Onora il padre
eBook - ePub

Onora il padre

Quarto comandamento

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Onora il padre

Quarto comandamento

Informazioni su questo libro

Perché, uccidendo le sue vittime, l'assassino che i giornali chiamano «il Figlio dei fiori» ascolta sempre un dimenticato brano psichedelico del 1972? Che cosa sono il Giusto Ritmo e la Legge? Che cosa nasconde la tranquilla Casa di riposo Giovanni Pascoli, dove vegetano anziani con gli acciacchi piú diversi? Ce la farà il giovane e intuitivo Matteo Colonna, che cerca di immedesimarsi nell'assassino, a resistere all'orrore di ciò che sarà costretto a scoprire?
Torna in libreria il romanzo che ha esplorato il cuore criminale dei rapporti familiari, il tradimento, e il desiderio di ordine che torna ad affacciarsi ovunque.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806186951
eBook ISBN
9788858402245

1

Nonostante il riscaldamento, il gelo umido della notte è riuscito a infiltrarsi nel piano alto di questo vecchio albergo che nasconde dietro stucchi pretenziosi il suo inevitabile decadimento. Il mare è una tavola nera lacerata da una lama di luna giallognola. La grande spiaggia è bianca, deserta. Niente ombrelloni, niente sdraio. Adoro l’inverno. Nel freddo Rimini diventa persino sopportabile. Il freddo parla al mio cuore. Scosto la tenda di fine, robusta stoffa color cremisi e socchiudo con cautela i battenti della finestra, spinto da un improvviso desiderio di ascoltare il confortevole ritmo della risacca. Ma la musica alle mie spalle sembra voler combattere contro il dolce suono. Vagamente risentito, mi affretto a spegnere il Cd. E subito lei lascia partire una specie di singhiozzo contenuto. Brandisco il martello che sul manico poroso ha trattenuto rade goccioline di sangue e lo agito su quella sua massa informe che non cessa di contorcersi. Il singhiozzo si sta rapidamente mutando in una sorta di ululato bestiale.
È evidente che questa donna sprezzante non ha nessun rispetto per la mia sensibilità. Mi chino su di lei, le afferro i lunghi capelli rossi, appena un paio di strattoni, per farle capire quanto sarebbe opportuno un intervallo di silenzio. Il tenue profumo fruttato che mi aveva piacevolmente gratificato quando l’avevo sorpresa fresca di doccia è stato purtroppo sopraffatto dall’inevitabile, acre afrore della paura. Prima di ritrarmi, offeso dall’intollerabile cantilena di gemiti che le squassa il piccolo seno che mai sarà materno, le sussurro che è stato il suo stile di vita a condannarla.
– Hai corso troppo, – cerco di spiegarle, paziente a onta del crescente disgusto che mi sta invadendo. – Hai perso di vista le cose importanti, ciò per cui vale la pena di vivere. La futilità dei tuoi giorni veloci esige una sanzione, e io sono colui che è stato incaricato di comminartela.
Parole al vento. Possibile che non capisca? Possibile che nessuna di loro, nemmeno nell’istante supremo, riesca a ritrovare un barlume di coscienza?
Riaccendo il Cd. A tutto volume. In questi alberghi signorili, che l’inverno avvolge in una sapiente bolla d’insensibilità, il rispetto della privacy è una religione dalle regole indefettibili. La rigorosa osservanza del proprio spazio vitale. L’asettico non-coinvolgimento, il distacco dal prossimo. L’abbandono degli inermi.
Poso il martello sul divano foderato di chintz e preparo la siringa. Dovrò anche ricordarmi di passarle un altro giro di nastro intorno alle mascelle: se crede che non mi sia accorto di come sta tentando di lacerarlo dall’interno, con quei suoi denti perfetti che devono aver incantato chissà quanti amanti…
Dopo l’iniezione, i suoi muscoli si rilassano. È ancora cosciente, ovvio, ma l’ottundimento la rende meno riottosa, piú disponibile.
Nel frigo-bar è schierato al gran completo l’arsenale della grassa contemporaneità: cioccolatini al caffè, arachidi, succhi di vario genere, collezione di superalcolici in formato mignon, l’immancabile bottiglia da un quarto di champagne. Dovunque disordine, crapula, l’ossessione del futile.
