Una mattina di giugno, poco prima di pranzo, Guido Traversari, architetto, tornò a casa con un bambino per mano. Dalla cucina, sua madre lo salutò.
Traversari accompagnò il bambino in bagno e lo aiutò a lavarsi le mani. Nell’uscire incrociò sulla porta suo fratello Rocco, informatore farmaceutico, quarant’anni, moglie separata a carico, senza figli.
– E questo chi è? – chiese Rocco. E lo fece, non sapeva neanche lui perché, senza alcuna gentilezza (quegli sbotti di scortesia, quelle voglie nervose di rendersi detestabili a cui capita di abbandonarsi con piacere, qualche volta). Per completare l’opera si assestò pure il giornale sotto il braccio sinistro.
Guido lo passò da parte a parte con lo sguardo, prima di rispondergli, semplicemente:
– Un bambino.
E mosse l’avambraccio sinistro con la freddezza di una barra automatica, tracciando una mezzaluna immaginaria nel breve spazio che li divideva.
Rocco ubbidà al suo stesso corpo che lo trascinava all’indietro, schiacciandogli la schiena contro l’infisso della porta. Poi, mentre Guido si avviava verso la cucina col suo ospite, s’infilò nel bagno e chiuse lentamente la porta, confidando in una detenzione provvisoria di quel se stesso inospitale e scortese che adesso preferiva nascondere piuttosto che lasciare libero.
– Ma’, – disse Traversari entrando in cucina.
Il bambino si arrampicò su una delle quattro sedie della tavola e si mise comodo con un paio di manovre.
La signora Ester Langella in Traversari era all’acquaio, di spalle. Da poco aveva sgomberato la tavola dai resti del pranzo di Rocco, e appena finito con il mestolo che le impegnava le mani nell’acqua saponata, avrebbe riapparecchiato per Guido. Sentà che insieme a lui era entrato qualcuno, e si voltò.
Vicino a suo figlio vide un bambino coi vestiti puliti, chiaro chiaro di carnagione, i capelli castani, cortissimi sui lati, che gli facevano le orecchie a sventola. Poteva avere nove, dieci anni. Era nella sua cucina, e aspettava il pranzo raccolto in una compostezza quasi adulta. La testa alta, disponibile. La schiena appena curva, gli avambracci poggiati ai due lati opposti del piatto, i gomiti alla giusta distanza dal taglio della tavola (la signora Ester si complimentò mentalmente con i suoi genitori). Le gambe sciolte e ravvicinate. Un corpo beneducato e paziente, che esprimeva la sua attesa di cibo senza farsi sentire. Mentre si affidava alle mani di Guido che gli infilavano il tovagliolo nel colletto della camicia, guardava i mobili pensili della cucina con un’espressione attonita, vagamente infelice.
– Guido, – chiamò la signora Ester acuendo l’accento sulla i.
Traversari alzò gli occhi a guardarla, veramente curioso di scoprire il motivo della riprovazione che gli era sembrato di sentire nella sua voce.
Lei allora gli indicò il bambino con uno scatto appena percepibile del mento.
– Ah, – fece Guido, come se sua madre gli avesse notato addosso una cravatta nuova, – lui è Salvino, il figlio di Marco. Te lo ricordi Marco?
La signora Ester trattenne il mestolo, pur poggiando la stessa mano sull’acquaio, puntò gli occhi nell’aria e chiamò a raccolta tutti gli amici di suo figlio che rispondessero a quel nome, o almeno a uno che cominciasse per Ma.
Ce ne volle perché le venisse in mente proprio un Marco, ma non si fidò della connessione tra la faccia che le apparve in lontananza e il nome di cui andava alla ricerca. Comunque rispose di sÃ. E rimase immobile davanti all’acquaio, accusando una strana oppressione.
Allora Guido le rivolse la parola inclinando la testa sulla spalla, quasi pensasse di trovare nei dintorni del viso di sua madre, piú che nel mezzo, la causa del ritardo di un’iniziativa che si aspettava da lei.
– Scusa, c’è qualcosa da mangiare?
La signora Ester tornò in sé prima ancora di capire la domanda. Quarant’anni di ubbidienza viscerale le assegnarono subito la mansione adeguata. Non aveva ancora cominciato a rispondere che già aveva lasciato andare il mestolo nell’acquaio e stava aprendo lo sportello dei piatti.
– Come, come. Che gli posso dare, al bambino?
– Quello che c’è, – rispose Guido risollevato, e passò una mano sui capelli dell’ospite.
La signora Ester sentà come un taglietto da niente, ma in un punto in cui faceva male.
