Radio città perduta
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Radio città perduta

  1. 320 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Radio città perduta

Informazioni su questo libro

Rey è stato sulla Luna. Strano posto per un botanico innamorato della magia della giungla, un uomo mite, un intellettuale. Eppure c'è stato, così come l'hanno visitata centinaia di suoi concittadini: anche se nessuno di loro è un astronauta. La «Luna» è come chiamano il campo di detenzione e tortura in cui il governo manda i dissidenti.
Poi un giorno, poco prima della fine della guerra, Rey scompare nel nulla, lasciando Norma nella disperazione di chi non può nemmeno conoscere il destino del proprio marito. Sono passati dieci anni da allora, e oggi Norma è una delle voci più amate del paese perchè conduce un programma nell'unica radio rimasta nella capitale, un programma così semplice eppure di tale forza da essere rivoluzionario: durante la trasmissione legge i nomi delle persone scomparse, presumibilmente rapite o uccise dal governo. La vita prosegue con la muta disperazione dei sopravvissuti, fin quando alla porta della radio non bussa Victor, un bambino proveniente dal villaggio 1797, la stessa zona della giungla in cui si recava così spesso Rey per motivi scientifici. Anche Victor ha una lista di persone scomparse, una lista da far leggere a Radio città perduta.
Il paese in cui è ambientato il primo romanzo di Daniel Alarcón non ha nome: così come non hanno più nome i villaggi e le città, sostituiti dal governo con dei numeri, così come non hanno più nome i dissidenti fatti scomparire nelle prigioni e nei campi. La guerra e un ancora più straziante dopoguerra hanno cancellato i nomi e, a volte, i confini tra vittime e carnefici. Una dittatura dell'oblio in cui si può leggere in filigrana la storia più o meno recente del Sudamerica, ma anche quella di ogni luogo del mondo in cui ancora c'è qualcuno che, ostinatamente, tenta di dare voce a chi voce non ha più. *** « Radio città perduta è un romanzo di una potenza straordinaria, scritto da un autore che, per ricchezza creativa e senso del colore, già oggi non è secondo a nessuno».
The Guardian

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
Print ISBN
9788806208653
eBook ISBN
9788858404843
Parte terza

Undici

Durante l’estate dell’ottavo anno di guerra un importante esponente della radio scomparve. Le autorità negarono qualunque coinvolgimento ma giravano voci di tradimento e collaborazione con la LI. Si chiamava Yerevan, e la notizia scosse profondamente chi lo conosceva. Uomo tranquillo e discreto, dalla corporatura esile e dalla carnagione lentigginosa, Yerevan era uno scapolo inveterato che viveva per il suo programma radiofonico, una trasmissione bisettimanale di musica classica che andava in onda tardi. Insegnava anche all’università ed era specializzato nello sviluppo della musica occidentale dopo la scoperta del Nuovo Mondo. Era popolare e molto amato dagli studenti.
Nel corso delle prime settimane si parlò spesso della sua scomparsa. Yerevan e il direttore erano amici e la radio si schierò apertamente in sua difesa, mandando in onda ogni ora proclami sulla sua innocenza e richieste di rilascio. Gruppi di studenti universitari organizzarono una veglia davanti alla radio. Vennero anche gli ascoltatori del suo programma e quelle dimostrazioni assunsero una strana atmosfera. Era una campionatura trasversale della vita cittadina: appassionati di musica classica, studenti di storia e discipline artistiche, lavoratori notturni, insonni e relegati in casa. La maggior parte non aveva mai visto l’accusato, ma tutti conoscevano bene la sua voce e ne ammiravano il gusto e l’enciclopedica cultura musicale. Erano riunioni allegre, per quanto lo possano essere delle manifestazioni di protesta. Una sera, all’ora in cui avrebbe dovuto andare in onda il programma di Yerevan, un quartetto d’archi dell’orchestra cittadina recentemente sciolta suonò per i dimostranti radunati. La radio decise con grande coraggio di mandare in onda, dal vivo, il concerto.
