
- 112 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Body Art
Informazioni su questo libro
Una storia di fantasmi, forse. L'allucinazione di un'artista costretta a confrontarsi con un dolore piú grande di lei, una meditazione sul tempo e sullo spazio e un viaggio dentro il mistero della creazione artistica.
Don DeLillo scrive un libro scarno e perturbante che racconta la storia di un abbandono e traccia il diario di ogni solitudine. «Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. C'è una luce nitida, un senso di cose delineate con precisione, strisce di lucentezza liquida sulla baia. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la piú piccola delle foglie cadute è trafitta di consapevolezza, tu sai con maggiore sicurezza chi sei».
Domande frequenti
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Informazioni
Print ISBN
9788806194932eBook ISBN
9788858402757Capitolo primo
Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. C’è una luce nitida, un senso di cose delineate con precisone, strisce di lucentezza liquida sulla baia. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la piú piccola delle foglie cadute è trafitta di consapevolezza, tu sai con maggiore sicurezza chi sei. Nel rumore del vento tra i pini, il mondo viene alla luce, in modo irreversibile, e il ragno resta attaccato alla ragnatela agitata dal vento.
Quell’ultima mattina accadde che fossero insieme in cucina, e si sfiorassero di continuo per prendere oggetti dagli armadi e dai cassetti, e poi si fermassero al lavandino o al frigorifero l’uno in attesa dell’altra, ancora un po’ vischiosi della materia dei sogni, e lei fece scorrere l’acqua del rubinetto sui mirtilli che teneva in mano e chiuse gli occhi per inalarne il profumo.
Lui era seduto con il giornale, mescolava il caffè. Il suo caffè, nella sua tazza. Il giornale lo dividevano ma apparteneva, senza bisogno di precisarlo, a lei.
– Volevo dire qualcosa ma non.
Lei fece scorrere l’acqua dal rubinetto e sembrò accorgersene. Era la prima volta che se ne accorgeva.
page_no="3" – Sulla casa. Ecco cosa, – disse lui. – Ecco cosa volevo dirti.
Si accorse che l’acqua del rubinetto diventava opaca dopo pochi secondi. Scendeva limpida e argentea e poi nel giro di qualche secondo diventava opaca e sembrava cosà strano che in tutti quei mesi e tutte quelle volte che aveva fatto scorrere l’acqua dal rubinetto non si fosse mai accorta di come da principio sgorgasse limpida e poi diventasse non proprio torbida ma opaca, o forse non era mai successo prima, oppure se n’era accorta e dimenticata.
Andò all’armadietto con i mirtilli bagnati in mano, prese la scatola dei cereali e la portò al piano di lavoro, la scatola essenzialmente bianca e marrone, e in quel momento l’aggeggio del tostapane scattò e lei lo spinse giú di nuovo perché ci volevano due scatti per tostare bene il pane e lui annuà distratto dato che era il suo pane tostato, e il burro era il suo burro, poi accese la radio e cercò le previsioni del tempo.
I passeri erano intorno al beccatoio, battevano le ali, si contendevano lo spazio sui posatoi curvi.
Prese una ciotola dall’armadietto vicino, ci versò dentro i cereali scuotendo la scatola, poi sparse sopra i mirtilli. Si asciugò la mano strofinandola sui jeans, provando una vaga sensazione di colore blu e di sbiadito.
Come si chiamava, la levetta. Aveva tirato giú la levetta per tostare al punto giusto il pane di Rey.
Il pane tostato era di Rey, le previsioni del tempo invece erano sue. Le ascoltava alla radio e spesso anche al telefono, all’apposito numero, e a volte andava a mettersi davanti alla casa e scrutava il cielo della costa, assaporava la brezza in cerca di implicazioni latenti.
– SÃ, esattamente. So cosa volevo dirti, – disse lui.
Lei andò al frigorifero e aprà lo sportello. Restò ferma, cercando di ricordare qualcosa.
page_no="4" Disse: – Che cosa? – Voleva dire che cos’hai detto, non che cosa volevi dirmi.
Ricordò, i granuli di soia. Attraversò la stanza fino all’armadietto e prese la scatola, poi tenne fermo lo sportello del frigorifero perché non si chiudesse automaticamente. Tirò fuori il latte, rendendosi conto di quello che lui aveva detto e lei non aveva sentito circa otto secondi prima.