«Che sta succedendo», si domandò mentre regolava la fiamma sotto la pentola del minestrone.
Dopo mangiato, Guidò si ritirò in camera col bambino. La signora Ester rimase in cucina a rigovernare. Era stanca, nervosa. Durante il pranzo Guido non aveva detto una sola parola sul bambino, anzi si era comportato come se il dovere di una spiegazione non lo sfiorasse neppure, creando nella cucina una sospensione irragionevole che la signora Ester aveva cercato di contrastare parlando continuamente.
Soprattutto all’inizio era stata una tortura. Guido le aveva rivolto poche frasi senza importanza («Che hai fatto stamattina», «Vai da Sonia oggi», «Buono il minestrone») a cui la signora Ester non aveva potuto che rispondere («Le solite cose», «No, oggi no», «Ah, ti piace»), misurando, nella magrezza delle proprie battute, la prossimità del vuoto in cui la conversazione sarebbe ripiombata un momento dopo.
Poi s’era ricordata che quella stessa mattina l’avevano chiamata per dirle che una sua vecchia conoscente era morta, e nella quantità dell’argomento trovò la scappatoia.
NinÃ, aveva detto la signora Ester stringendo gli occhi sull’accento e musicando il nome per guidare la memoria di suo figlio, tu eri piccolo ma forse te la ricordi… abitava di fronte alla nonna… NinÃ, quella bassina, coi capelli corti corti rossi… ti portava sempre il Carrarmato Perugina… Aah, come no, aveva detto Guido, e allora lei aveva tirato un sospiro di sollievo e gli aveva raccontato per filo e per segno tutto quello che le aveva riferito Virginia al telefono: che due anni prima, una volta che saliva le scale s’era dovuta fermare perché le era venuto l’affanno ed era rimasta appoggiata alla ringhiera per un quarto d’ora, poi le era passata e non ci aveva piú pensato, però una mattina era arrivata dal salumiere dietro casa con la lingua di fuori che non respirava piú e cosà aveva fatto le lastre e le avevano detto che aveva un polmone atrofizzato, una cosa che non si poteva curare se non con il trapianto, ma vatti a mettere in lista, fai prima a morire di vecchiaia. Da quel momento Ninà era stata sempre peggio, e Virginia aveva detto pure: «Sai come succede con le malattie che non si curano: appena ti dicono quello che tieni cominci a morire»; e infatti Ninà nel giro di qualche mese aveva smesso praticamente di muoversi, non poteva cucinare, fare i servizi di casa, telefonare, nemmeno lavarsi poteva, che un movimento qualunque richiedeva un fabbisogno d’aria troppo caro per un polmone solo, che poi una cosa dietro l’altra, il cortisone, i lavaggi, la polacca, il figlio che andava a toglierle e metterle la padella, finché proprio quella mattina se n’era andata, il marito era entrato in camera per darle la medicina e l’aveva trovata con la bava alla bocca.
E come se l’era presa, aveva chiesto Guido alla fine di quella lista di disgrazie, e la signora Ester gli aveva risposto che i medici non lo potevano dire, che le cause potevano essere tante e però lei, NinÃ, era convinta che fosse stato il condizionatore che aveva avuto alle spalle per tutti i ventisette anni che aveva lavorato in ditta.
Insomma, con il racconto della povera Ninà la signora Ester era riuscita ad arrivare alla fine del pranzo parlando per tutti e due. Adesso però la recita le aveva avvelenato la coscienza. Sentiva tutto un fastidio che andava e veniva, una specie di lucertola che le camminava sotto il vestito, lungo la schiena.
Ma tu guarda, pensava. Guarda tu che cretina. Quello si comporta come se non fossero fatti suoi e io gli faccio pure l’ipocrita invece di domandare perché e percome. Cretina. E vigliacca, pure. E mò perché la lavapiatti non si apre.
Il bambino aveva mangiato il minestrone, due scaloppine e niente frutta. La signora Ester s’era dovuta soffermare su un sorriso immediatamente ritirato che il bambino le aveva rivolto quando, finita la minestra, gli aveva tolto il piatto. Se Guido non l’avesse fatta intossicare a quel modo, si sarebbe certamente chinata su di lui per toccarlo, carezzargli i capelli, la mano sinistra. SÃ, soprattutto quella. Perché sul dorso aveva una macchia giallognola come di fegato, che lei non poteva sopportare.
Non era niente di particolare, quel sorriso dato e tolto. Era una smorfia che si era vista rivolgere centinaia di volte. Un gesto di pigra educazione, di quelli che si fanno tanto per fare. Allora perché continuava a pensarci?
