
- 312 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La sottile linea scura
Informazioni su questo libro
Nell'afosa estate texana del 1958, il tredicenne Stanley Mitchell lavora nel drive-in del padre, e mette il naso in un segreto che doveva rimanere nascosto. E la «perdita dell'innocenza» di Stanley, in quell'estate in cui il mondo per lui cambia per sempre, coincide con il miracolo di una resurrezione davvero magica. In perfetta naturalezza, Lansdale ricrea le voci, il sapore, la vita, di un tempo scomparso del tutto, come non fosse mai esistito. «Qualunque cosa fosse, temevo che si sarebbe impadronita di me, trascinandomi al di là di quella sottile linea scura che fungeva da confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti»: la linea che segna per Stanley la scoperta del male, del dolore e della morte insieme con l'esplosione del sesso e la consapevolezza del conflitto razziale, diventa la parete trasparente da varcare per immergerci, stupiti e riconoscenti, in quegli anni Cinquanta lontani ormai come la preistoria.
La sottile linea scura rievoca le tensioni razziali all'interno delle piccole comunità del Texas orientale, in una sorta di guerra tra poveri che rischia, alla fine, di lasciare solo vinti e nessun vincitore.
La sottile linea scura rievoca le tensioni razziali all'interno delle piccole comunità del Texas orientale, in una sorta di guerra tra poveri che rischia, alla fine, di lasciare solo vinti e nessun vincitore.
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Informazioni
Parte terza
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Capitolo tredicesimo
Dopo una nottata piú o meno in bianco come quella, mi svegliai presto e andai subito a controllare che porte e finestre fossero ben chiuse. Niente indicava che qualcuno avesse tentato di forzarle.
Stavo controllando la porta scorrevole sul retro quando entrò mio padre, che si ravviava i capelli e si sfregava con l’avambraccio gli occhi ancora assonnati.
Si accorse di quel che facevo e mi scrutò per un istante.
– Siediti, figliolo, – disse.
Mi sedetti davanti a lui, dall’altra parte del tavolo. Quasi mi aspettavo che mi chiedesse dove ero stato la notte scorsa.
– Non fasciarti il capo con questa storia di Bubba Joe, – disse. – Non è in grado di farci niente. E io farò in modo che ci lasci in pace. Non mi sorprenderebbe, se la polizia l’avesse già pizzicato. Adesso mi prendo un caffè, faccio colazione e poi li chiamo. Se mi dai una mano, prepariamo la colazione anche per Mamma, Callie e Rosy Mae.
– Certo.
Nel frattempo, mi misi a ripensare agli avvenimenti della notte precedente. Forse Papà si sbagliava, a pensare che Bubba Joe non fosse in grado di farci del male. Un tipo del genere non ci metteva niente, a venirsene fino a casa nostra con un coltello in mano.
E poteva già esserci stato la notte scorsa, nei paraggi di casa, e averci poi seguito fino alla ferrovia. Ci pensai su, ma poi conclusi che non era molto probabile. Eravamo in bicicletta, e non gli sarebbe stato facile venirci dietro; magari, chissà , ci aveva pescato sulla strada della segheria. Forse era già in zona. Forse si nascondeva nella segheria, da quando aveva dato fuoco alla casa in cui viveva con Rosy Mae.
Oppure, non ci aveva affatto seguito. Forse era già dalle parti della ferrovia, quando eravamo arrivati noi. Vicino ai binari, il bosco era fitto, e pieno di eventuali nascondigli.
Comunque fosse andata, ero certo che lui sapeva benissimo chi eravamo, io e Callie, e che si fosse messo a inseguirci per prendersi una qualche vendetta su di noi, visto che avevamo dato ospitalità a Rosy.
E secondo Rosy si portava dietro un coltello o un rasoio. Non avevo motivo di dubitarne. Se ci avesse acchiappato, la notte scorsa… Be’, non mi andava di starci tanto a rimuginare.
Pensando e ripensando a tutto questo, tolsi il pane dal tostapane e lo cosparsi di burro e marmellata. A cuocere le salsicce e far bollire il caffè ci stava pensando mio padre.
– Va’ a svegliarle, di’ loro che la colazione è in tavola, – mi disse quando tutto fu pronto.