Tutte le volte che doveva chinarsi a prendere qualcosa nelle parti inferiori e remote del frigorifero lasciava andare un gemito – non proprio tutte le volte – che sembrava il lamento di una vita. Era troppo snella e agile per provare fatica e gemeva solo per fare eco a Rey, identificandosi con lui, Rey, con quel suo modo di gemere cosà naturale e profondo che la fatica si trasmetteva anche a lei.
Ora che ricordava quello che voleva dirle, lui sembrò perdere interesse alla cosa. Non aveva bisogno di vederlo in faccia per saperlo. Era nell’aria. Era nella pausa seguita alla sua osservazione di otto, dieci, dodici secondi prima. Qualcosa di insignificante. L’avrebbe considerata una specie di umiliazione, sollevare un argomento cosà triviale.
Andò al banco e versò un po’ di granuli di soia sui cereali e i mirtilli. La levetta, la molla, scattò e lui si alzò, andò a prendere il pane tostato, lo portò in tavola, poi andò a prendere il burro, e lei, quando lo vide avvicinarsi, ferma con il cartone del latte in mano, fu costretta a scostarsi dal piano di lavoro in modo che lui potesse aprire il cassetto e prendere il coltellino del burro.
Dalla radio provenivano voci che parlavano forse in hindi.
Versò il latte nella ciotola. Lui si sedette e si alzò. Andò al frigorifero a prendere il succo d’arancia e restò fermo in mezzo alla stanza a scuotere il cartone per far salire la polpa dal fondo e rendere il succo piú denso. Non ricordava mai di prendere il succo d’arancia prima che il pane tostato fosse pronto. Scosse il cartone. Poi versò il succo e guardò uno strato di schiuma frusciante apparire in cima al bicchiere.
Lei si tolse un capello dalla bocca. Restò al banco a guardarlo, un capello corto e chiaro che non apparteneva né all’uno né all’altra.
Lui era fermo in mezzo alla stanza e scuoteva il contenitore del succo. Lo scosse piú a lungo del necessario perché non prestava attenzione, pensò lei, e perché quel gesto lo soddisfaceva in modo sciocco e innocente, infantile, gli piacevano i movimenti che il liquido faceva dentro il cartone e l’aroma dell’arancio e del cartone stesso.
Disse: – Ne vuoi un po’?
Lei stava guardando il capello.
– Dimmelo perché non lo so. Tu bevi succo d’arancia? – fece lui, sempre scuotendo quello stupido cartone, due dita strette sull’apertura.
Lei si passò i denti superiori sulla lingua per liberare il proprio corpo dalla complessa memoria sensoriale del capello di qualcun altro.
Disse: – Cosa? Non bevo mai quella roba. Lo sai. Da quanto tempo viviamo insieme?
– Non tanto, – disse lui.
Prese un bicchiere, versò il succo e guardò apparire la schiuma. Poi si girò e si sedette con un po’ di fatica.
– Non abbastanza perché io abbia assimilato i particolari, – disse.
– Penso sempre che non possa succedere, in questo posto. Dappertutto, tranne che in questo posto.
Lui disse: – Che cosa?
– Un capello in bocca. Il capello di qualcun altro.
Lui imburrò la fetta di pane tostato.
– Credi che succeda solo nelle grandi città con una popolazione mista?
page_no="6" – Dappertutto tranne che in questo posto –. Teneva il capello tra pollice e indice e lo contemplava con finta avversione, o vera avversione spinta all’estremo artistico, la bocca piegata come quella di una persona colpita da ictus. – Ecco cosa penso.
– Forse te lo porti dietro fin dall’infanzia –. Tornò al giornale. – Avevi un cane?
– Ehi. Ti sei svegliato? – disse lei.
Il giornale era suo, apparteneva a lei. Il telefono apparteneva a lui tranne quando lei decideva di fare il numero delle previsioni del tempo. Il computer lo usavano entrambi, ma apparteneva spiritualmente a lei.
Era ferma al piano di lavoro e guardava il capello. Poi fece schioccare le dita e il capello cadde sul pavimento. Si girò verso il lavandino e si lavò la mano sotto l’acqua calda poi portò la ciotola con i cereali al tavolo. Quando si avvicinò alla finestra gli uccelli volarono via.
– Ti ho visto bere litri e litri di succo d’arancia, uno spettacolo, come dire, strabiliante, – disse lui.
Lei aveva ancora la bocca piegata dall’esperienza di condividere la vita sconosciuta di chiunque avesse maneggiato quel cibo, o da una realtà molto piú strana e labirintica, il passaggio intimo del capello da una persona all’altra e in qualche modo da una bocca all’altra nel corso di anni e anni, attraverso città e malattie e cibo poco pulito e molti letali liquidi corporei.
– Cosa? Non è vero, – disse.
Okay, posò la ciotola sul tavolo. Andò al fornello, prese il bollitore e lo riempà al rubinetto del lavandino. Lui cambiò stazione alla radio e disse qualcosa che lei non capÃ. Riportò il bollitore al fornello perché è cosà che si vive la vita anche se non se ne è consapevoli, poi tornò a passarsi i denti sulla lingua, con enfasi, guardando la fiamma azzurra del gas scaturire dal beccuccio.
page_no="7" Era stata costretta a scostarsi dal piano di lavoro con uno scatto quando lui era venuto a prendere il coltellino del burro.
Si diresse al tavolo e gli uccelli volarono via di nuovo con un secco schioccare di ali. Uscirono dall’ombra della grondaia e volarono via nella luce del sole e lei vide solo in parte quel movimento, elusivo e di muta bellezza, gli uccelli cosà pieni di sole da sembrare consumati dalla luce, incorporei, tramutati in qualcosa di luccicante e veloce e frantumato.
Si sedette e scelse una parte del giornale poi si rese conto di non avere il cucchiaio. Non aveva il cucchiaio. Guardò Rey e vide che sfoggiava un cerotto all’angolo della mascella.
Usò il bollitore vecchio e ammaccato invece di quello nuovo che aveva appena comperato perché – non sapeva perché. Era una vecchia casa di legno con molte stanze e molti camini funzionanti e animali dentro le pareti e muffa dappertutto, una casa che avevano preso in affitto senza prima vederla, una reliquia degli anni d’oro dell’industria del legname e dei cantieri navali, troppo grande, e c’erano pavimenti scricchiolanti e una quantità di utensili ammaccati che risalivano a chissà quando.
Il gesto di disappunto per la propria dimenticanza la fece quasi cadere dalla sedia e andò al piano di lavoro per prendere un cucchiaio. Portò in tavola anche la scatola dei granuli di soia. La soia aveva un odore che non sembrava appartenere alla materia sabbiosa dentro la scatola. Era un leggero odore di grano mescolato a puzza di piedi. Ogni volta che mangiava la soia la annusava. La annusava ripetutamente.
– Ti sei fatto un altro taglio.
– Cosa? – Si portò una mano alla mascella, la testa affondata nel giornale. – Solo un taglietto.
page_no="8" Lei cominciò a leggere un articolo nella sua parte di giornale. Era un giornale vecchio, della domenica, comperato in città perché non c’era il recapito a domicilio.
– È da un po’ che, forse, non so, forse non dovresti raderti appena alzato. Dovresti prima svegliarti. E perché raderti poi? Lasciati ricrescere i baffi. Fatti crescere la barba.
– Perché mi rado? Ci dev’essere una ragione, – disse lui. – Voglio che Dio veda la mia faccia.
Alzò gli occhi dal giornale e fece quella risata vuota che lei detestava. Lei prese una cucchiaiata di cereali e cominciò a leggere un altro articolo. Da ultimo tendeva a insinuarsi, a inserirsi, dentro certi articoli di giornale. Una specie di variante del sogno a occhi aperti. Lo faceva, poi si rendeva conto di farlo, e a volte dopo qualche minuto tornava a farlo con lo stesso articolo o con un articolo diverso e alla fine tornava a rendersene conto.
Prese la scatola della soia senza alzare gli occhi dal giornale e versò qualche granulo dentro la ciotola. La radio trasmetteva notizie sul traffico e chiacchiere.
L’idea sembrava quella di dover finire il vecchio bollitore, usarlo e usarlo fino a quando non fosse pieno di bolli arrugginiti e poi, allora e solo allora, passare al bollitore nuovo che aveva appena comperato. Sarebbe stata la cosa giusta.
– Devi proprio ascoltare la radio?
– No, – disse lei, continuando a leggere il giornale.
– Perché?
– Una serie di stronzate incredibili.
Il modo in cui aveva enfatizzato la erre di stronzate, per dare dignità alla parola.
– Non sono stata io ad accendere la radio. Sei stato tu, – disse.
Lui andò al frigorifero, tornò con un grosso fico scuro e spense la radio.
page_no="9" – Dammene un pezzetto, – disse lei, continuando a leggere il giornale.
