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Ritorno alla città distratta
A Caserta ci sono quei fumatori che hanno lo sguardo sbieco, e non perché il fumo gli ottunda i sensi, succede invece che camminano guardando di sbieco perché cercano quelli che vendono le sigarette di contrabbando. Quelli che vendono le sigarette di contrabbando sono i marocchini. E questi non sono (piú) soliti mettere il «bancariello» con le sigarette e sedercisi dietro. Se facessero cosí rischierebbero una denuncia. Anonima, però. A Caserta ci sono quelli che si lamentano, perché quei marocchini vendono la merce senza rilasciare la fattura e cosí facendo, sigaretta dietro sigaretta, un pacchetto dopo l’altro, mille lire dopo mille lire, finisce che si fanno i soldi e non pagano le tasse e allora come dicono quelli che non sopportano i marocchini: stann’ cchiú meglio ’e te e me e di tutt’e duje miss’assieme. A Caserta ci sono quelli che si indignano per queste cose e allora fanno la denuncia alla Finanza. Delle denunce bisogna prenderne atto e la Finanza lo fa con diligenza fino a che un bel giorno fa partire le sue volanti in cerca dei contrabbandieri, e quando li trovano gli autisti lasciano che i freni stridano fino a pochi centimetri dal bancariello con le sigarette, cosí che i marocchini si spaventino e indietreggino con le mani alzate e i passanti si voltino allarmati. I finanzieri scendono con il dito puntato: ferma là! Sequestrano la roba e portano i marocchini via per accertamenti, mentre ci sono quei passanti che dicono: meno male, altri che dicono: ma dài! e altri ancora che dicono: e mo’ i finanzieri si fanno una bella scorta di sigarette.
Ma il fatto è che tutti noi, a Caserta, abbiamo un cugino o un parente che sta nelle forze dell’ordine, e se gli parliamo dei marocchini e del contrabbando ci sentiamo dire che spesso qualche colonnello dei carabinieri o qualche maresciallo della Finanza dice alle giovani reclute: guaglio’, qua il problema non sono i marocchini, quelli là se non facessero il contrabbando farebbero di peggio, perciò voi chiudete un occhio, e non sprechiamo energie, perché qua i problemi veri sono altri.
A Caserta, ci sono quei casertani che spesso dicono: qua il problema è un altro. Quando entrò in vigore la legge che rendeva obbligatorio l’uso del casco, ci furono due giorni di controlli a tappeto. Ma, ciononostante, i motociclisti hanno continuato a non metterlo. Hanno preferito portarselo appresso, reggendolo, ad esempio, tra le gambe, oppure, è il caso del casco integrale, indossandolo solo per metà, in modo che in caso di posto di blocco sarebbe bastata una spinta sulla nuca per sistemarlo meglio. Tutto questo ingegno fa assumere ai motociclisti casertani strane forme asimmetriche, abbastanza ridicole. Queste forme di resistenza hanno avuto la meglio, dunque dopo un po’ i controlli sono finiti e i casertani che possiedono la moto girano senza casco. Succede, allora, che di fronte a tutto questo c’è sempre qualcuno che dice: se si vogliono rompere la testa non sono affari nostri, anche perché qua, i problemi sono altri.