Torno alla finestra. Spalanco i battenti. Lungo la fettuccia di strada che mi separa dal mare arranca sbuffando un mezzo della nettezza urbana. Ecco, si ferma davanti a un cassonetto stracolmo degli scarti dell’umano genere.
Due uomini lo afferrano, in religioso silenzio, ciascuno lo solleva dal lato che a ciascuno è assegnato nell’ordine del mondo.
Il lento lavoro dei netturbini è qualcosa che rinfranca l’anima. Il mondo ha un disperato bisogno di pulizia e di riscoprire il suo giusto ritmo. Il giusto ritmo è tutto. Il giusto ritmo fu imposto dai Padri. Il giusto ritmo determina l’Onore e il Castigo.
Basta parole, basta pensieri. Ciò che il momento esige è la massima concentrazione. Lo specchio rimanda l’immagine di un maturo hippie dalla lunga chioma bionda trattenuta da una variopinta bandana. Un travestimento come un altro, ma non certo un inganno: perché chiunque io sia stato, chiunque sia destinato a essere in futuro, in questo qui e ora non sono altro che l’esecutore designato.
Scatto un paio di foto per l’archivio di G. I led del display danzano in un luminoso contrappunto ai bassi profondi. È una musica ormai antica, appartiene a un’epoca in cui andava di moda promettere una realtà fatta di sogni.
C’era chi, ascoltando motivi di questo genere, si illudeva di viaggiare.
Ma non ci sono sogni, in questo qui e ora. E il viaggio che attende Francesca è senza ritorno.
Qui, e ora, è il tempo del martello e della cera rovente.
Do fuoco al bastoncino d’incenso e procedo.
Osservare, repertare, intuire la possibile dinamica del fatto, mettere in ordine le prove in modo da presentare una convincente relazione al sostituto procuratore di turno. Questo il compito di un funzionario della Scientifica. E badare, naturalmente, che quei casinisti della Mobile non ficchino le mani dappertutto, inquinando allegramente per la goduria del foro, sempre sul piede di guerra contro le défaillances e i complotti delle quanto mai sospette forze dell’ordine. Lavorare sul campo e di testa, insomma. E quel poco tempo che avanza da dedicare alla vita, spenderlo in solitudine, a cancellare con amarezza il sapore del male che ti resta attaccato addosso come una pelle di scorta.
Con gli occhi gonfi nascosti dalla visiera del casco e un cattivo sapore in bocca, il commissario Matteo Colonna si lasciava trascinare verso casa dal traffico del mattino. Notte di servizio. Notte dura. Prima c’era stato il rumeno di viale Zara, ucciso a bastonate nel corso di una rissa per l’occupazione di un’ex tipografia adibita a dormitorio. Poi la prostituta marocchina di via Napo Torriani: sedici coltellate, regolamento di conti. Infine il ragioniere di piazzale Loreto, ottantadue anni, che aveva scaricato la doppietta nella schiena della moglie, settantadue anni, rea di intendersela con il droghiere, sessantaquattro anni.
Notte di febbraio. Notte milanese di ordinaria follia.
Cielo grigio, pioggerellina unta di benzene e macchine blu con scorta e sirene che scorrazzavano lungo via Melchiorre Gioia lo accolsero al parcheggio delle moto sotto casa. Giorno di febbraio. La consueta sinfonia milanese di febbraio.
Nel Vip’s Bar Salah, il barman nubiano, pregava inginocchiato sul tappetino rivolto alla Mecca. Matteo scambiò due battute con Ramon, il cileno, che si esercitava al biliardo nella vana speranza di riuscire a sconfiggere almeno una volta nella vita Miguel, il peruviano possessore di innumerevoli colpi segreti, tutti vincenti.
Ultimata la preghiera, Salah gli serví un caffè americano amaro e un toast al formaggio. Ramon lo prese sottobraccio, indicando Salah.
– Prima venuti due ragazzotti. Sai, quelli con faccia di bravi ragazzi, scarpe a punta, il giubbotto di pelle e capelli molto corti…
– Conosco il tipo.
– Hanno detto che qui la birra puzza di piscio. Io ho detto che Milano è piena di bar. Ho detto: se non vi piace questo posto, andate da altra parte.
