1933. Un anno terribile
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1933. Un anno terribile

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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1933. Un anno terribile

Informazioni su questo libro

Figlio di immigrati, Dominic ha un grande talento, quasi da cartone animato: il suo Braccio. Lo cura, lo allena, lo protegge dai rigori invernali con tubetti e tubetti di Balsamo Sloan, sa che grazie a lui, soltanto grazie a lui, potrà riscattare se stesso e la sua famiglia dalla condizione di inferiorità che stanno vivendo, diventando «Dom Molise, il piú grande Mancino della Major League». La piú grande promessa del baseball della West Coast.
Un capolavoro di freschezza e comicità, oltre che un omaggio a uno dei grandi miti della narrativa americana, il baseball. Il finale rappresenta uno dei vertici assoluti della prosa di questo scrittore, un vero inno alla speranza e alla fame di vita dell'adolescenza. «L'anno terribile, il 1933, non è legato ad alcun fatto storico.
È un anno come un altro tranne che per Dominic, il protagonista.
È terribile perché segna il momento in cui il giovane prende coscienza che nella sua vita non c'è alternativa alla fuga. Abbracciato alla betoniera di suo padre muratore, sogna di raggiungere la California. Cioè l'età adulta».

Vincenzo Cerami

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806171438
eBook ISBN
9788858401682