Però, i finanzieri non sempre possono chiudere un occhio e allora succede che i marocchini vengano incontro alle esigenze della Finanza, tolgano il bancariello e al suo posto mettano dei segni di riconoscimento che stanno a dire: qua c’è un banco vendita, c’è ma non si vede. E i segni di riconoscimento sono tanti e sempre diversi: un pacchetto di Marlboro inchiodato al muro, una scatola sfatta abbandonata sul marciapiede, con su scritto a pennarello «Merit: o Camel», oppure una sedia vuota, di quelle da bar, o anche una poltrona lacera, che suggerisce: qui ci può essere seduto qualcuno, messa in corrispondenza di un bivio, là dove la strada mostra i suoi margini, assottiglia l’asfalto, fa apparire chiazze d’erba. Ma il segno è, anche, un marocchino che fuma sotto un lampione, in prossimità di un incrocio, o che se ne sta seduto sul ciglio di un marciapiede. Accade cioè che i segni del contrabbando invece di rafforzarsi si semplificano e anziché fornire ridondanza, accumuli di senso, insomma orpelli, si sottraggono a se stessi: diventano evocativi. Cosí dell’oggetto o del soggetto (del contrabbando) non resta altro che l’aureola. E le aureole non sono facili da cogliere, ci vuole un po’ di esperienza e per questo i fumatori hanno lo sguardo sbieco, sono distratti, sedotti dalla ricerca del segno. E se ad esempio il fumatore trova il segno, metti che sta guidando la macchina e che ti precede, allora frenerà all’improvviso, a rischio di essere tamponato, e se è educato accosterà, se non ha creanza lascerà la macchina in mezzo alla strada, scenderà e si piazzerà vicino al segno. Farà solo questo, oltre a pagare. Il resto lo farà il marocchino. Spunterà e ti porterà le sigarette, oppure, se il contrabbandiere è uno scaltro del mestiere, non si mostrerà in prima persona, lascerà spuntare solo le dita, un fraseggio essenziale disciplinerà i suoi movimenti, dirà a qualcun altro di aprire un tombino, di spostare una pietra dal muro, oppure di salire su un muretto o di pescare dentro una siepe o ancora di fare qualche passo piú in là per aprire il cofano di una macchina posteggiata, ma anche di aprire l’interruttore alla base di un lampione, insomma dirà di prendere le sigarette da uno di questi nascondigli e portarle al fumatore.
Quei casertani che temono gli extracomunitari cominciano a elaborare teorie estreme, dicono che si sono ormai impadroniti dei punti nevralgici della città e del suo sottosuolo e piano piano conquisteranno il centro e quel giorno non ci sarà piú spazio. Bisogna resistere all’invasione, fare norme piú severe, richiamare alle loro responsabilità le forze dell’ordine. E qualche volta mentre sostengono queste teorie si cominciano a innervosire, alzano la voce, sudano, cercano la complicità di chi gli è vicino, e tutto a un tratto sentono il bisogno di fumare ma si accorgono che sono rimasti a corto di sigarette e allora si mettono in movimento per cercare i marocchini. E camminano con lo sguardo sbieco alla ricerca dei segni.
Ma ci sono anche quei casertani che non temono gli extracomunitari. Si dànno da fare per spiegare a quei casertani che non sanno cosa pensare sull’immigrazione che una società civile deve essere solidale con gli africani, preparare strutture di accoglienza, combattere per l’integrazione, non per l’esclusione. Per dire tutto questo si fanno dei dibattiti, e non solo nelle sedi pubbliche, ma dovunque capiti: nei locali, ai tavolini di un bar, in piazza. A presiedere i dibattiti sull’immigrazione sono generalmente gli ex sessantottini. Il fatto è che Caserta è piena di ex.
Gli ex casertani sono soliti cambiare le facce e non i vestiti. Un ex assessore alla cultura della giunta di centro destra vestiva ancora come quando era di estrema sinistra, si presentava, cioè, sciatta e trasandata, mantenendo inalterati gli stessi gesti e la stessa dialettica di un tempo. Generalmente la condizione di ex è accompagnata dal non pentimento per le cose fatte in passato. Cosí si fa sfoggio di coerenza e serietà, e si continua a governare pubblicizzando queste virtú. O meglio, ci si guarda bene dal dichiararsi pentiti, per evitare spiacevoli riflessioni che oltretutto sono solo delle inutili perdite di tempo.
Ci sono ex maoisti, ex democristiani, ex cattolici, ex comunisti, ex socialisti. Non ci sono, invece, ex fascisti. Ci sono solo fascisti. Ma non mancano ex preti, ex imprenditori, ex negozianti, ex impresari, ex atleti, ex sportivi. E quelli che non sono ancora ex sembrano sempre in procinto di diventarlo.