– Cerchiamo di goderceli, questi giorni d’estate, – proseguà poi, mentre uscivo. – Tra poco ricomincia la scuola, e non potremo piú prendercela cosà comoda, io e te. È bello, quando siamo tutti a casa assieme.
– Sissignore.
Feci per imboccare di nuovo la porta. – Figliolo, – continuò lui.
– Sissignore.
– Ti voglio bene.
– Anch’io, – gli dissi sorridendo, e andai a chiamare le ragazze.
Quel pomeriggio Buster non si fece vedere. Era un periodo che arrivava presto, ma alla sua solita ora di lui non c’era ancora traccia. E ancora niente, piú tardi, quando avrebbe dovuto già essere in servizio.
– Ma dove diavolo è finito, quel figlio d’un cane?
Eravamo in veranda, accanto al banco degli snack. – Mi ha detto che se oggi non si faceva vivo, è perché stava poco bene.
Papà mi scrutò con due occhi d’acciaio, e per un istante pensai «Adesso mi sgonfio». – Perché non me l’hai detto prima? – fece poi.
– M’è passato di mente. Mi ha detto che non si sentiva bene, che forse non sarebbe venuto. Io invece ho pensato che ce l’avrebbe fatta, e cosà me ne sono scordato.
– Ah, è cos�
– Sissignore… Ma posso cambiare io le bobine.
– Davvero?
– Buster mi ha insegnato come si fa.
– Bene. Molto bene. Va’ a metter su il film, figliolo. Stasera, il proiezionista lo fai tu.
Nell’avviarmi al gabbiotto, provai un certo sollievo. Chiaro, c’era anche un po’ di senso di colpa per aver mentito a favore di Buster, ma mi sembrava una bugia detta a fin di bene. Una bugia innocente, come la chiamava Mamma. Buster era amico mio, e si meritava il mio aiuto.
Quella sera proiettai un western con Randolph Scott, e andò tutto liscio, con soltanto un breve ritardo tra una bobina e l’altra, salutato con gran strombazzare di clacson e urla assortite, ma riuscii a sbrigarmela alla svelta, e al termine del film già mi sentivo un professionista. Papà venne persino a portarmi hamburger, Coca e patate fritte.
Sistemò il mio pasto sul tavolino accanto al proiettore. – Che ne diresti di prendere il posto di Buster? – mi chiese.
Tutta la mia baldanza svanÃ. Non mi sentivo mica piú tanto bene.
– Oh, no, Papà . Ho fatto casino, con quella bobina. Non è andata cosà liscia.
– Hai fatto un buon lavoro. Veloce quanto basta. Un po’ d’esercizio non ti farà che migliorare.
– Papà , non credo che sia il caso. È il lavoro di Buster.
– Tu e quel vecchio negro siete proprio diventati amici, eh?
– Sissignore.
– Stanley, questo lavoro puoi farlo benissimo tu. Se poi accetti, i soldi che ti pago restano in famiglia. E, a dirla tutta, posso permettermi di darti meno che a Buster. Fin quando non ti sarai fatto un po’ d’esperienza.
– Non lo voglio, il lavoro di Buster… Non mi va di fare una cosa del genere, Papà .
– Va bene. Rispetto la tua decisione. Ma una cosa te la devo dire. È solo questione di tempo. Buster sta diventando vecchio. Beve un bel po’. È sgarbato. Direi arrogante, se vuoi saperla tutta. E tu il proiettore lo sai già far funzionare.
– Mi ha insegnato lui. Non credo che l’abbia fatto per vedersi soffiare il posto.
– Alla prossima che mi combina senza avvertirmi prima, e avvertirmi non vuol certo dire lasciare una sorta di messaggio come ha fatto con te, il posto di proiezionista è tuo. Capito, figliolo? Dobbiamo lavorare assieme. Tutto in famiglia. Lo so che hai un buon rapporto con Buster, ma per prima cosa dobbiamo pensare a noi stessi. Se continuiamo cosÃ, va a finire che tutti i negri sfigati e affamati della città vorranno lavorare qui al drive-in. E non ce lo possiamo permettere.
Poi mi dette una pacca sulla testa e se ne andò.
Capitolo quattordicesimo
Il giorno dopo avrei voluto mettermi alla ricerca di Buster, ma Papà aveva una serie di compiti da farmi sbrigare. Passai la mattinata munito di bastone chiodato, a infilzare bicchieri di carta, involucri assortiti e preservativi.
Bubba Joe non mi era certo passato di mente ma, come succede ai ragazzi, non ci pensavo piú tanto, adesso che ero al sicuro, che era giorno e splendeva un bel sole.
A mezzogiorno fui messo in trappola dal pranzo di Rosy Mae. Cheeseburger che ti facevano venire da piangere, da quanto erano buoni.
Durante il pranzo, Callie rammentò a mio padre che ormai era stata scagionata da ogni colpa, che lui aveva preso a botte Chester, e che Chester era innocente.
– Be’, le botte le ha prese e se le tiene, – rispose Papà .
– Ma se non ha fatto nulla, – disse Callie.
– Vero, ma conosco il tipo. È solo questione di tempo. Stagli lontana.
– Notizie di Bubba Joe? – chiese Mamma.
– Non ancora. Piú tardi farò un salto alla polizia. Devo sbrigare qualche faccenda, giú in centro. Girano voci che qualcuno l’abbia visto, un paio di volte.
– E tu come lo sai? – fece Mamma.
– Perché tengo la situazione sotto controllo, cara mia. Non c’era alcun motivo di mettervi in ansia, a meno che la faccenda non prendesse una piega definitiva.
Callie ettò furtiva un’occhiata verso di me. Ci scambiammo uno sguardo.
Finii il mio cheeseburger, poi trovai una scusa per tagliare la corda. Nel vedermi filare verso la porta, Papà mi abbordò. – Hai raccolto ogni cosa?
– Sissignore.
– E dov’è che vai?
– Pensavo di mettermi a cercare Richard. Per andare a pesca, o roba del genere.
– Vedi di tornare in tempo per occuparti del proiettore, caso mai.
– Sissignore.
– Il tempo si mette all’acqua, Stanley, – disse Mamma. – Non star fuori troppo a lungo. Potrebbe scoppiare una burrasca e coglierti in pieno.
– Mi infilerò in un negozio, – risposi. – So badare a me stesso.
– Immagino di sÃ, – fece Mamma, ma non mi sembrava tanto convinta. – Lo so che sono sciocca, ma mi preoccupo anche per questa storia di Bubba Joe. Cerca di tenerti lontano dai posti che potrebbe bazzicare quel tipo.
– E quali sarebbero, Gal? – chiese mio padre.
– Piú o meno tutti, mi sa.
– Giusto, – disse Papà . – Forse dovresti restare a casa.
– Mica ce l’ha con me, – ribattei.
Callie mi lanciò un’occhiataccia. – Forse non dovresti uscire, – aggiunse.
– Sa essere veramente cattivo, – disse Rosy Mae.
– Mi porto dietro Nub.
– Sai che spavento, dieci chili di cane, – disse Mamma.
Guardai Nub, seduto sul pavimento. Ansava, mezzo addormentato. Non aveva chissà che aria minacciosa.
– Posso andare? – chiesi.
– Cavolo, – disse Papà . – Il ragazzo ha ragione. Ne stiamo facendo un mangiafuoco, di questo Bubba Joe. Figuratevi se si mette a dar fastidio ai bianchi. Volete scommettere? Sta’ attento, figliolo. E torna presto. Nub, fa’ buona guardia.
Nub sbatté la coda per terra e corse da Papà per leccargli la mano. Lui gli fece una coccola. Richiamai il mio cane e assieme uscimmo di casa.
Ci avevo pensato ben bene, alla faccenda di Bubba Joe, e immaginatevi se mio padre avesse saputo quel che era successo la notte prima. Col piffero che mi avrebbe lasciato uscire.
Stando cosà le cose, Papà pensava che si trattasse solo di una questione tra gente di colore, e che quella volta Bubba Joe stesse solo cercando di mettere paura a Mamma e a Callie, visto che se l’era ritrovate cosà a portata di mano. Secondo me, Papà era convinto che essendo bianchi potessimo vantare una sorta di immunità , fin quando ce ne fossimo rimasti tra la nostra gente.
Ma io la sapevo piú lunga. Sapevo anche che, se quel che pensava mio padre era vero, io stavo proprio per uscirmene dalla cerchia della cosiddetta nostra gente. Tuttavia dovevo vedere Buster.