– E loro?
– Loro dice: Milano è piena di marocchini.
– E Salah? Che ha fatto Salah?
Ramon si strinse nelle spalle.
– Chiedilo a lui.
Il nubiano allargò le braccia e sorrise.
– Io ho detto: questa birra offre la casa, adesso, per favore, andate.
– Perché, Salah?
– Sai com’è: padrone non vuole storie… comunque, sono andati via.
– Salah, sei un cacasotto. Coi fascisti non si deve avere pietà. Se c’era Matteo, gli faceva vedere lui! – insistette Ramon.
– Sí, come fatto tu a tuo paese, e siete finiti in stadio, con donne e bambini!
Discutevano, i due ospiti della generosa terra padana, sempre piú accalorato il sanguigno latino, algido, e ironico l’arabo. Matteo si guardò bene dall’intervenire. Gli sarebbe piaciuto condividere la fede di Ramon nelle soluzioni di forza. Ma non era cosí. Meglio, allora, non esserci, a volte. Meglio non deludere chi ha fiducia in te. E poi Salah non aveva tutti i torti. Il bar era già stato incendiato una volta, con annesso contorno di svastiche e scritte in vernice nera: omaggio della metropoli cosmopolita ai suoi fratelli immigrati.
– Che vuoi fare, Ramon? – concluse Salah. – Mafish muskela, cosí va il mondo…
Già, cosí va il mondo. Male va il mondo. Anche per Greta, l’astrocartomante dei tuoi sogni che l’accolse sul pianerottolo del mezzanino con due occhiaie sbattute e il kimono cascante sul minuscolo seno.
– C’è la polizia, Matteo.
– Sono io la polizia, Greta.
– Be’, tu sei meglio, comunque. C’è uno su da te. Una brutta faccia. Pensa che ha bussato qui da me alle nove e un quarto. L’avevo scambiato per un cliente…
– Certe cose non dovrei nemmeno saperle…
– Non le sai, caro mio, ti assicuro che non le sai!
Ad attenderlo, impalato davanti all’uscio, c’era il collega Pompei, galoppino ufficiale del questore Nassi. Una carriera costellata di mirabolanti circolari e ordini di servizio.
– Finalmente, Colonna! Ma che fai?
– Entro nella mia casa, se non ti dispiace. Poi mi farò una doccia e poi cinque, sei ore di sonno.
– Non se ne parla nemmeno. Sei in partenza, bello. Ordine del questore in persona. Pensa che per spedirmi qui da te… ed è un’ora che ti aspetto, un’ora… ha interrotto il briefing con quelli dell’Antidroga. Stiamo per chiudere una grossa operazione. Oh, Colonna… ti mettono persino a disposizione l’elicottero!
– Di che si tratta?
– Omicidio. La vittima è una certa Francesca Maltese, una ricca, pare. Non so altro. Portati la valigia grande, Colonna. Potrebbe anche essere una cosa lunga.
– Destinazione?
– Rimini… ma che ti prende, Colonna? Non ti senti bene?
Era impallidito. Come se gli avessero affondato un pugno nella bocca dello stomaco. Pompei si affrettò a sorreggerlo.
– Nessun problema. È stata una notte assurda, scusami…
Mentre cercava conforto in una doccia bollente, mentre preparava il borsone con un po’ di roba e l’attrezzatura da lavoro, e per tutto il tempo che impiegarono a raggiungere l’eliporto militare, Pompei lo torturò di domande e di pettegolezzi. Alle une e agli altri Matteo rispondeva con scontrosi monosillabi. Ma niente pareva smontare l’inossidabile portaborse.
Come minimo, Pompei avrebbe scritto otto cartelle di relazione di servizio soffermandosi sullo strano comportamento del commissario Colonna.
L’elicottero scaldava i motori su una pista periferica battuta dal vento. Il pilota salutò con deferenza i due funzionari. Alle 11.18 Matteo allacciò le cinture e calzò le cuffie del walkman. Nei momenti di relax si divertiva ad assemblare compilation di propria mano: per questo viaggio che lo stava riportando dove non avrebbe mai voluto ritrovarsi aveva scelto molto jazz, rap e vecchie canzoni francesi. Sperava che la musica lo aiutasse a dimenticare Rimini, e quel grumo di dolore che si stava pericolosamente attaccando al trigemino.
L’elicottero si alzò in volo. Matteo schiacciò il tasto play e dal Cd masterizzato si levò la voce profonda e ironica di Charles Trenet: «La pendule fait tic tac tic tac, les oiseaux du lac pic pac pic pac, glu glu glu faisent tout les dandons et la jolie cloche fait dindandon… mais bum! Quand notre coeur fait bum… tout avec lui dit bum… et c’est l’amour qui s’éveille!»