Non che a Caserta manchino giovani orgogliosi di non essere ex. Ci sono, ma se si preoccupano, mettiamo, del problema dell’immigrazione e decidono di fare qualcosa, accadrà che verranno, nella pratica, coordinati dagli ex. Ad esempio, nel 1987 i senegalesi cominciarono a stendere i tappeti con la roba sopra lungo il corso Trieste, e quei casertani che non sopportano i tappeti con la roba sopra, cominciarono a lamentarsi, dicendo: Caserta sarà rovinata dai negri. Successe che alcuni giovani pensarono di fondare un’associazione per occuparsi dell’integrazione dei senegalesi e dimostrare cosí che Caserta non sarebbe stata rovinata dai neri. Per fare un inciso, bisogna dire che Caserta ha sempre rischiato di essere rovinata da qualcosa: è stata rovinata dalle case popolari, infatti quando non c’erano le case popolari Caserta non aveva delinquenza; poi: Caserta è stata rovinata dalle cave, e ancora: la rovina di Caserta è cominciata con il crollo della Casertana o della Juve Caserta.
Tutti i casertani sono ex sportivi. Ora, c’è stato un tempo in cui lo sport piú praticato era la pallacanestro. Non solo la squadra era forte, ma gli appassionati erano davvero tanti. Nonostante questo, in città mancavano campi per allenarsi. O meglio, ne esisteva qualcuno a pagamento e altri di proprietà delle scuole. Ebbene, per giocare gratuitamente era necessario scavalcare i cancelli delle scuole, ovviamente quando erano chiuse. Tutti noi casertani ex sportivi ricordiamo con rabbia e con dolcezza i sabati pomeriggio quando, in piena controra, scavalcavamo gli alti cancelli del Liceo scientifico o della Ragioneria, per occupare i campi prima degli altri. Il fatto strano è che fin quando quei campi sono stati recintati e vietati, sono stati frequentati da tutti; pure i migliori cestisti casertani, anche quelli che ormai sono famosi tanto da giocare nella Nba, si sono allenati in quei campi. Come se quei recinti stimolassero un effetto ghetto, cioè dotassero i giocatori di una rabbia potente, rabbia e passione, necessarie per sfuggire alla città, e forse a se stessi. Inoltre, favorivano un progresso di integrazione tra ceti e gruppi sociali diversi, e fatto strano, giocare in quei campi, e farlo tutti insieme, dotava noi giocatori di un forte senso di rispetto verso tabellone e canestro, intesi come patrimonio di tutti. Ebbene, l’ascesa della squadra di pallacanestro ha coinciso con l’atto di scavalcare i cancelli e con il senso di fratellanza che pareva svilupparsi tra i cestisti. È successo poi che in tempi recenti le scuole hanno tolto i tabelloni con i canestri, relegandoli in palestre chiuse. Contemporaneamente, però, in piazza Mercato è stato installato un play ground, e cioè quattro campi da gioco aperti a tutti quelli che intendono giocare. Per motivi ancora da scoprire i canestri vengono continuamente divelti, cosí che giocare risulta impossibile. Come se l’assenza di cancelli e dello sforzo nello scavalcarli, l’assenza, insomma, di rabbia comune e complicità del gesto di scavalcare i cancelli, avesse generato un sentimento egoistico di proprietà. Cosí, i canestri vengono divelti e il piú delle volte montati nei giardini dietro casa. Allora, adesso, a Caserta il basket si gioca placidamente e senza impegno tra amici, sempre gli stessi, nei cortili. Sarà una casualità o un’interpretazione romantica, ma da quando questo accade, la squadra di basket è prima retrocessa in serie A2, poi, pian piano, è stata travolta dagli scandali economici, infine è scomparsa del tutto.