Ciononostante Yerevan finí sulla Luna, dove ricevette sicuramente il trattamento a cui Rey era sopravvissuto nove anni prima. Passarono due settimane e non se ne seppe piú nulla. Tutti temevano il peggio. Ciò che accadeva agli scomparsi non era un segreto. Nell’anno precedente la sua sparizione era diventato amico di Norma. Lei, riavutasi dalla paura della sera del primo Grande Blackout, aveva dimostrato il suo coraggio in piú di una occasione. Ora andava in onda con una certa regolarità, benché la sua voce non fosse ancora diventata oggetto di culto. Si fermava spesso fino a tardi per montare i pezzi per il notiziario del mattino e, una volta terminato il lavoro, amava andare a trovare Yerevan in studio. La musica era un lenitivo, come la natura tranquilla di lui, ma piú di ogni altra cosa le piaceva quella sala. Era il cuore della radio, e all’epoca Norma non era ancora del tutto disincantata. Amava quel posto, il ronzio delle macchine, le luci, la musica, il movimento. Certe sere aveva prodotto il programma lavorando in studio e smistando le chiamate degli ascoltatori che volevano richiedere una canzone o discutere semplicemente con Yerevan di musica. Lí regnava un senso di rilassatezza che a Norma piaceva molto: era notte tarda e c’erano meno regole da seguire. Yerevan era contento di lasciar parlare i suoi ascoltatori, Norma era felice di ascoltare, e in quei momenti sentiva che la radio poteva davvero servire a qualcosa.
Ciò che rese singolare la vicenda fu la rivelazione, alcune settimane dopo l’improvvisa scomparsa di Yerevan, che le voci avevano qualche fondamento. Alcuni radioascoltatori, si diceva, parlavano in codice. Norma, dopo essersi consultata con Rey, andò a discutere la situazione con Elmer, che ammise che il direttore della radio era preoccupato. Era, disse Elmer, peggio di quanto avessero sospettato. C’era stata un’infiltrazione nella stazione radio. Furono sequestrate le registrazioni delle trasmissioni di Yerevan piú recenti.
– Faceva parte della LI, Norma, e non lo sapeva nessuno, – disse Elmer. – Che cosa potevamo fare?
Norma aveva trascorso molte ore con l’accusato, aveva smistato le telefonate, aveva chiacchierato cordialmente con persone che credeva fossero amanti della musica ma che, in realtà, potevano essere dei terroristi. Era anche andata in onda cinque o sei volte, presentando canzoni, discutendo di musica con Yerevan. Anche lei era da considerarsi compromessa?
– Devo preoccuparmi? – chiese.
Elmer annuí. Era una persona attenta e capace ed erano in molti a credere che un giorno sarebbe diventato direttore. – Ti conviene dormire in radio per un po’. Ti troveremo un posto. Qui starai al sicuro.
Il suo esilio cominciò quella notte stessa. Sarebbe tornata a casa sua solo dopo un mese. Il giorno successivo la radio cancellò d’improvviso ogni ulteriore forma di protesta e si spinse a chiedere all’esercito di disperdere i sostenitori di Yerevan che sostavano lí davanti. Le forze dell’ordine aderirono con entusiasmo alla richiesta, e in questo modo decine di studenti, appassionati di musica, lavoratori e perfino alcuni sfortunati passanti furono picchiati e arrestati nelle adiacenze della radio. Per oltre un’ora venne combattuta un’aspra battaglia, con lancio di pietre e gas lacrimogeni che formarono grandi nuvole tossiche in tutto il viale. Molti degli impiegati della radio si raggrupparono nella sala riunioni per assistere alla scena dall’enorme finestra, e Norma con loro. Quella notte aveva dormito lí, nella sala riunioni dove undici anni dopo avrebbe incontrato Victor. Le faceva male il collo. Osservò la battaglia, come tutti, senza fare commenti, la fronte appoggiata al vetro, lo sguardo rivolto verso il basso. Guardò con gratitudine i lacrimogeni: dietro quella nebbia probabilmente si perpetravano orribili violenze, ma almeno non era costretta ad assistervi. Gli scontri erano avvenuti in pieno giorno, eppure il direttore decise di non farne cenno nei notiziari. Sentiva, giustamente, che il suo lavoro era diventato troppo pericoloso. Alla fine dell’anno, dopo avere autorizzato un servizio indirettamente critico nei confronti del ministero degli Interni, pagò quell’errore con la vita. Elmer fu lieto di sostituirlo.
Ecco com’era diventato il paese.
Va detto che nessuno al 1797 sentí la mancanza del programma di Yerevan. La musica classica era ritenuta aliena e pretenziosa. L’unico amante della trasmissione era stato il prete del villaggio, morto ormai da quattro anni.
