era ancora buio e sulla porta vedevo da lontano un punto rosso che ogni qual tratto diventava piú vivo come un occhio di gatto colpito dal chiarore di una stella: era la sua sigaretta e dietro c’era lui, in piedi, pronto, con il fucile in spalla e lo zaino.
Si camminava in silenzio per la mulattiera segnata dalla luna cercando di evitare le pietre piú grosse e si arrivava sul posto dopo due ore di cammino quando incominciava l’alba. Prima di iniziare la caccia ci sedevamo ai piedi di un grosso abete dai rami larghi e fitti; lí sotto, durante i temporali, si riparavano le vitelle della malga e il terreno era tutto scoperto e asciutto. Non c’era la brina e si accendeva il fuoco per abbrustolire la polenta e il salame per la colazione. Dopo, si fumava in pace una sigaretta e tutto questo era una cosa pacifica e buona, non come quello che si faceva prima di andare all’assalto.
Intanto che si aspettava l’arrivo del sole parlavamo di varie cose e, come sempre, con poche parole. Di come i residuati di guerra incominciassero a scarseggiare e del prezzo che era ribassato; dei conoscenti che avevano preso la strada dell’estero; del prezzo alto del legname; dei ghiri che rosicchiavano i giovani abeti e di cose del genere. Qualche volta il discorso cadeva sulla guerra e allora succedevano delle lunghe pause e ognuno seguiva i propri ricordi.
Quando nel sottobosco era arrivato il sole facendo rilucere le ultime bacche di uva orsina e di mirtillo e gli insetti rinati vorticavano attorno ai ceppi marciti e i pettirossi nei cespugli e la famiglia delle cince tra i rami iniziavano il loro festoso tramestío, allora ci mettevamo in caccia.
Con gli occhi fissi nel bosco, le orecchie tese, pronte ad afferrare ogni piccolo rumore e tutti i sensi aperti, a trenta passi l’uno dall’altro, a seconda che ce lo permettesse il terreno, andavamo cauti con il fucile spianato.
A volte la fortuna ci assisteva, altre volte era contraria. Eravamo astuti e pronti noi e loro. Erano giornate piene e felici, a ripensarle ora; e piú d’un urogallo era finito nei nostri vecchi zaini militari.
Una mattina ne alzammo uno che dal rumore del volo doveva essere maestoso come un’aquila. Pareva che al suo passaggio gli alberi dovessero schiantare come tagliati da una scure magica. Il mio amico sparò e quando corremmo avanti vedemmo delle piume cadere lente. Ma non si era sentito il rumore della caduta.
– L’ho toccato, – disse, – ma è andato via.
Come vide però che mi ostinavo a guardare in alto tra i rami disse ancora:
– È andato. Sarà verso le rocce –. Si sedette tra i mirtilli per dar forza alle parole e poi continuò:
– Lo troveremo piú tardi, dàgli tempo.
Il sole era ormai alto sul bosco; i ciuffolotti e i becchi in croce sulle cime degli abeti beccavano gli strobili; una coppia di scoiattoli giocava sopra le nostre teste e squittivano facendo la sarabanda. I segugi nella valle non scagnavano piú: s’erano zittiti. Forse avevano perduto la traccia o erano anche stanchi. Fino a qui s’udiva la voce che li chiamava a raccolta: – Falco! Faalco! Selvaa! Selvaa! Tooo! Tooo! Quaa! Quaquà!
Poi si sentí lo sparo che li radunava.
Il luogo dove eravamo era fuori dal mondo e dal tempo. Immaginavo l’urogallo che pasturava tra i mirtilli o che al sole, in una piccola buca sotto un larice, razzolava e si lisciava le penne.
