Almost Blue
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Almost Blue

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Almost Blue

Informazioni su questo libro

Nessuno vuole ammetterlo, ma a Bologna c'è un assassino seriale: è l'Iguana, che assume di volta in volta l'identità delle sue vittime, per sfuggire alle «campane dell'inferno» che gli risuonano nelle orecchie. Tocca a Grazia cercare di prenderlo, e piú delle sofisticate tecnologie che usa, le servirà l'intuito e la capacità di ascolto di Simone, cieco dalla nascita. Mentre cacciatore e preda si scambiano continuamente i ruoli, vediamo la scena ora con gli occhi attenti e ansiosi di Grazia, ora con lo sguardo febbricitante e doloroso dell'Iguana, o la percepiamo come un concerto di suoni e di voci, un complicato e fantastico arabesco mentale, quando la soggettiva è di Simone. E la città che cosí prende forma sotto i nostri occhi, fitto reticolo di trame e di ossessioni, è insieme la sorprendente megalopoli italiana che si stende su tutta l'Emilia, e anche il teatro magico dove tutte le storie possono accadere. Un thriller nervoso e impeccabile, una storia d'amore e solitudine, una scrittura che sa dosare tensione emotiva e colpi di scena.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806184384
eBook ISBN
9788858400999
Parte Prima

