Seconda parte
Simile a un dolore
Fu la Sua mano che mi portò al sicuro al di sopra del diluvio…
W. FAULKNER, Mentre morivo.
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Primo corifeo
Spettatori o lettori che siate… Nel teatro dell’uomo ci sono parti assegnate. Protagonisti e comprimari partecipano al rituale della morte, che è il solo a raccontare la vita. Il combattente, di guerre o d’esistenza che sia, è composto nel letto del compianto, le donne gli «leggono la vita». Nel gioco delle parti partorire, allevare, amare si qualificano nella capacità di rifiutare la morte e nell’umiltà di accettarla. La madre di tutte le prefiche assomma dolore e soddisfazione, dolore per una vita che si è spenta, e soddisfazione per un percorso che si è compiuto fino in fondo. Il figlio, il fratello, il marito immobile nel letto di morte è vivo nella parola: chi era, che cosa ha fatto, quanto era bello, quanto era coraggioso. Una vita è un fuoco perpetuo di ricordi e l’anima un tizzone ardente sotto le braci. Di questo sapere la madre di tutte le prefiche si fa vanto, quasi come di un traguardo raggiunto.
«A mie toccat su piantu, | a mie su sentimentu».
A lei spetta di piangere perché il morto è suo, perché in questo nuovo travaglio sussiste l’unica speranza di beffare la morte. La madre di tutte le prefiche deve confrontarsi con il nodo che la stringe: figlia di suo padre, madre di suo figlio, moglie di suo marito, ma madre di suo padre, moglie di suo figlio, figlia di suo figlio. «A chie mi lassas fizzu | a chie, babbu amorosu, | a chie divinu isposu…»
Nel teatro dell’uomo ci sono metri assegnati. L’ostinata stabilità del settenario in grappoli di sestine. Il lamento che incanta la tragedia: l’inganno che avvicina allontanando. La solitudine di Una che è Tutte. Altre madri, altre sorelle, altre mogli verranno spinte al centro della scena da angeli annuncianti, tremanti, portatori di dolore.
Qui la scena è in atto, la prendiamo dal centro, dal cuore dell’azione, che azione non è, è racconto dell’azione. C’è l’estinto, c’è la madre, figlia, moglie, sorella, e c’è la Morte che silenziosa assiste, e si rifiuta di dare spiegazioni, ma partecipa anch’essa.
Stanno sedute insieme, la Morte e la madre di tutte le prefiche, e si abbracciano piangenti.
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I.
(Bengasi e ritorno)
«Stocchino Samuele, di anni 18, pastore, celibe, pur avendo frequentato sino alla seconda elementare sa tuttavia leggere e scrivere sufficientemente.
È di costituzione piuttosto gracile, ma assai forte; alto m. 1,63 con una grande apertura delle braccia di m. 1,67. La massima circonferenza cranica misura mm. 542; la semicurva anteriore mm. 280, la posteriore mm. 260; le laterali destra e sinistra rispettivamente mm. 270; la curva longitudinale 330, la biauricolare 340; il diametro anteroposteriore 190; media capacità cranica probabile 1537. Indice cefalico 71,1; tipo del cranio: dolicocefalo.
Seni frontali e arcate sopraccigliari del tutto regolari, la fronte è media, piana, non ricoperta dai capelli; la faccia è tonda, femminea; l’occhio è allungato vivissimo; il naso piccolo e diritto; i canini superiori sono sviluppatissimi; non si notano spazi rilevanti fra gli incisivi superiori; le labbra sono tumide; la mandibola voluminosa; i capelli sono folti, fulvi, lisci; la cute è rosea.
I riflessi pupillari sono fulminei. La forza di strizione non è indifferente, misurando il dinamometro 38 alla pressione con la mano destra e 31 con la sinistra. Il polso batte 65 volte al minuto, nel qual periodo di tempo si contano 23 respirazioni. La temperatura ascellare è di 36,9.
Svestito si presenta di costituzione armonica, busto nervoso, fianchi e glutei stretti; testicoli pienamente sviluppati, pene medio; peluria rada.