Un poliziotto è sempre in servizio, sempre a disposizione. Di tutte le città, il destino gli aveva riservato proprio Rimini.
La musica non gli dava nessuna consolazione, il pensiero di sua madre, dei lontani anni felici era come una tortura. Rimini!
– Ora si balla! – urlò allegramente il pilota.
Un tuono lontano rimbombava sullo sfondo delle nubi che si andavano addensando. Rimini. Ironia della sorte: Charles Trenet continuava a cantare la poesia del temporale: «Tutto è cambiato da ieri e la strada ha tanti occhi affacciati a guardare… vedi i lillà e vedi le mani tese…»
Atterrarono su un piazzale sterrato ai margini della spiaggia. Matteo salutò con un cenno della mano il pilota e saltò giú col borsone a tracolla, chinandosi per evitare le pale. L’elicottero ripartí immediatamente. L’impetuoso vento di maestrale spazzava il porticciolo, deserto di barche tirate in secca in un concerto di bandiere sbattute e di gemiti di palanche accatastate agli angoli dei capanni di rimessaggio. Per il momento, niente pioggia. Il cielo, plumbeo, era il gemello di quello di Milano.
Ma l’odore del mare lo fece rabbrividire, e c’erano, nei brividi, il timore di una rivelazione e il piacere di una riscoperta.
A pochi metri sulla sinistra un’insegna trasversale annunciava l’Hotel Kursaal, quattro stelle. Un gruppetto di agenti in divisa stazionava accanto a una volante con il lampeggiante acceso e le portiere aperte. Matteo si avviò verso di loro. Dal gruppetto si staccarono un quarantenne alto e una bella donna dai capelli color del grano.
– Il commissario Colonna? La stavamo aspettando. Sono l’ispettrice Rubino. Lui è l’agente Ippoliti. Venga, le faccio strada.
Matteo scambiò una stretta di mano con l’ispettrice e consegnò il borsone all’agente, che lo depositò nella volante.
Da un passo carrabile in discesa entrarono nel garage.
– Fuori è pieno di giornalisti, – lo informò l’ispettrice. – Girando da questa parte, li prendiamo alle spalle.
Il garage era semideserto e puzzava di olio e di pneumatici. Un ascensore tappezzato di istruzioni antincendio e tariffari li condusse direttamente nella hall.
– Ippoliti, vammi a chiamare Fernandez, per favore, – disse l’ispettrice.
Matteo ne approfittò per guardarsi intorno. La vasta sala, scintillante di luci e specchi, era presidiata dai poliziotti. Le porte a vetri, minacciosamente sbarrate, tenevano fuori portata i curiosi e i rumori della strada. Tutto era avvolto in un’atmosfera di morbida tensione.
Gli unici a non portare una divisa erano l’impiegato della reception, uno sbarbatello dall’aria stranita che rispondeva a getto continuo agli incessanti squilli del telefono, e una famigliola di tedeschi, con codazzo di bambini biondissimi e compostissimi, che probabilmente stavano maledicendo il momento in cui si erano decisi a quell’avventura turistica fuori stagione.
Matteo avrebbe dovuto odiare gli alberghi. Ma ogni volta che ci metteva piede, non riusciva a sottrarsi al fascino dell’odore di precarietà che faceva vibrare dentro di lui corde antiche.
Alberghi, stazioni, aeroporti… luoghi di passaggio, insomma: fosse dipeso da lui, vi avrebbe consumata tutta la vita in un’ininterrotta sospensione del tempo.
Chissà se anche quell’assassino al quale lo chiamavano a dare la caccia aveva provato, nella sua esistenza, sensazioni simili. Chissà se era anche lui un uomo solo che stava disperatamente cercando qualcosa?
– Colonna? Ciao, sono Roberto Fernandez. Scientifica.
Un ragazzo in giacca e cravatta, con una massa di capelli rossi ribelli e un forte accento romagnolo, un viso aperto, leale, persino sbarazzino. Matteo sorrise e ricambiò la sua decisa stretta di mano.
– Sai già di che si tratta?
– Conosco solo il nome della vittima.
– Gi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9