Caserta l’hanno rovinata i politici, l’hanno rovinata i palazzinari, i democristiani, quelli che non hanno fatto opposizione, ma l’hanno rovinata pure i negozianti, quelli che hanno fatto chiudere il teatro comunale, quelli che hanno messo le banche al posto dei cinema. Si è detto anche: Caserta l’hanno rovinata i napoletani. Perché i napoletani, si sa, sono ossessionati dal traffico e non amano muoversi nella città, meglio abitare a Caserta e da qui, via autostrada, raggiungere il posto di lavoro, a Napoli. Infatti, i napoletani quando tornano a casa con l’aereo dicono: ho impiegato piú tempo dall’aeroporto a casa che non da Parigi a Napoli. Caserta pare sia stata, poi, rovinata dall’ex Vescovo: pensava troppo ai neri e poco ai problemi della città.
Insomma, Caserta è stata rovinata sempre da qualcos’altro o da qualcun altro e forse è per questo che è piena di ex: e non si riesce mai a trovare qualcuno responsabile di qualcosa.
Ma torniamo indietro, al 1987. Quando cioè si ebbe l’impressione che Caserta potesse essere rovinata dai neri. Quei giovani che razzisti non erano pensarono di fare un’associazione, e la chiamarono «Insieme» (che poi divenne «Nero e non solo», anche se qualcuno continua a chiamarla ex «Insieme»), cercarono i senegalesi, li trovarono, ne impararono i nomi e riuscirono a convincerli ad associarsi. A questo punto arrivarono gli ex, nella fattispecie gli ex di Democrazia proletaria, che a loro volta erano ex Pdup, ma alcuni di loro erano ex maoisti, anche se tutti erano accomunati dal fatto di essere ex salesiani. Questi ex dissero che erano venuti a portare la loro esperienza di ex, appunto. E spiegarono: per avviare un’associazione bisognava prima discutere sul da farsi. Cosí durante le domeniche mattina, ma anche negli altri giorni della settimana, spiegarono ai senegalesi le nozioni elementari del terzomondismo, del capitalismo e impartirono lezioni d’italiano. Poi, per il capodanno si decise di fare un pranzo tutti insieme, per conoscersi meglio. Si disse: ognuno porta qualcosa, cosí nessuno cucina per tutti. Accadde che quasi tutti portarono quello che avevano a casa. Allora i senegalesi si abbuffarono di insalata: semplice, condita con l’olio, mischiata con il mais, con il tonno, i pomodori freschi, con il radicchio, con la rucola. E di purè di patate. Dopo il pranzo per aspettare la mezzanotte si ballò tutti insieme, però dato che quegli ex non sapevano ballare e altri avevano voglia di fumare, finí che ballarono solo le donne e i senegalesi. Ma le donne bianche avevano vestiti corti e un po’ provocanti e i senegalesi erano giovani e non sposati. Si rischiarono scene di libidine interrotte solo dalla mezzanotte, perché, dopo che si spararono i botti, ogni bianco decise di andare via: bisognava passare per altri veglioni. Una dell’associazione, lasciando la festa, disse: sono preoccupata, stasera ho scoperto che non mi piace l’odore dei neri, però calma, non ci facciamo prendere dal panico, ragioniamo.
Il fatto è che a Caserta l’odore dei neri non si è davvero mai sentito, dal 1987 fino ai giorni nostri. I senegalesi non hanno mai, tranne per brevi inconsistenti periodi, invaso il centro. Per il resto del tempo si sono, spontaneamente, loro malgrado, relegati in periferia. Quello che i casertani non sono mai riusciti a scoprire, o perché occupati a fare altro o perché non interessati, è dove abitassero i senegalesi. Nel senso che ognuno di noi li ha potuti vedere – e li vede ancora – solo nell’atto di vendere. Dunque, ce li troviamo davanti, quasi sempre negli stessi posti, generalmente nelle vicinanze di un luogo commerciale, come la Standa, oppure nei pressi del mercato; vediamo la loro merce, e qualche volta la merce ci rassicura, e allora contrattiamo con i senegalesi, forse compriamo pure qualcosa, poi andiamo via.