Mani e piedi affusolati.
page_no="55" Il soggetto si manifesta discretamente intelligente e dà risposte pronte e sicure; alla domanda sul perché voglia entrare come volontario nel Regio Esercito risponde di volere servire la sua patria. Alla domanda su quale sia la patria che vuol servire, dopo un’incertezza vistosa scandisce: l’Italia.
Si dichiara abile all’arruolamento».
Poteva vedere la sua morte, qualche volta. Era come un pensiero che si concretizzava. La paura piú profonda che diventava tanto familiare da non essere nemmeno paura. Poteva sentire il beccheggio del piroscafo stravolto dalle onde. Ed era insieme rivedere l’estremo della vita e il suo inizio. Il suo giovane cuore battagliero era stato inghiottito con altri mille, e piú, dentro al ventre metallico di una nave, e ora sperimentava il potere del mare agitato. Ed era un oscillare ostinato, infinito, un abominevole contatto di carni e di corpi e di respiri. Questo era il mare, questo era quanto di orribile circondava la sua terra. Ora era distante come non mai, ma distante non significava essere da qualche parte. Il mare era niente. Questo ricordava.
Solo quarantotto ore prima, una vita intera, il porto di Brindisi era una foresta oscillante di cento e piú navi invincibili, con la croce di Cristo e lo stemma sabaudo stampati sulle carene e la forza di migliaia di bocche di fuoco. Una potenza al servizio della Fede e del Progresso, contro il nemico turco.
Nei suoi sedici anni, Stocchino Samuele da Arzana, diciottenne per menzogna, abile e arruolato, era caduto in ginocchio, baciando le lastre grigie della banchina, pregando la sorte perché la sua prima spedizione lo conducesse verso la gloria splendente delle armi. Aveva consegnato con mano tremante, d’emozione non di paura, i documenti che lo autorizzavano a salpare insieme ai suoi compagni sconosciuti del 4° Fanteria. Ma salendo sul piroscafo aveva avuto una vertigine, perché il suo destino si decideva allora. Il suo corpo era diventato lo strumento di un furore che gli faceva brillare lo sguardo. E lo stesso identico sguardo poteva vederlo nei visi di migliaia di uomini ammassati sulla banchina e pronti a farsi ingoiare dalle bocche spalancate delle navi. Un convoglio di nove piroscafi carico di truppe, e scortato dalle corazzate Regina Elena, Roma e Napoli, dall’incrociatore corazzato Amalfi, dagli incrociatori protetti Piemonte, Liguria, Etruria e Lombardia, e da una squadriglia di cacciatorpediniere e torpediniere, custodito dalla nave delle navi, l’ammiraglia, la Vittorio Emanuele. Una flotta pronta a raggiungere Bengasi. Bengasi appunto. Che, pensava Samuele, non era nient’altro che un’isola, proprio come quella da cui era partito. Poi qualcuno gli aveva detto che era un cane ignorante, che nel mare infinito non galleggiano solo isole, ma anche penisole e continenti. Ma a lui come si faceva a contraddirlo? A Stocchino Samuele cane ignorante non si poteva dire, non nel ventre freddissimo di un piroscafo per le truppe da sbarco:
– Tu a me cane ignorante non me lo dici! – aveva sibilato.
E forse quella era stata la prima, e piú lunga, frase in italiano che avesse mai pronunciato… Fizzu ’e bagassa!
Dicevano che la nave ammiraglia quella sÃ. Pareva un palazzo che la vita non sarebbe bastata a visitare, dicevano. Gli alloggiamenti erano una reggia sontuosa di legni pregiati.
Dopo sette ore di navigazione col vento favorevole la corazzata ammiraglia raggiunse la sponda ionica della Grecia e i piroscafi, le corazzate, le torpediniere e cacciatorpediniere, la seguirono come una fila di anatroccoli.
– Dove siamo? Dove siamo? – continuava a chiedere un giovane con le labbra asciutte.
– A Cipro, – rispose qualcuno.