1933. Un anno terribile

Uno

Era duro, l’inverno del 1933. Quella sera, arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che andavano a fuoco, e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde, mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme. Con la pioggia o col sereno c’erano delle forze al mondo che cercavano di distruggermi.
Dominic Molise, mi dissi, aspetta un attimo. Sta andando tutto secondo i tuoi piani? Esamina attentamente la tua condizione, considera obiettivamente il tuo stato. Che succede, Dom?
Vivevo a Roper, Colorado, e invecchiavo di ora in ora. Avrei compiuto diciotto anni di lí a sei mesi, e avrei preso la maturità. Ero alto un metro e sessantadue, e negli ultimi tre anni non ero cresciuto di un solo centimetro. Avevo le gambe arcuate, i piedi a papera, e le orecchie a sventola come quelle di Pinocchio. I miei denti erano storti e la faccia lentigginosa come un uovo di uccello.
Ero figlio di un muratore disoccupato da cinque mesi. Non avendo un cappotto, mi mettevo tre golf, e mia madre aveva già cominciato una serie di novene per il vestito di cui avrei avuto bisogno a giugno per l’esame.
Signore, dissi, perché in quei giorni ero un credente che parlava con franchezza con il suo Dio: Signore, che sta succedendo? È questo quello che vuoi? È per questo che mi hai messo sulla terra? Non ho chiesto io di nascere. Non c’entravo per niente, salvo che ora sono qui e ti sto facendo domande oneste, ti chiedo i motivi, per cui dimmi, mandami un segno: è questo il premio per chi cerca di essere un buon cristiano, per dodici anni di catechismo e quattro di latino? Ho mai messo in dubbio la Transustanziazione, la Trinità, o la Resurrezione? Quante messe ho perso la domenica e le feste comandate? Le puoi contare sulle dita, Signore.
Stai giocando con me? Ti sono sfuggite le cose di mano? Hai perso il controllo? Lucifero ha riguadagnato potere? Sii onesto con me, perché sono sempre preoccupato. Dammi un segno. Vale la pena di vivere? Le cose si aggiusteranno o no?
Vivevamo ad Arapahoe Street, ai piedi della prima collina che poi cresceva a formare il lato est delle Montagne Rocciose. Si elevavano come grattacieli frastagliati, e fissavano la nostra città, una foschia azzurra e verde durante l’estate, bianca come lo zucchero in inverno, con guglie avvolte dalle nuvole. Ogni inverno c’era qualcuno che si perdeva lassú, rimanendo intrappolato in un burrone o seppellito da una slavina. In primavera la neve disciolta trasformava Roper Creek in un fiume selvaggio che portava via steccati e ponti, e che allagava le strade, ammassando fango su Pearl Street e inondando la cantina del tribunale. Un paese freddo, dal brutto carattere, il cui terreno era una lastra di ghiaccio per tutto aprile, con la neve la domenica di Pasqua, e a volte un’improvvisa tormenta a maggio: un paese pessimo per un giocatore di baseball, specialmente per un lanciatore che non toccava palla da ottobre.
Ma Il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello piú vicino al cuore. La neve non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell’acuto odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi e i nasi tappati delle ragazze.
Avevo un’andatura grandiosa in quei giorni, il portamento di un pistolero, la scioltezza del mancino classico, con la spalla sinistra leggermente calata, Il Braccio mollemente dondolante, come un serpente – il mio braccio, il mio benedetto, santo braccio che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola quella centrifuga.
Che nevicasse, allora! E che l’inverno fosse lungo e freddo, e la primavera restasse un sogno, perché quella dopo tutto non era la fine di Dominic Molise, ma solo il suo inizio, e il sole estivo l’avrebbe trovato mentre faceva un lavoro divino con il suo sapiente braccio sinistro. Arapahoe Street spazzata dalla neve era un posto preciso, un punto di riferimento dove una volta aveva camminato in notti di disperazione, il suo luogo di nascita, questo sarebbe dovuto essere iscritto nella Hall of Fame. Una targa, se non vi dispiace, una targa di bronzo murata su un monumento all’angolo fra la Nona e Arapahoe Street: Quartiere d’Infanzia di Dominic Molise, il Mancino piú Grande del Mondo.
Dio aveva risposto alle mie domande, chiarito i miei dubbi, rinforzato la mia fede, e il mondo era tornato a essere giusto. Il vento era scomparso e la neve cadeva piano, come confetti silenziosi. La nonna Bettina diceva sempre che i fiocchi di neve erano le anime del paradiso che ritornavano sulla terra per fare delle brevi visite. Sapevo che non era vero, ma in fondo era possibile, e ci credevo quando ne avevo voglia.