Ci mettemmo stesi supini a guardare il cielo dove nessuna nuvola vagava. Passavano contro l’azzurro gli uccelli migratori: fringuelli montani, lucherini, frusoni, tordi. Venivano da nordest e andavano a ovest. Pensavo alla loro lunga via dell’aria, ai paesi che avevano sorvolato, che in parte avevo visto e che ora rivedevo nel loro volo. I Carpazi, la Polonia, il Baltico, la Scandinavia e fin su al paese dei Samoiedi e la Siberia. E qui il pensiero vagava fantasticando sulla vita di quei paesi lontanissimi, e ricordavo persone che lassú abitavano e che avevo conosciuto. Senza che me ne accorgessi parlai di queste cose al mio amico; lui mi ascoltava in silenzio fissando il cielo profondo e lasciavamo le formiche passeggiare tranquille sui nostri corpi.
Finalmente ci mettemmo ritti in piedi; controllammo le cartucce nei fucili, le molle dei percussori e, senza dirci una parola, cauti piú di sempre, ci avvicinammo dove presumemmo fosse l’urogallo ferito.
A rivederlo ora senza il fucile è quello un gran bel luogo. Gli abeti non sono fitti e hanno i rami allisciati lungo il tronco dalle nevi di tanti inverni. Qua e là vi cresce qualche larice contorto e qualche mugo; il sottobosco è pulito: senza cespugli o erbacce ma con tappeti di uva orsina dalle foglie rivestite di cellofan e le bacche rosse e bianche dal gusto acidulo e gradevole come piccole mele. Nelle radure mirtilli succosi. Nei posti piú ombrosi vi crescono soffici il muschio verde e l’argenteo lichene islandico. Questo bosco da Grandi Cacce dell’Aldilà finisce contro la montagna dove si alzano le rocce grige che lo chiudono. Vi sono pure dei grandi massi erratici chissà quando portati dai ghiacciai.
Ecco, proprio tra questi massi pensavamo si fosse rifugiato l’urogallo. Si camminava cauti e i piccoli rumori del bosco rendevano piú grande il silenzio. Con la coda dell’occhio sbirciavo il mio compagno; poi lui mi uscí dalla vista dietro a un dolmen e stavo con il fiato sospeso ad aspettare la fucilata.
E vi fu. Secca nell’aria tersa; il vento se la portò per la valle e, io aspettavo il grido: – Morto! – Invece gridò: – Attento! – Giravo lo sguardo attorno senza sapere dove afferrarmi, poi udii il volo possente venirmi incontro e infine lo vidi con il collo proteso in avanti, la coda distesa e nera. Me lo rividi davanti al mirino, spostai in avanti nella direzione del volo e premetti il grilletto.
In quegli attimi non si sa dove si è né come, né dove va la tua anima; non hai né muscoli né ossa, solo una sensazione indicibile.
Sentii di averlo colpito e corsi avanti, e mentre correvo udivo il tonfo. Era lí e la terra lo portava come prima l’aria lo sosteneva. Teneva ritta la testa e mi guardava. Mi sentivo timido davanti alla fatalità di quella morte che avevo dato e chinandomi gli accarezzavo il collo e lo ringraziavo.
Come una furia sbucò dal bosco il mio amico: – Potevi dire morto, almeno, – mi sgridò. Ma poi quando lo vide a terra si zittí improvvisamente e prima di raccoglierlo posò il fucile ad un albero. Lo prese per la testa e stendendo il braccio fece sí che la coda sfiorasse il terreno. L’urogallo sbatté un po’ le ali, stiracchiò le gambe e rimase immobile. L’avevo colpito in parti vitali. Lo mirammo e poi esclamò stupito: – È il nonno di tutti i boschi e delle montagne.
Ora che era nostro, che erano finiti tensione e spasimo, ora ci sembrava che fosse morto anche qualcosa di noi. Non restava piú niente né di noi né di lui di quello che eravamo prima: noi due, uomini qualsiasi e lui, una cosa morta qualsiasi. Ritornavano le montagne, le rocce, i massi, il bosco che poco prima non esistevano.