Quando nacque suo figlio, Rey era in città, all’oscuro del fatto che la sua amante fosse incinta. Era l’epoca in cui Norma era prigioniera della radio. Si telefonavano quattro volte al giorno e lui andava a trovarla ogni pomeriggio. La sua vita in città, la sua vita di marito e scienziato, gli richiedeva tutte le energie a disposizione; qualunque cosa fosse accaduta o potesse accadere nella giungla lontana, Rey non avrebbe potuto saperlo. Al momento era preoccupato per lei. Non reggeva lo stress. Stava dimagrendo e, quando la vide, lei gli disse che stava perdendo i capelli. – Resta con me, – gli chiese una settimana dopo l’inizio del suo esilio, gli occhi rossi e gonfi. – Resta con me stanotte.
Stavano bevendo un caffè solubile nella sala riunioni: il sole tramontava e le montagne e la città brillavano arancioni. Norma aveva un’aria tormentata; la sua giornata stava iniziando. Adesso la mattina dormiva: pochi giorni dopo il suo trasferimento lí il direttore, su suggerimento di Elmer, aveva stabilito di assegnarle la trasmissione notturna. Bisognava sostituire Yerevan. – Tanto non è che tu dorma un granché, no? – aveva detto Elmer, e cosí fu deciso. Erano le ore morte della radio ma, con grande sorpresa di tutti, Norma venne inondata di telefonate di richieste, consigli, pettegolezzi. Mandava in onda quasi solo canzoni romantiche e fra l’una e l’altra lasciava che la gente parlasse liberamente. La notte prima, mentre si preparava per andare a letto nell’appartamento vuoto, Rey aveva ascoltato la voce di sua moglie e poi l’aveva sognata. Era bellissima, narcotica, rilassante, e non era l’unico a pensarlo.
– Mi sento sola qui, – disse Norma. – La notte restiamo unicamente in due, io e la guardia.
– E gli ascoltatori…
Lei sospirò. – E gli ascoltatori.
Rey le prese le mani. – Ti adorano.
– Puoi restare?
Il suo programma iniziava alle undici e terminava alle quattro del mattino, perciò Rey ebbe il tempo di andare a casa a cambiarsi. Preparò la cena per entrambi, riempí una borsa con l’occorrente per la notte, chiuse a chiave l’appartamento e tornò in radio alle dieci e trenta. La stazione era già desolatamente vuota. Bevvero dell’altro caffè, forte e senza zucchero, e Rey intuí che lei era felice di averlo vicino. Qualche minuto prima delle undici andarono in sala regia dove chiacchierarono un istante con il conduttore della sera. Era un uomo magro e basso, prematuramente ingrigito e goffo, che aveva sempre avuto un debole per Norma. Quando lui raccolse le sue cose e se ne andò, e rimasero da soli, Norma mise le braccia al collo di Rey. Sul piatto c’era una vecchia ballata, il disco gracchiava un poco, le chitarre ogni tanto stonavano. Lei lo baciò. Quando la canzone terminò si erano già spogliati e ridevano. Norma attraversò lo studio, sollevò la puntina e lasciò che la canzone andasse altre due volte prima di iniziare la trasmissione.
La sua capacità di tenere separate le due metà della sua vita era un dono. Quando era in città, pensava raramente alla giungla, tranne che per motivi accademici: i misteri delle piante, i quesiti sul clima e l’adattabilità dell’uomo alle sue esigenze. A volte gli tornava in mente un’immagine del fresco cuore della foresta: il tronco nero e muschioso di un vecchio albero, le pietre bianche lungo la riva del fiume, scavate dall’acqua fino ad assumere le forme piú fantastiche – e basta. Non pensava alle persone che aveva conosciuto laggiú, né alla donna che l’aveva irretito. I suoi viaggi nella foresta pluviale contemplavano una dissociazione simile: a una o due ore dalla città, quando gli slum poveri e disordinati erano scomparsi e la strada cominciava a inerpicarsi verso le colline ancora disabitate, Rey iniziava a sentirsi privo di qualunque responsabilità e il suo spirito vagava indietro nel tempo riportandolo a uno stato di purezza e innocenza. Fuori dalla città non usava mai il nome Rey. La sua trasformazione era cosí completa che il suono di quel nome, quello che usava in città, non aveva nessun effetto su di lui oltre i confini della capitale.
