Due anni senza gloria
eBook - ePub

Due anni senza gloria

1943-1945

  1. 104 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Due anni senza gloria

1943-1945

Informazioni su questo libro

«Di tutti i ricordi, le memorie, le rievocazioni che ho letto sulla guerra civile, questa per me è senza alcun dubbio la piú commovente, la piú saggia, la piú bella. Sono pagine di una verità immediata e insieme meditata, di convulsa cronistoria e di pacificato, anche ironico, distacco. Un capolavoro».
Carlo Fruttero, Mutandine di chiffon *** «Una vicenda intima che, pure, appartiene a molti. Anche oggi. Anche a distanza di sessantacinque anni. La forza del racconto è nel tono confidenziale, nella serenità della voce. «Quello che vivi appartiene alla verità politica, ma il modo in cui lo vivi appartiene alla verità umana. QUando viene chiamato in causa il senso dell'onore, devi comportarti da uomo d'onore. Se sei dalla parte sbagliata, sei dalla parte sbagliata, ma il comportamento deve rimanere onorevole». Libro di un giovane, che ha aspettato di avere 85 anni per scriverlo: e così ha scritto una storia con cui è rimasto in compagnia per tutta la vita. Sul modo di essere italiani, ieri come oggi».
Gian Luca Favetto - il venerdì di Repubblica

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
Print ISBN
9788806207717
eBook ISBN
9788858404706

Seconda parte

1944

Una Scuola allievi ufficiali non è propriamente un rifugio per imboscati, è una rotella importante nella macchina della guerra. Ma è pur sempre una scuola, un periodo di preparazione e di attesa piú complesso e piú lungo di un semplice addestramento. Questo, ai miei occhi, rendeva meno drastica la mia scelta, e mi consentiva di restare per un certo tempo in una specie di limbo. D’altra parte, la vita militare è una specie di limbo. Anche quando è molto attiva, soprattutto fisicamente, ha in sé una vena di ozio, di fatalismo, di dissipazione. Nella vita militare di guarnigione o di caserma c’è una mancanza di scopo immediato che induce alla fantasticheria, all’evasione. Che cosa passa per la mente del soldato durante una marcia di cinque o sei ore? Ricordi, speranze, sogni. E in questo limbo il contesto tende a sbiadire, il tempo è come se fosse sospeso. Debbo confessare che questa condizione si accorda molto con la mia natura, e quindi mi è rimasto un ricordo non sgradevole della vita militare.
Dopo qualche mese di addestramento a Orvieto fummo trasferiti all’Accademia militare di Modena, e qui trovai nuovi motivi di interesse nelle materie di studio. In realtà, ero sempre stato curioso (lo sono ancora) della tecnica e dell’arte della guerra. Da un punto di vista antropologico la guerra, nella lunga storia dell’umanità, ha un’importanza enorme, forse paragonabile solo a quella della religione. Io non sono un fautore né dell’una né dell’altra, ma credo che per capire la natura degli uomini e la storia bisogna avere una comprensione non superficiale di queste due condizioni umane. E poi, sia nell’una che nell’altra c’è un senso della fatalità, del destino, che ritrovo anche in me stesso. Insomma, feci il mio corso con impegno, cercando di diventare un buon ufficiale indipendentemente dal fatto di appartenere a questo o a quell’esercito. Tenni, cioè, separato l’aspetto tecnico da quello politico, come potrebbe fare un mercenario. Ma ero un mercenario a basso prezzo, se teniamo per buono il paragone, e non posso certo dire che mi trovassi a mio agio con quella divisa addosso.
Nel frattempo la situazione politica si andava deteriorando, Mussolini appariva sempre piú chiaramente manovrato dai tedeschi, le notizie che filtravano sul movimento partigiano indicavano un fenomeno in crescita e di rilevanti dimensioni: cosí, oltre ai danni dell’occupazione tedesca e della guerra al fronte, si stavano creando tutti i presupposti di una guerra civile. La prima volta che dovetti constatarlo personalmente fu a Modena, durante il corso. Un giorno arrivò l’ordine di andare in una frazione di campagna, nei dintorni, e di perquisire certe case di contadini sospettati di nascondere delle armi. Questo non era un compito per allievi ufficiali, e non era – per cosí dire – nei patti che avevamo sottoscritto arruolandoci. Ma come far valere quei patti? Avrei dovuto mettermi a rapporto, discuterne con i miei superiori, e possibimente non essere il solo a farlo. Per il momento, quindi, adottai un compromesso, cioè quello di non sollevare la questione, ma anche di non aprire nessun cassetto, e non fare nessuna perquisizione.
In quelle case non trovammo uomini, c’erano solo le donne a presidiare le loro abitazioni, e non saprei dire se avessero un’aria piú offesa o spaventata. Tenevano la bocca chiusa e ci guardavano. Ci dividemmo i compiti, io entrai da solo in una camera da letto, e poi, chiusa la porta, rassicurai le due donne che mi avevano seguito. – Non ho intenzione di mettervi la stanza in disordine, – dissi. Accesi una sigaretta, e dopo averla fumata a metà uscii dichiarando che non avevo trovato nulla. Non so come si siano comportati i miei compagni, ma se ricordo bene non trovarono nulla nemmeno loro. Rientrammo in caserma.
Questo piccolo episodio, che avvenne nella primavera del ’44, mi diede lo spunto per parecchie riflessioni. Ne parlai con i miei compagni, e soprattutto con uno di loro, un ragazzo dell’Abetone che si chiamava Alvaro – purtroppo non ricordo il suo cognome. Era un ragazzo simpatico, leale, e diventammo amici. Anche lui, come me, si trovava a disagio con quella divisa addosso. Anche lui, come me, capiva che era quasi impossibile chiamarsi fuori da una guerra civile, quando questa si fosse scatenata. Fin dall’inizio, arruolandoci, avevamo affermato il principio di voler appartenere a un corpo combattente, non a una milizia politica, ma parlandone con Alvaro ci confessammo che questa era una mezza verità; certo, era l’unica posizione sostenibile di fronte ai nostri superiori, ma in realtà era una copertura che nascondeva una riluttanza, una mancanza di adesione ben piú profonda. Ero scontento e inquieto. La mia solidarietà, quella del cuore, andava tutta alla popolazione civile, alla nostra povera gente straziata dalla guerra: quella era la mia patria, la mia divisa, la mia parte, ma non vedevo il modo di mettermi al suo servizio.
Intanto il corso proseguiva secondo il programma, disturbato soltanto dai continui allarmi aerei che ci costringevano, anche di notte, a rivestirci completamente, indossare le buffetterie, prendere le armi e lasciare l’Accademia a passo di marcia per andare nei dintorni, in qualche posto ritenuto piú sicuro. In caserma restavano solo i piantoni, uno per camerata, con la baionetta al fianco e con il compito di custodire il materiale di casermaggio e quello personale dei compagni. Una notte, forse a metà, forse alla fine di maggio, suonarono ancora una volta le sirene dell’allarme e mi colsero in un momento di saturazione: non ne potevo piú di quell’andare e venire, di tutte quelle notti senza sonno. Chiesi al piantone di turno se voleva essere sostituito, e lui accettò. Mi vestii, mi allacciai il cinturone con la baionetta, e quando i miei compagni furono usciti mi sedetti su uno sgabello, soddisfatto di aver evitato l’umidità della notte e il fastidio della marcia. Dopo un po’ sentii il rombo dei bombardieri alleati, gli spari della contraerea, gli scoppi delle bombe ancora a una certa distanza. Poi ci fu una seconda ondata, il rumore si fece piú assordante e gli scoppi piú vicini. «Questa volta li abbiamo addosso», pensai, e subito dopo sentii un fischio lacerante, il caratteristico fischio di una bomba d’aereoplano che ti arriva sulla testa. «Eccola », pensai, e feci per alzarmi dallo sgabello. Ma avevo ancora le ginocchia piegate, non ero ancora ben dritto in piedi, quando lo sgabello mi partí di sotto risucchiato dallo spostamento d’aria, ci fu un enorme boato, e una nuvola di polvere investí la camerata in cui mi trovavo.