– A Cipro? Che Cipro… Siamo all’altezza di Creta, ignoranti… Al centro, tra le isole di Malta e Creta, esattamente, – intervenne un marinaio che portava da bere.
Che differenza fa? Altre isole ancora. Ho ragione io: fuori di casa, pensò Samuele rinchiuso in una specie di mutismo concentratissimo, fuori dalla mia terra, ci sono solo isole. Sardegne dappertutto, pensò Samuele, Sardegne sparse per gli oceani, gettate nei mari alla rinfusa. A Cipro, a Rodi, a Creta, a Malta. E chissà dove…
La tempesta si scatenò al largo del porto di Bengasi. Una tempesta durissima. Con pioggia battente. Sale, ferro e notte. Il piroscafo si piegava su se stesso con sibili di balena. Pareva distendersi sui fianchi, poi ritornava nel suo assetto. E cosà infinitamente.
L’ingresso di Samuele Stocchino in guerra fu battezzato dal grecale che cannoneggiava a prua. E dalla pioggia torrenziale che faceva cantare i ponti della nave.
Nel fragore schiumoso del mare e del vento, i richiami urlati dei fanti parevano sussurri di moribondi. All’assolo delle onde faceva bordone la pena atroce della certezza che non c’era un posto sicuro, dentro o fuori la nave.
Poi una bonaccia, improvvisa, fermò l’intero convoglio. Prigionieri del nulla, questa volta. Cosà come erano stati sballottati in un braccio infimo di mare, ora pareva che dovessero vedere la propria salvezza. Nella superficie immobile, potevano scorgere schegge di terra, anch’esse isole.
– Dove siamo?
– A Bengasi, a Bengasi, ignorante.
Sulla nave ammiraglia fu issata la bandiera di combattimento.
Ma fu una calma temporanea: nell’ora seguente, proprio mentre avvenivano le operazioni di sbarco, il mare riprese a ribollire peggio di prima…
Era stato morire. Solo che poteva ricordarlo. Quando il letto riprendeva a fluttuare tanto da costringerlo ad aggrapparsi alle sponde per non esserne sbalzato fuori. E la nausea circondava il capo di una membrana viscida.
Cosà Samuele Stocchino apriva gli occhi e ancora per un attimo avvertiva l’instabilità . Fino a quando la certezza dell’alba bloccava il dondolio.
Sfilando le gambe dalle coperte si portò a sedere sul letto, provò a mettere a fuoco lo spazio circostante illuminato dalla luce flebile delle braci nel camino. Fece aderire i piedi nudi al pavimento gelido per constatare la solidità del suolo.
… Issata la bandiera di combattimento, immediatamente fu aperto il fuoco contro la spiaggia della Giuliana, dove dovevano sbarcare i fanti. Le corazzate mirarono contro la caserma della Berka e contro il castello, su cui sventolava la bandiera turca, che ai primi colpi fu abbattuta.
Alle 8,50, protette dal tiro delle navi e guidate dal capitano Frank, sotto una pioggia insistente e con il mare agitato, presero terra le compagnie da sbarco con alcuni pezzi da 76 e si schierarono sul ciglio delle dune, appostando alla sinistra le artiglierie e permettendo agli zappatori del Genio di costruire alcuni pontili su cui cominciarono a passare le truppe...
E poi? Che cos’altro racconta Samuele di quello che c’è fuori? E della Tripolitania che cosa racconta? E dello sbarco in Cirenaica? Di quella terra sterile e arroventata che tante vite è costata, non sa proprio che cosa raccontare. Felice lo incalza, a lui le storie di soldati gli sono sempre piaciute. Ma Samuele di soldati non sa che dire, lui si ricorda solo le marce forzate sotto il sole cocente e le forche di gruppo per i beduini. Cosà racconta della prima volta che ha affondato una baionetta dentro a un corpo umano…
Alle 15,30 il 4° Fanteria diede inizio alla manovra, muovendo in due schiere distanziate convenientemente con formazioni poco vulnerabili e in perfetto ordine. Quell’avanzata su terreno scoperto in dolce salita e sotto il fuoco nemico apparve dalla spiaggia e dalle navi un esempio veramente mirabile di applicazione dei piú sani criteri tattici, e poté essere eseguita con crescente interessamento in tutto il suo sviluppo. Alle truppe già affaticate dai disagi del mattino, il comandante della brigata aveva comandato di deporre gli zaini. In perfetta corrispondenza di tempo, il generale Ameglio guidò di persona l’attacco frontale dei marinai e di un battaglione misto del 4° e 63° Fanteria.