Almost Blue

Almost blue almost doing things
we used to do.
Quasi triste quasi facendo le cose
che eravamo soliti fare.
ELVIS COSTELLO, Almost Blue.
Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po’ di polvere. Quello del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro chiuso di una finestra, e dopo la voce velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost Blue.
A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima a di almost, cosí chiusa e modulata da sembrare una lunga o. Al-most-blue... con due pause in mezzo, due respiri sospesi da cui si capisce, si sente che sta tenendo gli occhi chiusi.
Per questo mi piace Almost Blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi.
Io, con gli occhi chiusi, ci sto sempre, anche se non canto. Sono cieco, dalla nascita. Non ho mai visto una luce, un colore o un movimento.
Ascolto.
Scandaglio il silenzio che mi circonda, come uno scanner, uno di quegli apparecchi elettronici che spazzano l’etere a caccia di suoni e di voci e si sintonizzano automaticamente sulle frequenze occupate. So usarli benissimo, gli scanner, quello che ho dentro la testa da venticinque anni, fin da quando sono nato e quello che tengo in camera mia, accanto al giradischi. Se avessi degli amici, se ne avessi, di sicuro mi chiamerebbero Scanner. Mi piacerebbe.
Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardano. Dicono lucido, opaco, luminoso, invisibile. Come in quella favola che mi raccontavano da bambino per farmi dormire, in cui c’era una principessa cosí bella e con una pelle cosí fine che sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti sveglio a pensare, prima di capire che trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro.
Per me significava che le dita ci passavano attraverso.
Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L’azzurro, per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali e le volpi sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immaginarlo ma so che è il colore del nulla, del niente, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l’idea che contengono. Per il rumore dell’idea che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la b, invece, sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi.
Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i capelli blu.
Ci sono anche colori che hanno una forma. Una cosa rotonda e grossa è sicuramente rossa. Ma le forme non mi interessano. Non le conosco. Per conoscerle bisogna toccarle e a me toccare non piace, non mi piace toccare la gente. E poi con le dita sento solo le cose che ho attorno, mentre con le orecchie, con quello che ho dentro la testa, posso arrivare lontano. Preferisco i rumori.
Per questo uso lo scanner. Tutte le sere, salgo in camera mia e metto sul piatto un disco di Chet Baker. Sempre lo stesso, perché mi piace il suono della sua tromba, tutte quelle p, piccole e profonde, che mi girano attorno e mi piace la sua voce che canta piano, come se venisse da dietro la gola e facesse fatica a uscire e per farlo si dovesse soffiare con tanto impegno da dover chiudere gli occhi. Soprattutto quel pezzo, Almost Blue, che io punto per primo, anche se è l’ultimo. Cosí tutte le sere e tutte le notti aspetto che Almost Blue mi scivoli lentamente in fondo alle orecchie, che la tromba, il contrabbasso, il pianoforte e la voce diventino la stessa cosa e riempiano il vuoto che ho dentro la testa.
Allora, accendo lo scanner e ascolto le voci della città.
Io, Bologna, non l’ho mai vista. Ma la conosco bene, anche se probabilmente è una città tutta mia. È una città grande: almeno tre ore.
L’ho sentito una volta che mi sono sintonizzato sul CB di un camion e l’ho seguito per tutto il tempo che è rimasto nel raggio del mio scanner. Da quando è entrato finché non l’ho sentito sparire all’improvviso, il camionista ha sempre parlato con qualcuno, guidato e parlato, guidato e parlato, per tutta la mia città.
– Qui Rambo, qui Rambo... chi mi copre? Sono appena entrato al casello di Rimini sud... occhio perché c’è la Finanza in uscita...
Qui Rambo... vieni avanti El Diablo... ho una dritta per un pompino... tangenziale, uscita Casalecchio di Reno, angolo distributore... chiedere di Luana...
Qui Rambo... chi sei, Maradona? Senti un po’, come sarebbe che El Diablo è incazzato? Non lo sapeva che la Luana è un travestito? Se lo copri digli che mi sto fermando a dormire al Parma 2 e che lo aspetto lí... e che vada bene a farsi dare nel cu...
Cessano di colpo le voci che corrono sulle strade, troncate all’improvviso. La mia città ha un perimetro netto, definito dal silenzio, un bordo, come quello di un tavolo sospeso nel nulla. Oltre il bordo c’è un abisso che le inghiotte, piú nero del nero. E vuoto.
A volte, invece, mi sintonizzo sulla centrale operativa della questura e ascolto la voce gracchiante delle volanti. È come se stessi sospeso nel cielo nero della mia città e avessi decine di orecchie che corrono dovunque, nel buio.
– Volante 4 a Centrale... abbiamo un incidente grave sulla via Emilia... serve un’ambulanza con la massima urgenza...
– Qui Volante 2... siamo davanti alla Banca Cooperativa... l’allarme suona ma non c’è nessuno...
– Fammi subito un terminale su questa targa... A come Ancona, D come Domodossola...
– Allora... il giovane, qui, è senza precedenti penali ma la ragazza è minorenne e non ha i documenti... che si fa?
– Ricevuto... ci portiamo in zona...
– Overdose, cazzo... questo ci muore in macchina...