– Non stavo dando la colpa a nessuno. Chi l’ha accesa e chi l’ha spenta. Qualcuno è un po’ nervoso stamattina. Sono io quello che dovrebbe essere, come dire, sulla difensiva. Non la ragazza che mangia e dorme e vive in eterno.
– Che cosa? Ehi, Rey. Piantala.
Lui staccò il picciolo con i denti e lo lanciò verso il lavandino. Poi aprà il fico con le unghie dei pollici, le tolse il cucchiaio di mano, lo leccò e lo usò per staccare un po’ di polpa dorata dalla buccia spaccata del frutto. La depositò sul pane tostato – la polpa, la carne, la poltiglia – poi la spalmò con la parte convessa del cucchiaio, volute burrose venate di sangue che trasudavano semi e vita.
– Sono io quello che dovrebbe essere nervoso la mattina. Sono io quello che dovrebbe lamentarsi. Il terrore di un’altra giornata normale, – disse, sornione. – Tu non sai cosa vuol dire, non ancora.
– Dacci un taglio, – disse lei.
Si sporse in avanti e lui le allungò il pane tostato. C’erano dei corvi sugli alberi vicino alla casa, e mandavano grida rauche. Lei prese un morso di pane e chiuse gli occhi per assaporarlo meglio.
Lui le restituà il cucchiaio. Poi accese la radio, ricordò che l’aveva appena spenta e tornò a spegnerla.
Lei versò un po’ di granuli nella ciotola. La soia emanava un odore per metà corporeo, sÃ, l’odore delle estremità inferiori, e per metà di genuina vita germogliante dalla terra, profonda e fertile. Ma questo non bastava a descriverlo. Stava leggendo sul giornale la storia di un bambino abbandonato in qualche posto dimenticato da Dio. Era impossibile descriverlo. Era puro odore. Era la cosa che è l’odore, indipendentemente dalla fonte. Era come se – e fu quasi per dire qualcosa in proposito perché forse lui avrebbe trovato la battuta divertente ma poi lasciò perdere – era come se, forse, uno scolastico del Medioevo avesse tentato di classificare tutti gli odori conosciuti, ne avesse trovato uno che non riusciva a infilare nel sistema e l’avesse chiamato soia, una parola che forse derivava da qualche altisonante termine latino, ma no, era impossibile, e restò seduta a pensare, non sapeva bene a cosa, con il cucchiaio a pochi centimetri dalla bocca.
Lui disse: – Come?
– Non ho detto niente.
Si alzò per prendere qualcosa. Guardò il bollitore e si rese conto che non era quello l’oggetto che voleva. Sapeva che se lo sarebbe ricordato perché succedeva sempre e infatti se lo ricordò. Voleva il miele da mettere nel tè anche se l’acqua non stava ancora bollendo. Le piaceva predisporre le cose, era iperreattiva o ipersensibile, era fuoriserie o fuoriditesta, diceva sempre, o aveva detto una volta, Rey, e ora nella sua mente c’era una voce che apparteneva soltanto a lei e che era dialogo o monologo e andò alla credenza per prendere il miele e le bustine di tè – una voce che sgorgava da una storia letta sul giornale.
– Non stavi per dire qualcosa?
Lui disse: – Cosa?
Gli mise una mano sulla spalla e lo sfiorò passando per andare a sedersi dall’altra parte del tavolo. Gli uccelli volarono via dal beccatoio con un frullare di ali che era tutto b e r, la lettera b seguita da un vibrato di r. Ma non era proprio cosÃ, non era affatto cosÃ. Non era nemmeno lontanamente cosÃ.
– Hai detto qualcosa. Non so. La casa.
– Niente di interessante. Lascia perdere.
– Non voglio lasciar perdere.
– Non è niente di interessante. Mettiamola in un altro modo. È noioso.
page_no="11" – Dimmelo lo stesso.
– È troppo presto. È faticoso. È noioso.
– Sei là seduto e parli. Quindi dimmelo, – disse lei.
Prese una cucchiaiata di cereali continuando a leggere il giornale.
– È faticoso. È come. È come spingere un macigno.
– Sei là seduto e parli.
– Tieni, – disse lui.
– Hai detto la casa. Niente che riguardi questa casa è noioso. M...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Capitolo primo
- Rey Robles, 64 anni, regista e poeta dei luoghi solitari
- Capitolo secondo
- Capitolo terzo
- Capitolo quarto
- Capitolo quinto
- Capitolo sesto
- BODY ART IN EXTREMIS: lenta, scarna e dolorosa
- Capitolo settimo
- Indice