Tra il Sibbah e il Lago Salato ci mandano a noi, due plotoni del 4° e una compagnia e mezza del 63°, per coprire i marinai che stanno proteggendo lo sbarco. Volano pallottole dappertutto… Quella terra è secca e rugosa, i beduini sono come uova di pidocchio tra i capelli… Non c’è da ragionare, c’è da stanarli e impedirgli di colpire i genieri che posizionano i pontili. Io manco lo so come sono sceso dalla nave, manco raccontare lo posso. Nel mare agitato ci ha aiutato san Cristoforo facendoci salire sulle spalle. Vabbe’, bagnato, iffustu che unu puzoneddu, mi sono trovato sulla spiaggia. Alle spalle il mare mosso, davanti la terra mossa. Sempre su matessi… Tutto uguale. Dentro a quelle onde di terra rossa nuotano i beduini, rossi anche loro. E sparano. In trenta eravamo dentro una buca e appena tiravamo fuori la testa erano guai. Quei maledetti gridano come animali arrajolati, come cani idrofobi, perché vedono che le truppe italiane, uscendo dai piroscafi, cominciano ad annigheddare la sabbia come granchi neri. Per questo jubilano i beduini, per dirsi che o si spara o si muore, e quando finiscono le pallottole o si ammazza o si muore. Questo io lo capisco come se l’abbia saputo da sempre. Dentro al fossato sembra che siamo finiti da vivi in una tomba, si comincia a dire che dobbiamo uscire di lÃ… Chi è il piú alto in grado? Chi cazzo è? Ma non ci sono piú alti in grado dentro a quella fossa… Solo avvoltoi che ci stanno aspettando. A uno che cerca di uscire gli arriva una pallottola fra gli occhi; a un altro lo prendono alla spalla. Non possiamo affacciarci per sparare, quei maledetti sparano e sparano e sparano…
Arduo fu invece far sloggiare gli arabi dalle trincee; i due ufficiali superiori presenti, capitano di fregata Frank e tenente colonnello Gangitano, caddero entrambi feriti piuttosto gravemente; cosà pure due comandanti di compagnia e altri ufficiali. Il generale Ameglio si portò allora in prima linea e condusse le truppe a ripetuti attacchi alla baionetta che assicurarono in breve tempo il possesso delle trincee. Il sole calava intanto rapidamente e il seguito delle operazioni si svolse in una semioscurità .
…E allora? chiede Felice che fino a quel momento quasi non ha respirato.
…E allora è meglio affidarsi a qualche santo, ca in cue no fit cosa de b’essire bibu… Il modo, dico io, è fare quello che non si aspettano. Uscire, dico io, uscire che qui si fa la fine del topo. E deo su soriche propriu non bi lu potto biere. Ma a me chi mi uccide? Eh? Arriva il buio, dico io: se noi non possiamo vederli, neanche loro ci possono vedere… Cosà esco allo scoperto con le pallottole che mi fischiano intorno all’altezza delle orecchie. Buio nero nero de repente, solo luci giú alla spiaggia e le bocche delle cannoniere dalle corazzate. Ma il mare si è calmato. È una notte di stelle, ma senza luna. Mentre sto correndo verso la spiaggia sento un respiro affannato che mi segue appresso. Chissà quanti di quelli che eravamo nel fosso sono riusciti a salvarsi… Mica le capisci queste cose mentre combatti, eh… Io corro, un beduino nero anzi rosso come il demonio mi apparisce proprio davanti, siamo talmente vicini che sembra quasi che ci stiamo addobiando. Faccio come per stringergli la mano, ma quella mano è una baionetta inastata. Lui sbarra il bianco degli occhi e quasi mi abbraccia.