Fece il suo primo viaggio nella giungla subito dopo essere tornato all’università. Era una spedizione esclusivamente scientifica, prima che la morte di Trini gli facesse cambiare idea, un viaggio guidato da un vecchio professore panciuto che parlava tre dialetti indigeni e camminava per i corridoi dell’università masticando radici medicinali. Gli studenti erano incaricati di descrivere tecnicamente le piante che trovavano – la consistenza carnosa delle foglie, o l’odore acre – e conservarne campioni tra le pagine di pesanti volumi che il professore aveva fatto portare a questo scopo. Dai libri letti, dalle discussioni e dalle fotografie Rey si era fatto l’idea che la giungla fosse l’esatto opposto della città in cui aveva vissuto dall’età di quattordici anni. Inesplorata e sconosciuta, era un universo in cui le leggi venivano ancora combattute e contestate, era la frontiera, ed esercitava una potente attrattiva. Questo accadeva il primo anno di guerra. Quando, anni dopo, Elijah Manau percorse la stessa strada, la giungla era già diventata parte della nazione – c’erano scuole e strade alla cui manutenzione provvedeva, almeno in teoria, lo stato – ma quando Rey ci andò per la prima volta, il viaggio consisteva nell’ottenere un passaggio da un camion o barattare oggetti con qualche locale in cambio di un tratto in canoa lungo un fiume fangoso. Incontrarono indigeni che parlavano la loro lingua impossibile. Si lavarono in fiumi dalle acque dolci e dormirono nelle amache: invece di riposare, Rey restava sveglio, gli occhi chiusi, ad ascoltare i suoni della foresta, che si susseguivano a ondate, certo di trovarsi nel piú bel posto in cui fosse mai stato.
La terra apparteneva a chi se la prendeva, e soprattutto in quei giorni il fitto della foresta era il posto ideale dove scomparire, per nascondersi agli occhi della legge. Con la guerra in corso, il governo imparò a tenere gli occhi aperti su chi andava e veniva dalle aree del paese coperte dalla giungla. C’erano uomini che vendevano armi e altri che trasportavano droga. C’erano uomini d’affari che corrompevano ufficiali di polizia, capitani dell’esercito o capi villaggio. C’erano ricognitori che prendevano le coordinate di ponti da fare saltare e uomini che si fingevano taglialegna o commercianti o musicisti girovaghi. E c’erano uomini come Rey, che lasciavano la città con le credenziali di studenti o ricercatori e che, strada facendo, diventavano persone diverse, con nomi diversi. Uomini che non portavano fucili, ma qualcosa di piú prezioso: informazioni.
Non rivide mai piú Marden. Quando accadde l’episodio di Yerevan, Rey e l’uomo dall’abito spiegazzato si incontravano, di tanto in tanto, da quasi nove anni, come amanti furtivi: nove anni di incontri alle fermate degli autobus, di conversazioni studiatamente generiche e incarichi casuali, sufficienti perché Rey imparasse a conoscere il suo contatto, per quanto si potesse conoscere un uomo del genere. Aveva imparato a distinguere le sue espressioni preoccupate, i suoi cambiamenti di peso in base all’intensità del conflitto. C’erano volte in cui sembrava malato, le guance scavate, la barba lunga, la pelle floscia, i capelli scarmigliati. Come agente, era fin troppo trasparente: qualche giorno dopo quegli incontri qualcosa, in qualche punto della città, esplodeva e la volta successiva il contatto di Rey tornava ad assumere la sua aria tranquilla. Poi ricominciava. In quei nove anni si erano anche incontrati in occasioni sociali, parecchie cene dove venivano presentati come se fossero estranei e dove recitavano la loro parte in maniera convincente, scambiandosi qualche parola educata prima di ignorarsi con cura per tutta la serata. Perfino Norma gli aveva stretto la mano un paio di volte; una, dopo una festa, mentre si spogliava nell’oscurità azzurra del loro appartamento, ne aveva commentato il saluto freddo e distaccato. Rey si era sentito in dovere di difenderlo, ma ovviamente si era astenuto dal farlo: aveva finto di non ricordare – com’è che si chiamava? In un certo senso erano anche colleghi: in campi diversi, in università diverse. Dopo il primo Grande Blackout, che aveva preso Rey e l’intera città di sorpresa, i loro incontri divennero mensili, e gli incarichi talmente banali che Rey riuscí a credere che la guerra non avesse nulla a che fare con lui. Lasciava buste dentro bidoni dell’immondizia, indossava una camicia rosso acceso e aspettava davanti alla vetrina di un bar a una certa ora, chiamava da telefoni pubblici e a chi rispondeva diceva soltanto un indirizzo. I suoi giorni di celebre leader studentesco erano terminati. Adesso era invisibile. Dopo essere tornato dalla Luna non aveva mai piú pronunciato un discorso o discusso di politica in pubblico, tranne quella mezza confessione nel bar, al buio, la notte del primo Grande Blackout. A parte l’uomo dall’abito spiegazzato, in città Rey non conosceva nessuno che fosse coinvolto. Era rimasto sorpreso come gli altri nello scoprire che Yerevan era un simpatizzante. Per anni aveva pensato alla guerra e al proprio coinvolgimento come a un atto privato. Naturalmente sapeva che c’erano altre persone come lui, ma non ci pensava mai, non si chiedeva chi fossero, non sentiva nessuna affinità con quegli invisibili e misteriosi alleati. Non leggeva molto i giornali, tranne le pagine sportive, e ricavava le notizie sui progressi della guerra dalla crescente militarizzazione della città. E ogni sera tornava a casa da Norma, che aveva deciso di credere che suo marito non avesse segreti.