Tutti noi casertani contrattiamo, riuscendo a ottenere forti sconti. Parliamo, un po’ bonariamente insultiamo, ce ne andiamo, ritorniamo, ricontrattiamo, riinsultiamo, e alla fine acquistiamo. Se poi impariamo i nomi dei senegalesi li storpiamo nella contrattazione, tecnica usata quando la resistenza allo sconto è alta. Siamo davvero indecisi se considerare questa strategia per ottenere lo sconto un gesto democratico, un modo per appianare le differenze di razza in nome della presunta qualità del prodotto, e cosí facendo evitare il patetismo e l’elemosina; o al contrario un gioco di cui noi solamente abbiamo stabilito le regole.
Il fatto è che non sappiamo da dove vengono né tantomeno dove vanno una volta finita la giornata di lavoro. E fu per soddisfare questa sana curiosità che, quando nel 1987 la città cominciò a essere frequentata dai senegalesi, quei casertani che non erano razzisti decisero di andare a scoprire la strada percorsa dai neri per tornare a casa. Ora, accade che i senegalesi lasciano la propria casa all’alba e tornano al tramonto. Si muovono, cioè, in condizioni di scarsa visibilità, o di buio completo. Si alzano presto perché devono raggiungere i mercati vicini, e se, ad esempio, vogliono recarsi al punto di raccolta di Villa Literno, dove i caporali del posto decidono chi lavorerà e chi no, dovranno farlo entro le 6.00 – il che vuol dire prendere il primo treno per Napoli via Aversa intorno alle 4.30.
Per molti anni, la stazione di Villa Literno è stata una delle piú tristi d’Italia, perché costituita da una fatiscente struttura adibita a locale per il pubblico, che sembra non confinare con nulla tranne che con il vuoto spazio cosmico: ed è inoltre una stazione preceduta, e soprattutto seguita, da binari che si intersecano scambiandosi le linee attraverso una serie altissima di ramificazioni, cosí che, se li guardi, perdi continuamente il punto di vista e con esso, se qui arrivi di mattina presto e sei ancora avvolto dal sonno, anche la cognizione della tua identità. La sensazione di sperdimento totale e definitivo è ampliata da un sentimento di tristezza, dovuto al fatto che la maggior parte dei treni fermi sui binari sono vagoni merci, e questi ultimi o sono marciti da tempo, oppure sono blindati e piombati perché contenenti materiali radioattivi; o ancora, si tratta di vagoni pieni di bellissime merci, nuove e luminose, e siccome questa è una stazione di transito, ti rendi conto con un languore improvviso che quelle merci sono in esposizione provvisoria, non sono cioè destinate a quel luogo, e mai apparterranno a te.
E ritornano a casa tardi, per poter sfruttare fino all’ultimo momento la luce e cercare di vendere la mercanzia. In entrambi i casi, che si tratti di albe o di tramonti, i senegalesi, quando non vendono, appaiono (e sono) delle ombre. Si intravedono e si riconoscono solo supponendo che qualcosa si muova dentro quei vestiti. Se si aggiunge poi a questo il fatto che camminano rasente ai muri, come se la mezzeria non fosse ancora a loro concessa, si può affermare che il senegalese nel ritorno a casa, o nel percorso da casa verso il lavoro, rischia l’invisibilità. Se è estate, poi, la loro figura appare deformata dai raggi del sole, anche la loro ombra si allunga e si proietta senza selezione alcuna su ogni cosa, come a dire: da nero nasce nero. Tutto ciò spaventa quei casertani che temono gli extracomunitari; c’è bisogno, infatti, di stringere gli occhi per mettere a fuoco la figura, per pensare, quando si incontra una lunga ombra che intralcia il tuo cammino, se è il caso di cambiare lato della strada oppure no. Tutte operazioni fastidiose che creano solo preoccupazioni. Ma d’altra parte anche i senegalesi si trovano in difficoltà (certo diverse) quando partono da casa o quando rientrano. Abitano