L’acciaio taglia il costato del beduino come uno spiedo taglia il costato dell’agnellone. Con un rumore di cosa morbida ma resistente che è la pelle sotto la pelle vera e propria. Quella che copre i muscoli… È quella che all’inizio fa resistenza, ed è quella che quando si strappa fa rumore. Perché fa la ferita come una bocca che succhia l’acciaio, l’assapora ben bene, si ciuccia tutto il gusto della lama. Quel sapore che, lo so io, è notte...
Ma del sapore di notte, Samuele non sa rendersi conto: è un sentimento senza spiegazione. CosÃ, per lo sguardo infantile di Felice che beve storie di guerra, quel racconto finisce nell’abbraccio notturno tra il beduino e il fante Stocchino Samuele.
Perciò tutto quel pensiero resta come custodito tra la testa e il petto, reso paralitico dalla carenza del linguaggio. Ma ugualmente pulsa. E genera l’imbarazzo di chi non conosce il nome di una cosa. Imbarazzo, un’altra parola che si manifestava prima di nascere veramente. Imbarazzo era un’aritmia del respiro, era come… Come al ritorno dalla festa di battesimo, piú o meno dieci anni prima, come quando si era lasciato inghiottire dalla notte ed era finito nell’abisso. Come quando aveva deciso di arruolarsi per la Libia…
La cosa certo aveva il suo lato divertente.
– Sono stanco, adesso, – dice piano con un sorriso appena accennato.
Felice lo guarda, poi, capendo con ritardo, accenna a se stesso e lascia la stanza.
Il 24 febbraio 1912, durante la traversata che da Bengasi lo porta a Tripoli, il fante Stocchino Samuele comincia a sputare sangue.
È un piccolo eroe locale: a sparare non è granché, ma nel corpo a corpo non ha rivali. Lui si butta sul nemico come se volesse abbracciarlo, fa la guerra maschia spacciandosi per femmina in calore. Adora e ammalia l’avversario, gli promette baci e carezze, e poi lo trafigge con la baionetta. E quell’altro quasi contento si abbandona alla buona morte dell’acciaio. Come lo schiavo fedele regge la daga contro il petto del patrizio suicida, cosà lui, semplicemente, con amore, dispensa la fine.
Oh, se tutte le sue vittime avessero potuto parlare, se a ognuno di noi fosse consentito d’interrogare i corpi esanimi e se a loro fosse concesso di rispondere, quei corpi beduini, con i pugni stretti al petto per abbracciare il pugnale, racconterebbero con quale morbidissimo languore si sono gettati in pasto alla bestia, con quale ovattata leggerezza sono caduti prima di assaporare la sabbia bollente. E con quale sguardo amorevole, quale dolcissima dolcezza, squisita squisitezza, si sono lasciati trafiggere.
Lui è un piccolo eroe locale, l’unico della truppa che assolva senza protestare il compito di constatare, col tenente medico, la morte avvenuta dei condannati all’impiccagione. A volte persino il tenente medico ne ha abbastanza dei beduini lasciati a rinsecchire sotto la canicola, ma lui no. Lui fa il suo dovere con pignoleria: controllo del polso, specchietto davanti al naso.
Lui è un fantaccino, una nullità che ha trovato un senso. Si confonde nella massa, è un garzone intraprendente nella Premiata Macelleria Italia. È un agente in terra della Ditta Morte. Ecco qualcosa che sapeva, ma che non aveva un nome. Il lupo che gli pulsa in petto ha fatto le zanne.
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II.
(Cerchi una cosa e ne trovi un’altra:
della volta che Samuele perdette la verginità )
Se a Felice piacciono le storie di guerra, a Gonario piacciono le storie di donne. Si è fatto irsuto e scabro, il fratello maggiore, quasi un’icona del pastore. Ma è restato servo. Ora ha qualche pecora di sua proprietà che può far pascolare insieme a quelle del padrone. Al compimento dei diciannove anni ha perso la verginità con una bagassa di giro. E ora è là che vuol sentire di negrette che fin da ...