L’idea era di prendere la bicicletta, ma non appena vi salii sopra le saltò via la catena, e non fui in grado di rimetterla a posto. Mi venne in mente che forse era il caso di restare a dare una mano a Papà , ma decisi di no. Non volevo perdere altro tempo, né volevo che mio padre cominciasse a farmi troppe domande, o magari mi trovasse qualcosa da fare, o decidesse che forse non era il caso che me ne andassi in giro. Mi avviai a piedi verso il centro, con Nub che mi trotterellava a fianco.
Quando arrivai in città , il cielo si era oscurato, e avevo la sgradevole sensazione di essere seguito. All’incirca come la notte prima, quando era saltato fuori Bubba Joe. Insomma, lui o chiunque fosse. In quel momento provavo proprio la stessa identica sensazione, ma quando mi voltai non c’era nessuno. Nient’altro che la Main Street, con i suoi palazzi e un sacco di macchine posteggiate lungo il marciapiede.
Inspirai a fondo e ripresi la marcia. Il cielo si faceva sempre piú scuro, e mi metteva i brividi. Pensai di tornare indietro, ma non ne feci niente. Nub sembrava non essersi accorto del cambiamento di tempo, o quantomeno non gli importava. Era tutto contento, neanche avesse un osso in bocca. Ma mi ero accorto che di tanto in tanto si fermava e si voltava a guardarsi alle spalle, come se anche lui pensasse a un pedinamento.
Mica tanto rassicurante, la cosa.
Mentre svoltavo in Oak Street attaccò a piovigginare. Affrettai il passo verso la casa di Buster. La sensazione di essere seguiti cresceva. Ma quando mi girai vidi solo le massicce querce sui due lati della strada, e il vento che spazzava via le foglie e le faceva volare in aria, e due vecchie auto sferraglianti, con dei tizi di colore al volante.
Passai davanti ai tipi in veranda. Tutti quanti mi fecero un cenno di saluto, senza starmi a infastidire con i loro commenti. Anzi, a dir la verità , avevano un’aria cordiale. «Forse», pensai, «i lazzi dell’altro giorno erano indirizzati soprattutto a Buster».
Continuammo il cammino fino al grosso cartellone pubblicitario che pendeva sopra la casa di Buster. Il gran sorriso della donna era fradicio di pioggia, e si stava scrostando come se la ragione della sua felicità non fosse altro che una gran frottola. Salii sulla veranda di Buster e bussai.
Nessuna risposta.
Facemmo il giro della casa, io e Nub, e cercai di guardare in casa dalla finestra sul retro. Non vidi nessuno. Riuscivo a scorgere soltanto il tavolo con gli scatoloni dei giornali.
Tornammo sul davanti, bussai di nuovo. Ancora nessuna risposta.
Provai a chiamare Buster a voce alta, piú volte, ma con la stessa mancanza di risultati.
Afferrai il pomello della porta, lo girai, scoprii che non era chiusa a chiave.
Dissi a Nub di restarsene lÃ, e sgusciai all’interno.
Fatta salva la luce che filtrava dalla finestra sul retro e cadeva a formare un rettangolo oltre il tavolo, mettendo in evidenza i granelli di polvere che simili a moscerini fluttuavano al suo interno, la casa era al buio.
Provai ancora a chiamare Buster, poi iniziai la caccia. Non c’erano molti posti in cui guardare, e lo scovai sul lettuccio addossato al muro.
Era sdraiato con una mano dietro la testa, e l’altra posata sui fianchi a palmo in su. Lo toccai, lo chiamai per nome, ma non si mosse. Cercai di capire se russava, ma non mi parve. E nemmeno lo sentivo respirare. Percepii un odore sgradevole. Pensai al peggio.
Di colpo mandò un grugnito, e attaccò a russare. Era da là che proveniva gran parte di quel fetore, e malgrado la mia scarsa esperienza nel ramo, ne capii subito l’origine.
Alcol, roba ad alta gradazione.
Buster era ubriaco fradicio.
Gli detti qualche bella scrollata...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Parte prima Il Dew Drop Drive-in e il chioschetto, 1958
- Parte seconda Buster Abbot Lighthorse Smith
- Parte terza Click, click, click
- Indice