La bomba era scoppiata a pochi metri di distanza da me, subito dietro la parete della camerata, in uno stretto cavedio all’interno del quale correva un terrazzino. Quando attraverso uno squarcio nella parete mi affacciai tutto sporco di calcinacci e di polvere nel cavedio, vidi la ringhiera del terrazzino strappata e contorta che imprigionava contro il muro i cadaveri di due ragazzi, due miei compagni che, probabilmente, si erano nascosti lí per non uscire con gli altri o per chissà quale ragione. Non ricordo quante bombe colpirono l’Accademia. Non ricordo nemmeno cosa successe ancora quella notte, dove e quando ci radunammo, come e quando arrivò la notizia che anche i nostri compagni usciti fuori città erano stati bombardati mentre si trovavano a ridosso di alcune case di campagna, e avevano avuto gravi perdite. Ricordo solo che per uno o due giorni andammo a recuperare prima i feriti rimasti sepolti, poi i morti, e che insieme ai loro corpi tirammo fuori quelli dei contadini che abitavano lí. Di quella strage e delle case distrutte ho conservato pochissime immagini, che nella memoria hanno assunto una sorta di fissità fotografica. L’immagine piú persistente è quella di un bambino piccolo – un corpicino lungo meno di un metro – che tirai fuori da un pozzo per raccogliere il liquame, alla base di un letamaio. La sua costituzione minuta e la rigidità della morte lo facevano assomigliare a un pupazzetto di legno. Lo tirai fuori per uno dei suoi magri braccini, e uscí gocciolante ma senza flettersi, come se fosse stampato. Lo posai lí per terra e qualcun altro lo portò via.
Il bombardamento di Modena rese l’Accademia inagibile: per completare il corso occorreva trovare un’altra sede. Come primo provvedimento il comando decise di anticipare di un mese il campo estivo, che normalmente si faceva a luglio. Cosí, se ricordo bene, ai primi di giugno lasciammo la città. Gli addii non furono molti né complicati: la maggioranza di noi non aveva parenti né conoscenti a Modena. Alcuni andarono a salutare le ragazze del bordello situato in posizione strategica a poca distanza dall’Accademia.
In effetti era cosí vicino che dalle sue stanze si sentivano i segnali di tromba. Quando alla sera il trombettiere suonava la libera uscita, le ragazze si preparavano a ricevere gli allievi e dicevano, ripetendo una vecchia formula che si tramandava di quindicina in quindicina: «Arrivano i pompieri», con allusione fin troppo scoperta alle urgenze fisiologiche di quei giovanotti tirati a lucido e ben nutriti.
Il campo estivo era stato fissato nei dintorni di Velo d’Àstico, in provincia di Vicenza. Anzi, direi quasi sul greto del torrente Àstico, che in quel tratto ha un letto molto largo, adagiato in una valle molto aperta. C’era quindi tutto lo spazio necessario per ospitare il battaglione degli allievi nelle loro tende, le baracche degli ufficiali, le cucine da campo e tutto il resto. Mi pare che fossimo in sei per ogni tenda, ma in ogni caso c’era il mio amico Alvaro insieme a me. Non saprei ricostruire in nessun modo i nostri discorsi di allora, ma dovevamo esserci spinti molto avanti nel rivedere le nostre idee perché fu proprio al campo che maturammo il progetto di disertare e di raggiungere i partigiani in montagna. Era una decisione impegnativa e avventurosa, e per tutti e due era piú facile prenderla insieme, perché avevamo fiducia l’uno nell’altro. Ma io avevo una ragione in piú per contare su Alvaro, perché sapevo che lui, a differenza di me, poteva entrare facilmente in contatto col movimento partigiano che dalle sue parti, all’Abetone, doveva essere abbastanza forte e dove molto probabilmente avrebbe trovato degli amici.
In quel mese di giugno successero molte cose. Il 4 gli Alleati, che verso la metà di maggio avevano sfondato il fronte tedesco a Cassino, entrarono a Roma. Sui grandi fronti di guerra, l’Armata rossa proseguiva di offensiva in offensiva la riconquista del territorio sovietico e l’avanzata verso la Polonia, mentre gli Alleati, il 6 giugno, sbarcavano con grandi forze in Normandia. Questi eventi d’importanza storica condizionavano, direttamente o per riflesso, la vita delle singole persone, le piccole storie di ognuno. Della mia famiglia nessuno era rimasto a Roma. Verso la fine del ’43 mia madre si era trasferita a Massa, in casa dei suoi vecchi genitori, con mia sorella Magda e mio fratello Iacopo. Alfredo, ansioso di combattere, non era andato con loro, ma si era arruolato per fare il mio stesso corso. La sua avventura militare durò poco: ancora in fase di addestramento prese una brutta pleurite, fu mandato prima all’ospedale, poi in convalescenza, e alla fine tutti, a cominciare da un paterno medico militare, fecero in modo che venisse congedato. Ancora oggi, ricordando questa e altre spericolate vicende di quell’epoca, mio fratello ama dire: «Non so perché, tutti volevano salvarmi la vita». Sta di fatto che ci riuscirono.
La zia Elisa e le sue figlie avevano lasciato Casal Romito e si erano trasferite in una villa altrettanto isolata e romita, fra Brescia e Iseo, che lo zio Osvaldo aveva preso in affitto. Il paese piú vicino si chiamava Monterotondo, e la villa era situata in cima a un poggio boscoso. Come già a Casal Romito, anche qui lo zio Osvaldo si faceva portare da un’auto blu fino alla base del poggio, e poi si addentrava da solo nel bosco e saliva ansimando fino a casa. La morte di Paolo era stata per loro, e soprattutto per lui, un colpo durissimo: quando lo rividi mi colpí il suo silenzio, e la sua commovente tenerezza.
Sui nostri familiari piú lontani le notizie o mancavano o erano del tutto occasionali. Piú o meno in quel periodo, per esempio, arrivò a Massa via mare una lettera dello zio Onorato da Taranto, recapitata dagli uomini di un pesc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prima parte - 1943
  5. Seconda parte - 1944
  6. Terza parte - 1945
  7. Epilogo
  8. Una storia di tutti di Goffredo Fofi