Nella giungla, dove la sua amante stava per partorire, era la stagione delle piogge: il cielo passava dall’azzurro profondo a un nero denso, quasi viola. Il fiume, come ogni anno in quel periodo, era esondato, allagando i campi al limitare del villaggio. Rey non amava la stagione delle piogge: trovava quegli acquazzoni insopportabili e tediosi, mentre per il resto dell’anno la pioggia scendeva in brevi e violenti rovesci che terminavano nel giro di mezz’ora e a cui seguiva un sole luminoso e accecante. Gli spostamenti, mai semplici, diventavano impossibili durante i mesi piovosi. Le strade erano fangose e la giungla cresceva in modo abnorme. Una volta ci aveva messo dieci giorni a percorrere la dozzina di chilometri che separavano un villaggio da un campo nascosto nella foresta. La giungla brulicava di uomini reticenti. Nei mesi piovosi era tutto troppo deprimente.
In un ospedale di città, il bambino sarebbe stato pesato e lavato da infermiere vestite di bianco, preso in consegna e visitato dai medici, mostrato a tutti da un padre orgoglioso che avrebbe regalato sigari. Ma il 1797 non era la città. Era un luogo con i propri riti. Anche se, a quel punto, con una guerra che da piú di cinque anni privava il paese dei suoi uomini, la cerimonia che accompagnò la nascita di Victor fu quanto meno sottotono. Quell’anno altri otto giovani se n’erano andati a combattere. Cinque non fecero piú ritorno – altri cinque nomi sulla lista che undici anni dopo Victor avrebbe portato in città. Non c’era lo spirito giusto per festeggiare. Ai vecchi tempi sarebbe stata organizzata una celebrazione e sarebbe stato abbattuto un albero per un grande falò, ma era tutto cambiato, perfino il rituale del ringraziamento: ora la formula includeva una frase che avrebbe protetto il bambino dalle pallottole. Le giovani madri commentavano spesso che i loro figli erano un semplice prestito dell’esercito.
Una tradizione tuttavia, nonostante la guerra, si era conservata, e fu la sola che Adela chiese a Rey con insistenza di rispettare quando tornò, sei mesi dopo. Fu mandato nella giungla per una notte a riflettere sul futuro del figlio con l’aiuto di una radice psicoattiva. Con il suo influsso allucinatorio, gli assicurarono, gli sarebbe stata rivelata ogni verità. Ci andò di malavoglia, ma sentiva di doverlo alla madre di suo figlio, che aveva trascurato in ogni modo. Non era stato presente alla nascita di Victor; anche se nessuno se lo aspettava da lui. Non aveva aiutato a scegliere il nome del bambino, non aveva tenuto la mano di Adela, non aveva stretto il piccolo al petto per sentirne il calore. Rey aveva promesso al padre un nipote, ma quando finalmente arrivò, l’uomo non seppe che la promessa era stata mantenuta. Il padre di Rey non l’avrebbe mai saputo. La notte in cui Victor nacque, Rey si trovava alla radio, nella città grigia e lontana, mezzo svestito e addormentato su una poltrona della sala regia.
Quella notte, mentre Victor dormiva sul seno di sua madre, Norma non rispose praticamente al telefono. Lasciava che le canzoni parlassero per lei, le bastava guardare suo marito dormire in poltrona. La sua presenza la calmava. Verso le tre del mattino, però, mentre le energie la abbandonavano, bevve un caffè e decise di rispondere a qualche chiamata, tanto per aiutarsi a restare sveglia. C...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Parte terza
  7. Ringraziamenti