Stesi la mano, e vi caddero sopra molti fiocchi, vivi per pochi secondi, a forma di stella, e chissà? Forse erano l’anima di nonno Giovanni, morto da ormai sette anni, e quella di Joe Hardt, il nostro terza base, morto in un incidente di motocicletta l’estate scorsa, e tutte quelle dei parenti di mio padre nelle lontane montagne dell’Abruzzo, prozie e zii che non avevo mai conosciuto, tutti scomparsi da questa terra. E quelle degli altri, dei miliardi che hanno vissuto per un periodo e poi sono andati via, dei poveri soldati uccisi in battaglia, dei marinai dispersi nel mare, delle vittime della peste e dei terremoti, dei ricchi e dei poveri, di quelli morti all’inizio del tempo, nessuno che era riuscito a scamparla tranne Gesú Cristo, l’unico nella storia dell’uomo che fosse mai tornato, nessun altro, ma io ci credevo?
Dovevo crederci. Da dove veniva la mia abilità, e il mio lancio extra, e da dove prendevo tutto quel controllo? Se avessi smesso di credere, sarei potuto cadere a pezzi, perdere il ritmo, rendere la vita facile per i battitori. Diavolo, sí, c’erano delle incertezze, ma io le respingevo. La vita del lanciatore era già abbastanza dura anche senza aver perso la fede nel proprio Dio. Un attimo di dubbio avrebbe potuto rendere Il Braccio piú fragile, quindi perché intorbidare le acque? Lascia invece le cose come stanno. Il Braccio è arrivato dal paradiso. Credici. Non preoccuparti della predestinazione, ma allora se Dio è solo bene, perché tanto male, e se lui sa tutto, perché ha creato le persone per poi mandarle all’inferno? C’è tempo per questo. Entra nei minors, vai avanti fino alla grande occasione, lancia nei Campionati mondiali, arriva fino alla Hall of Fame. Allora ti potrai rilassare e fare domande, chiedere che faccia ha Dio, e perché nascono bambini handicappati, e chi ha fatto la fame e la morte.
Intravidi, attraverso la neve che sussurrava, le casette sulla Arapahoe. Conoscevo ogni abitante di quelle case, ogni cane e gatto del quartiere. Davvero, conoscevo quasi ognuno dei diecimila abitanti di Roper, e un giorno sarebbero morti tutti. Quello era anche il destino degli abitanti della casa in fondo alla strada, di legno, con la veranda imbarcata, la vernice scrostata, e il tetto sghembo, casa del muratore Peter Molise, dove l’unica muratura era quella del camino, e cascava a pezzi pure quella.
Ma al momento di morire non importavano piú le condizioni della casa, e ce ne saremmo dovuti andare tutti – nonna Bettina per prima, poi papà, poi mamma, io, in quanto il maggiore, poi mio fratello August, di due anni piú piccolo di me, poi mia sorella Clara, e per ultimo mio fratello Frederick. A un certo punto, anche il cane Rex si sarebbe trascinato da qualche parte per morire.
Perché pensavo a queste cose, e riducevo l’intero mondo a un cimitero? Stavo veramente perdendo la fede? Forse perché ero povero? Impossibile. Tutti i grandi giocatori di baseball erano venuti da famiglie povere. Chi aveva mai sentito dire che un qualche pivello ricco era diventato un Ty Cobb o un Babe Ruth? Era per una ragazza, forse? Ma non c’erano ragazze nella mia vita, tranne Dorothy Parrish, che quasi non si accorgeva di me, ero come un misero moscerino nella sua esistenza.
Dio, aiuto! E camminavo piú veloce, inseguito dai miei pensieri, cominciai a correre, le scarpe congelate squittivano come topi, ma non mi aiutò, i pensieri mi incalzavano da destra, da sinistra e da dietro. Mentre correvo, Il Braccio, il mio buon braccio sinistro, prese in pugno la situazione e mi disse parole di conforto: stai sereno ragazzo, è la solitudine, è che sei completamente solo al mondo; tuo padre, tua madre, la tua fede, non ti possono aiutare, nessuno aiuta nessuno, puoi solo darti una mano da te, ed ecco perché sono qui, perché siamo inseparabili, e provvederemo a tutto.
Oh, Braccio! Braccio forte e fedele, parlami con dolcezza. Parlami del futuro, della folla osannante, il lancio che vola al limite dell’irregolarità, i battitori che si molleggiano sulle ginocchia, dimmi che fama fortuna e vittoria ci apparterranno. E un giorno moriremo, e giaceremo l’uno accanto all’altro in una tomba, Dom Molise e il suo meraviglioso braccio, il mondo dello sport sotto shock, in lutto, il telegramma del Presidente degli Stati Uniti alla mia famiglia, le bandiere a mezz’asta in ogni stadio della nazione, i fans che piangono senza ritegno, la biografia in quattro parti di Damon Runyon sul «Saturday Evening Post»: Trionfo sull’avversità: la vita di Dominic Molise.
Mi fermai sotto un olmo a piangere, l’amarezza per la mia morte imminente mi sopraffaceva; cosí giovane, cosí dotato, spezzato nel fiore degli anni. Dio, abbi pietà: non chiamarmi cosí presto! Concedimi ancora del tempo, guarda benignamente alla mia giovinezza. Quando avrò diciannove anni sarò pronto per la grande occasione. Concedimeli, e dieci ancora, per un totale di dodici, né piú né meno, non mi importa se sarà con i Phillies o con i Cubs, dammi solo questi anni, poi abbattimi quando ne avrò compiuti ventinove, è un sacco di tempo mio dolce Signore, considerando trenta partite l’anno, sono trecentosessanta, moltissimo baseball, moltissimi lanci per consegnare il nome di Dominic Molise all’immortalità.