Prima che si raffreddasse del tutto con uno stecco a uncino gli levammo le interiora; fumavano sul terreno e mandavano un buon profumo di mirtilli e di bacche. Con una manciata di muschio pulimmo le piume sotto la coda. Ora era proprio finita del tutto.
Riprendemmo la strada verso casa e il sole era già scomparso dietro una montagna. Restavano illuminate ancora le cime degli alberi e le rocce in alto. Per via, il mio compagno veniva dicendo come gli era volato improvvisamente da dietro il masso, come rapido avesse sparato ma come invece di cadere lo avesse visto ancora volare sicuro. Decidemmo che si doveva venderlo a qualche cacciatore di passaggio. A mangiarlo sarebbe stato troppo duro; piú duro che una suola per scarpe: e ora non ci importava piú niente di niente. Verso sera venne a vederlo un dottore di Padova, voleva farlo imbalsamare e metterlo nel suo studio. Chiedemmo tremila lire e ce ne diede quattro.
Cosí finí e fu quella l’ultima volta che andammo a caccia assieme.
Non che venisse meno la nostra amicizia, ma avevo capito che amava restar solo; o forse era anche perché io faccio l’impiegato e scrivo storie e lui l’uomo libero da impegni, da orari e da convenienze. Penso anche che provasse per me quel sentimento che provano i soldati in prima linea per gli imboscati delle retrovie. Intanto continuava il suo pericoloso mestiere e nell’inverno si richiudeva in casa come le marmotte ad aspettare che la primavera sciogliesse il gelo. E in primavera, a mano a mano che le nevi si ritiravano su per la montagna, saliva anche lui con il cercamine a scovar rottami e bombe.
Con l’autunno ritornò la caccia in montagna. In agosto e ai primi di settembre non andava per i prati a caccia di quaglie o di altri piccoli uccelletti; aspettava l’apertura della «Zona Alpi» e nell’attesa girava di sera per i campi con il fucile in spalla senza sparare a nessun volatile.
Una volta lo incontrai che appunto girava cosí e mi fermò per farmi leggere una lettera che un comune amico gli aveva mandato dall’Australia. La lettera diceva press’a poco cosí: «Caro compare, spero che questa mia ti trovi in buona salute come lo è di me. Qui lavoro in diga e siamo un cantiere di mille persone e anche piú; lavoriamo a turno giorno e notte e prendiamo dei bei soldi. Si vive nelle baracche con la cucina al campo tipo naia ma si mangia in abbondanza piú carne che pane, si beve tè perché vino non se ne trova e si mette dentro tanto zucchero finché il cucchiaio resta in piedi. Ricordo il buon vino che abbiamo bevuto insieme dalla Palma e qui ti metto una sterlina per berla alla mia salute assieme a Mario Stern e agli altri amici. Però non bevetelo tutto ché quando ritorno voglio fare un bagno nella vinassa. Mi sono comprato un fucile a palla per andare a caccia alla domenica ma le munizioni costano care e poi bisogna andare giú a Melbourne per comperarle. Del resto c’è poca soddisfazione e non c’è gusto perché quando ammazzi tanta roba devi lasciarla andare a male perché non vale la pena di cucinarla. Vi sono moltissimi conigli selvatici che puoi prenderli a calci per farli correre e poi sparare, i canguri saltano come le cavallette e i pappagalli sono uccelli stupidi che di bello hanno solo le piume. Se vuoi venire qui c’è lavoro anche per te, siamo insieme quattro paesani: me, il Tono della Betta, Beppi Vedelaro e il compare Modesto. Se vuoi venire anche tu lo dico al capo che ti richieda, si prendono dei bei soldi. Scrivimi e ti dico le carte che bisogna fare. Se vai a caccia non ammazzare tutto ma lascia qualcosa anche per me. Salutami la mia vecchia e sono il tuo sincero amico...»