Guido era un lavoratore metodico. Dopo pranzo si ritirava in camera per aggiornare il suo computer fisso con le scadenze del lavoro della mattina, dopo di che copiava i dati su un dischetto e piú tardi, nel pomeriggio, li riversava sul computer dello studio. La signora Ester, abituata com’era a riassettare la cucina con il ticchettio della tastiera in sottofondo, quel giorno ne sentà subito la mancanza. In casa era piombato un silenzio che sapeva di ostilità , quasi che Guido si fosse imposto uno spazio in cui non voleva farla entrare.
Abbandonò nell’acquaio le ultime stoviglie che non era riuscita a far entrare nella lavapiatti e si affacciò nel corridoio per spiare.
La porta della camera di Guido era chiusa, e dal di sotto non filtrava luce.
Non la chiude mai, pensò. E la prese una paura fredda, il sentimento di una rovina imminente, che la immortalò proprio lÃ, con le mani ancora nei guanti di gomma e la testa fuori dalla cucina.
Poi provò a ragionare. Qualcosa si dovrebbe pur sentire, pensava. Il bambino che salta, che gioca, che si agita come fanno tutti i bambini a quell’età . La chitarra di Guido, ecco. Come fa un bambino con una chitarra a portata di mano a non avere voglia di strimpellare un po’?
Chiedeva e chiedeva, la signora Ester. Si sforzava di essere comprensiva, fiduciosa nella ragionevolezza delle sue attese. Ma i rumori che voleva sentire non venivano, Guido s’era chiuso in camera, Rocco se ne stava in bagno a leggersi il giornale fino all’ultima pagina e nessuno, proprio nessuno, era disposto a darle retta.
A un tratto vide abbassarsi la maniglia della porta della camera. Scattò all’indietro e corse a rifugiarsi all’acquaio. Poco dopo entrò Guido, in maniche di camicia, gli occhi lucidi di sonno.
– C’è del caffè caldo, Ma’?
– No, se vuoi lo faccio.
– Lascia stare, non fa niente.
E seguà un silenzio definitivo e penoso, un vuoto insopportabile che era totale esaurimento di qualsiasi argomento di conversazione e fatica materiale al solo pensiero di riprovare ad aprire bocca. Prima di rendersene conto, la signora Ester si scoprà completamente esasperata. Cretina, si disse, ma che stai facendo? Lui è tuo figlio e questa è casa tua. Hai tutto il diritto di sapere chi è, da dove viene e quando se ne va.
– Guido, allora. Mi vuoi dire che ci fa questo bambino in casa nostra? – domandò all’improvviso fissando suo figlio negli occhi, piantandosi con le mani sullo straccio e con lo straccio sulla tavola.
Traversari la guardò allibito:
– Che fa? Come che fa, è il figlio di Marco. Ma che è, non te lo ricordi piú?
– No, non me lo ricordo, non me lo ricordo!! – sbottò la signora Ester, e subito le venne il fiatone.
– Marco, Ma’. Un amico mio vecchio. Abbiamo fatto insieme la terza liceo, e pure il primo anno d’università . Deve stare fuori per una questione di famiglia, e mi ha chiesto se gli tenevo il bambino per qualche giorno, – le disse. A bassa voce.
La signora Ester sentà il demonio che la lasciava. Avrebbe voluto toccare suo figlio e dirgli: «E non lo potevi dire subito?»; invece questa voce non le veniva, soffocata da un altro pensiero scomposto in tanti pezzetti che si accalcavano tutti verso la stessa uscita e facevano piú o meno cosÃ: «Tutto qui, era tutto qui, oh Dio ti ringrazio, e io che stavo addirittura pensando che, oh no ma che cosa orribile, come mi è venuto, sono proprio una vecchia acida e maligna». Però senza nemmeno volerlo riciclò lo stesso tono esasperato di poco prima:
– Qualche giorno o…
Allora fu Guido a perdere la calma:
– Ma quante altre domande mi vuoi fare, ah? Che è, ti fanno schifo i bambini?
Uno sputo in faccia. E il peggio era che pensava di meritarselo.
– No, no, io volevo dire che, insomma volevo solo sapere quanto tempo si ferma.
– Non lo so: non-lo-so! Qualche giorno, te l’ho detto, qualche giorno! È sufficiente come risposta, o serve altro? – urlò Guido prendendosela con una delle sedie del tavolo.
In quel momento Rocco uscà dal bagno, attraversò il corridoio e senza neanche affacciarsi in cucina se ne andò in camera sua, facendo un po’ piú rumore del solito nel chiudere la porta.
La signora Ester guardava la sedia che Guido, g...