La casa era buia, le finestre della facciata sgranavano i loro occhi ciechi. La neve intatta sul viottolo significava che papà era ancora all’Onyx a giocare a biliardo.
Scossi la neve dalle scarpe ed entrai nell’ingresso, dove Clara dormiva sul divano e Frederick su una branda. Era una casa molto affollata. L’unica che aveva una stanza per sé era la nonna Bettina, anche se la sua era una stanza da letto per modo di dire, minuscola, con il tetto a mansarda accanto alla cucina, dove il letto occupava tutto lo spazio, e non c’era posto neanche per una sedia.
Accesi la luce in cucina, avvicinai un fiammifero al forno della stufa a gas, e tirai fuori i libri: storia, un brano di Virgilio da tradurre, e un tema da scrivere sul corpo mistico di Cristo. Era una di quelle sere piú facili, in cui suor Mary Delphine, stanca di sommergerci di compiti, ci faceva respirare.
Mi ci volle però lo stesso un’ora per tradurre sei righe di latino, e a mezzanotte cominciai il tema sul corpo mistico di Cristo.
«Cos’è il corpo mistico di Cristo?» cominciai. «Buona domanda, una domanda importante, cosí importante che, anche se non sappiamo altro, è sufficiente a sostenerci fino alle porte del paradiso. E dal momento che è cosí fondamentale, dobbiamo darle l’attenzione che le spetta. Tutti i dogmi essenziali meritano la nostra piú profonda riflessione. Ce lo scordiamo troppo spesso, e molti peccatori, quando viene la loro ora, prima del giudizio finale, stanno pieni di pentimento davanti a Dio Onnipotente, tremanti dalla paura e dal rimorso per aver trascurato le verità della fede. Se noi studiassimo i dogmi della nostra Santa Chiesa tanto quanto sprechiamo tempo a leggere libracci o a guardare film osceni, e meditassimo sul corpo mistico di Cristo, la nostra salvezza sarebbe assicurata. Il tempo è breve, e l’ora giunge. Nostro Signore non chiede molto alle sue creature. Ci ha dato insegnanti generosi, le suore benedette dell’Ordine di Santa Caterina, e troppo spesso dimentichiamo l’aurea opportunità che ci è concessa di trarre vantaggio dalla loro saggezza e dai loro consigli. Quindi attenzione alle sacre raccomandazioni delle nostre amate suore, e concentriamoci sul significato del corpo mistico di Cristo.
I peccati del mondo sono tanti, ahimè, ma nessun peccatore è peggiore di colui che trascura lo studio della santa fede, e quando saremo chiamati a rendere conto delle offese di questa vita, speriamo di non essere incolpati per aver distolto lo sguardo dalle sacre verità della Santa Chiesa di Dio».
Centro.
Il tema mi avrebbe fruttato un 10 piú. Il fatto che non spiegasse cos’era il corpo mistico di Cristo non aveva importanza, e nemmeno che fosse imbottito di cose senza senso, perché c’erano tutte le frasi a effetto, assolutamente irresistibili per suor Mary Delphine: «Pieni di pentimento davanti a Dio Onnipotente – tremanti dalla paura – libracci – film osceni – le suore benedette dell’Ordine di Santa Caterina – le sacre verità della Santa Chiesa di Dio». Delphine sarebbe venuta nelle mutande.
Stavo studiando storia quando un cigolio di molle si diffuse dalla camera di Bettina. Nonna Bettina, acerrima nemica della società dell’energia elettrica, entrò in cucina con addosso la sua camicia da notte di flanella. Era una vecchia signora, minuta e fiera, con mani cosí scarnite che sembravano artigli, strette sulla pancia leggermente rigonfia. I suoi capelli erano bianchi come il lino, e la pelle delle tempie cosí pallida e trasparente che si poteva quasi guardarle dentro la testa. Parlava solo italiano, e faceva finta di non capire l’inglese ogni volta che l’argomento non le andava a genio.
Rimase ferma per circa dieci secondi, scuotendo la testa con un sorriso pieno di scoraggiamento.
– Eccolo seduto, – disse continuando ad annuire. – Il giovane americano brillante, il frutto di un ventre americano, l’orgoglio di quella sciocca di sua madre, la speranza della nuova generazione, eccolo lí, a consumare energia elettrica.
– Nonna, sto provando a studiare.
– E che studi, o saggio e intelligente nipote? È un libro che parla della fame e degli uomini che camminano per le strade in cerca di lavoro? È un libro che racconta di tuo padre che è disoccupato da sette mesi, o della promessa di ricchezza dell’America dorata, terra di uguaglianza e fratellanza, la bellissima America che puzza come una ferita marcia?
– C’è la depressione, – le risposi. – E oltretutto è inverno. Con questo tempo papà non può certo fare il suo lavoro.
Giunse le mani.
– Come sono intelligenti i giovani americani! – sospirò, agitand...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione di Vincenzo Cerami
  5. Storia di «1933. Un anno terribile» di Emanuele Trevi
  6. 1933. Un anno terribile
  7. Indice