in periferia, in zone che nessun casertano frequenta piú, o che non ha mai frequentato, dove una volta c’erano delle case e adesso ci sono solo abbozzi di muri e resti di tetti, insomma quel poco di costruzione abitativa che è rimasta è come se fosse stata sottratta all’idea stessa di decadenza. Perché i muri si sono indeboliti, hanno sviluppato crepe a croce che corrono dal soffitto al pavimento e spesso tremano se nei paraggi passa un autocarro; l’intonaco si è scrostato, ma non del tutto, il piú delle volte si è aperto in piú punti, evidenziando lamelle di calce sovrapposte l’una all’altra, come un bocciolo di rosa sbiancato e pallido. Il pavimento si è alzato, gonfiato dall’aria di tanto in tanto sfiata e si lacera. Gli igienici poi sono rigati dal calcare, e strisce di ruggine segnano i tubi. Si presentano cosí male, e sono cosí maleodoranti, impregnati di sozzume da decenni, che i senegalesi hanno tentato inutilmente di pulirli, fidandosi dell’azione disinfettante e smaltante della varechina, ma si sono accorti che la puzza rimaneva invariata anche dopo molti lavaggi, e lo smalto non veniva piú fuori perché sotto il calcare non esisteva piú lo smalto. Eppure in queste case hanno dovuto abitare, sottraendo ai loro guadagni una cospicua parte di denari per pagare l’affitto (duecentomila lire a posto letto) e sopportando un tasso di densità abitativa di quattro persone per metro quadrato – densità difficilmente sopportabile anche per le galline ovaiole tenute in gabbia.
Però, molti specialisti in pollicoltura non concordano su quanto detto, ritengono infatti che la densità di quattro galline per gabbia sia quella giusta per ottenere il massimo della produzione. Se soffrissero, dicono sempre gli esperti, non sarebbero in grado di produrre un uovo al giorno. Se questo è vero, la similitudine tra galline ed extracomunitari appare terribilmente appropriata, quasi come fosse necessario ridurre lo spazio per concentrare al meglio la produzione manovale degli immigrati.
Ma si sono dovuti adattare, trasformando l’ingresso in locale deposito, accumulando le loro borse nere, di dimensioni enormi (un metro e cinquanta per quaranta centimetri) nell’ingresso, rendendo cosí ogni varco di soglia un’esperienza di alpinismo.
Le borse dei senegalesi, a parte il fatto che sono tristi perché sono sformate dai bozzi sia quando sono piene sia quando sono vuote, tanti bozzi che sembrano marchiare una condizione di sfruttamento a vita, sono, poi, cosí grosse da essere in molti casi vendute fuori commercio. Nei negozi del centro non è infatti possibile acquistare borse di simile grandezza, perché qui a Caserta sono tutte minute, adatte a viaggi di poche ore, oppure sono di marche costose, rigide e con copertura di pelle, pronte per essere utilizzate per i prossimi viaggi in aereo. Occorre, per trovarne di simile grandezza, rivolgersi a pochi negozi specializzati, ubicati in periferia o nel napoletano, che trattano solo prodotti di dimensioni extra e sono frequentati da gente che trasporta molte cose perché la propria vita non si è ancora definita, e il disordine che regna nelle borse è un modo per comprendere varie opportunità che la vita potrà ancora offrire. Opportunità spesso ammantate di vaghe illusioni, perché piú nessuna di queste cose ha la possibilità di dominare sulle altre: quindi il piú delle volte si equivalgono, annullandosi.
Hanno dovuto avvicinare i letti il piú possibile sottraendo spazio alle gambe una volta scesi dalla branda. Hanno rinunciato a leggere, o hanno delegato uno a leggere per tutti, perché l’elettricità costa e le lampadine da mezza candela dopo un po’ stancano la vista. Hanno cucinato in grosse pentole, riscaldate da fornelli a gas, per risparmiare sul costo del contratto Italgas. Hanno fatto funzionare, durante l’inv...