Cosí diceva press’a poco la lettera, e restituendogliela avevo già capito che sarebbe partito appena avesse potuto racimolare i soldi per il viaggio. Nell’ultima stagione non aveva guadagnato come gli anni precedenti perché, a causa della fine della guerra in Corea, il prezzo dei metalli era ribassato di molto. Questa era una buona occasione per andarsene.
– Vieni anche tu, – disse, – partiremo assieme.
Mi accompagnò per il sentiero attraverso i prati e io stavo zitto: lasciare il posto, mi dicevo, e andare per il mondo. Ma non lo avevo girato abbastanza, ormai? Ma questa volta potevo ritornare con un po’ di soldi e non coperto di stracci e affamato come un lupo a primavera. Ora, però, un pezzo di pane sicuro l’avevo anche a restar qui e anche un mese di ferie all’anno per andare a caccia e nel bosco a far legna. Nell’inverno avevo anche un po’ di tempo per andare con gli sci nei boschi a leggere le tracce sulla neve. E poi non avevo né casa né campi da allargare.
Dopo tutto sentivo, però, che se fosse stato per me solo sarei partito ancora una volta. Girando il mondo s’imparano tanti mestieri e si vedono molte cose. Lui invece aveva uno scopo ben preciso: starsene via il tempo necessario a farsi i soldi per comprare quattro o cinque campi da aggiungere a quelli dell’eredità paterna in modo da poter mantenere sul suo un quattro vacche e un cavallo. Cosí avrebbe potuto sboscar legname, piantar famiglia e vivere come desiderava. Un bel giorno l’avrei visto capitare in catasto a consultar mappe e registri e richiedere il certificato per la voltura. Poteva anche darsi che questo non fosse accaduto e che non sarebbe piú tornato come tanti altri.
Quando alla chiusa stava per lasciarmi disse:
– E allora hai deciso?
Non ebbi il coraggio di rispondere e lui disse solo:
– Ti sei imboscato bene.
Ritornò sui suoi passi e si allontanò fischiettando una vecchia canzone che cantavamo in guerra. Allora mi accorsi che ero diventato un altro. La vita degli uomini mi aveva ripreso: l’ufficio, la famiglia, la casa; le cose di tutti i giorni: il giornale, il libro, il letto con le lenzuola, la tavola con la tovaglia; la stufa, la radio. Lentamente era avvenuto il cambiamento e solo ora me ne accorgevo. Sarei stato ancora capace di dormire sotto la pioggia o nella neve? Sarei riuscito a stare delle giornate senza mangiare e camminare per chilometri e chilometri? E lavorare nella miniera? O rivoltarmi e lottare come avevo fatto? Lui sí che ne sarebbe stato ancora capace. E la sua compassione di ora e quel zufolare che si affievoliva man mano che si allontanava mi facevano stringere i denti. Questa sensazione sembrava dirmi: «Sei ancora quello». Ma era una scusa per me stesso.
Non sapevo se essere disgustato di questo mio vivere e intanto, riprendendo a camminare, davo calci ai sassi che incontravo lungo la strada, borbottavo tra me e davo manate agli steccati che delimitavano le proprietà. Poi mi calmai e divenni triste. Avvicinandomi a casa tornavano improvvisamente ricordi senza numero e senza data, frammisti come sequenze di tanti film in uno. Tutto. Infanzia, g...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Nota dell’editore
  5. Racconti di caccia
  6. La vigilia della caccia
  7. Una lettera dall’Australia
  8. Alba e Franco
  9. Le volpi sotto le stelle
  10. A caccia con l’Australiano
  11. Chiusura di caccia
  12. I giorni del Nord-Est II
  13. Parroco di montagna
  14. Ferie d’ottobre
  15. Nell’attesa, ascoltando il bosco
  16. La volpe
  17. Cani e fantasmi
  18. Il lepre nella neve
  19. Il cane che vidi piangere