– Siena Monza 51... Siena Monza 51...
– Vieni avanti, Siena Monza...
– Allora senti, siamo in viale Filopanti, angolo via Galliera e abbiamo qui una negra senza documenti...
La voce è forte, tutta di naso, come se avesse il raffreddore. Dietro, in sottofondo, c’è il ringhio verde delle auto che passano e quello sottile, ronzante e azzurro, dei motorini. Dietro, ancora piú sotto, tanto che quasi si confonde con la tromba di Chet Baker, voci acute, che pungono appena, «no, io non viene... hai male, io non viene...» E un’altra, piú forte, voce grossa, voce rossa, «oh, sta’ qui... dove cazzo vai? Ne vuoi un’altra? Eh? Ne vuoi ancora?»
Quando voglio scendere e fermarmi ad ascoltare una storia, allora lascio che lo scanner si sintonizzi sui cellulari.
– Che cazzo fa quello lí con le cuffie?
Musica, dietro. Lontana. Soltanto il pulsare continuo di una batteria elettronica, filtrata da qualcosa di spesso, forse un muro. Davanti, il fruscio verdissimo di un GSM e dentro un’altra voce, dal fondo liquido, che gorgoglia appena sotto le elle e le erre.
– Merda se sono in cassa... pronto? oh, senti un po’, Lalla, dov’è il rave? Qua non lo sa nessuno...
– Che cazzo fa quello lí con le cuffie?
Meno liquida, questa, e piú appannata, fumosa, come velata da una nebbia densa. Sta a metà tra il pulsare lontano della musica e la voce che parla nel GSM.
– Oh, Tasso... che cazzo fa quello lí con le cuffie?
– Va’ a cagare, Misero... che cazzo ne so? Sarà un buttafuori...
– Ha le cuffie da fonico...
– Allora sarà un fonico... pronto Lalla? Ci sei? Merda, Tasso... ha messo giú! E adesso chi ce lo dice dov’è il rave?
– Chiediamolo al fonico...
– Ecco, bravo... chiedilo al fonico e togliti dal cazzo... Pronto, Lalla?
– Oh, Tasso... non è un fonico, è uno schizzatissimo che dice di avere del gran fumo. Che cazzo ci farà quello lí con le cuffie...
Quando la storia non mi interessa piú, quando non la capisco piú, spingo il pulsante che cambia sintonia e vado avanti. Continuo cosí per tutta la notte, perché quando non puoi vedere la luce dormire di giorno o di notte è la stessa cosa. Continuo a scandagliare il nero, incrociando a volte il raschiare sottile di altri scanner che incontrano il mio. Ascoltando le voci della città.
Quando mi stanco, spengo tutto.
Silenzio. Solo il fruscio sottile del silenzio che mi ronza, piano, nelle orecchie.
Solo Chet Baker che canta Almost Blue.
– Che cazzo fa quello lí con le cuffie?
Sono nudo e ho freddo.
Guardo il mio volto riflesso nella pozza rossa che si è formata sotto il letto e vedo che quell’animale continua a corrermi sotto la pelle, deformandomi la faccia. Allora raccolgo da terra un pezzo della maschera che si è staccata dal muro, una di quelle maschere africane dal viso allungato, e ce lo metto sopra, per non vederlo piú.
Però le sento.
Le sento le campane dell’Inferno. Me le sento risuonare nella testa, sempre, tutto il giorno e tutta la notte e a ogni rintocco vibrano fin dentro le ossa, come se il mio cervello fosse lui stesso una campana viva che pulsa e si spacca a ogni colpo. A volte sono lontane, giú, sotto la nuca e ne sento soltanto l’eco, metallica, che mi si allarga dentro, lenta, come un cerchio sottile. Ma poi ricominciano all’improvviso, piú alte, altissime, un rintocco forte al centro della testa che mi vibra lungo il naso e sui denti, un rintocco forte che mi batte e rimbalza dietro la fronte, un rintocco, forte, che mi sfonda le giunture delle ossa e mi apre il cranio, un rintocco, forte, fortissimo. Le sento, le campane dell’Inferno. Sempre, ogni giorno e ogni notte, sempre, le sento le campane dell’Inferno che suonano a morto e suonano per me.
Per non sentirle mi sono coperto le orecchie con le cuffie dello stereo, ma non basta. Arricciato come una molla, il cavo mi scende lungo il petto e lo spinotto staccato mi penzola inerte e nudo tra le gambe. Allora accendo lo stereo, su tutti i bassi e tutti gli alti, la manopola del loudness girata tutta verso destra, tutto il volume su e tutti i led accesi, fissi sul rosso, fissi. Pianto lo spinotto della cuffia dentro il buco e di colpo UN MURO nella testa, durissimo e compatto, che mi scortica i timpani e corre da un orecchio all’altro e lí si blocca, dietro gli occhi, fermo. La cassa della batteria, il rullante e i piatti serpeggiano veloci nella mia testa come la lingua di un rettile, la chitarra è una raffica elettrica di pioggia, il basso un tuono isterico che rotola sempre piú vicino e la voce è un lampo che attraversa il cielo come un urlo nero. Ho un muro, un muro nella testa, UN MURO e i rintocchi delle campane ci si schiantano contro, sordi e a ogni colpo rimbalzano sempre un po’ piú lontano. Il cavo delle cuffie, teso come la catena di un cane, basta appena per arrivare al letto a castello. Con le ginocchia premute contro il petto, sento la pelle liscia e ghiacciata delle gambe e i brividi alti che mi grattano i capezzoli.
Sono nudo e ho freddo ma i vestiti che avevo addosso li ho strappati e quelli che sono sul pavimento erano cosí inzuppati che adesso si saranno rappresi e saranno duri come pezzi di cartone. Allora mi rannicchio sul bordo del letto e appoggio appena la testa sull’angolo del cuscino, per evitare le gocce che colando dalle maglie della rete di ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Almost Blue
  4. Parte Prima. Almost Blue
  5. Parte seconda. Reptile
  6. Parte terza. Hell’s Bells
  7. Inserto fotografico
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright