Il percorso dell'amore
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Il percorso dell'amore

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Pieno di trabocchetti e inganni della memoria è il «percorso dell'amore»: nel primo racconto di questa raccolta di Alice Munro, una donna divorziata torna a visitare la casa che fu dei genitori; le si presenta il vivido ricordo di un tentativo di suicidio di sua madre, e quello altrettanto nitido di una scena in cucina: sua madre che brucia una quantità di soldi nella stufa sotto lo sguardo accondiscendente del padre... forse ricordi veri, forse scene immaginate, che la conducono però alla scoperta, molto reale, del legame profondo che univa i genitori. Pieno di trabocchetti e inganni è anche, di solito, il percorso della scrittura di Alice Munro, famosa per le improvvise svolte che riesce a impartire alle storie che racconta. Quella che inizia come una descrizione, o rievocazione, di una tranquilla scena familiare, prende poi la piega inaspettata del dramma, della tragedia: a volte rimossa, riposta in un angolo della memoria, altre volte ossessivamente presente a impedire ogni percorso di vita.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806186432

Una vena di follia

1. Lettere anonime.

La madre di Violet – zia Ivie – aveva avuto tre bambini, tre maschietti, e li aveva persi. Poi ebbe le tre bambine. Forse per consolarsi della sventura che aveva subíto, in un angolo remoto del distretto di South Sherbrooke – o forse per rimediare anzitempo alla mancanza di istinto materno – diede alle bambine i nomi piú bizzarri che le vennero in mente: Opal Violet, Dawn Rose e Bonnie Hope. Poteva darsi che considerasse quei nomi nient’altro che ornamenti temporanei. Violet si chiedeva: sua madre aveva mai pensato che sessanta o settant’anni dopo le sue figlie, ormai pesanti e avvizzite, avrebbero dovuto ancora trascinarseli dietro? Forse credeva che anche loro sarebbero morte di lí a poco.
«Perso» voleva dire morto. «Li aveva persi» voleva dire che erano morti. Violet lo sapeva. E tuttavia fantasticava. Zia Ivie – sua madre – vagava fino a un campo paludoso, che era il terreno incolto sul lato opposto del granaio, un luogo crepuscolare pieno di erba ruvida e macchie di ontano. Lí zia Ivie, immersa nella luce tetra, smarriva i suoi piccoli. Violet scivolava lungo il margine dell’aia fino al terreno incolto, poi vi entrava guardinga. Si nascondeva dietro l’ontano rosso e altri cespugli spinosi senza nome (sembrava che tutto questo accadesse sempre in un periodo dell’anno umido e desolato – autunno inoltrato o inizio primavera), e lasciava che l’acqua fredda le coprisse la punta degli stivali di gomma. Meditava di perdersi. Bambini persi. L’acqua sgorgava a fiotti tra i ciuffi d’erba dura. Piú in là c’erano pozze e doline. Era stata avvertita. Si trascinava avanti, guardando l’acqua salire lentamente lungo gli stivali. Non lo diceva mai. Non sapevano mai dove fosse andata. Persa.
Il salotto era l’altro posto in cui poteva sgattaiolare da sola. Le persiane erano sempre abbassate fino al davanzale; l’aria aveva peso e spessore, come se fosse tagliata in un blocco che riempiva esattamente la stanza. In alcuni punti precisi si trovavano la conchiglia vuota e acuminata con il rombo del mare intrappolato all’interno; la statuetta dello scozzese in kilt con in mano un bicchiere di liquido ambrato che s’inclinava ma non si rovesciava mai; un ventaglio fatto interamente di lucide piume nere; un piatto, souvenir delle cascate del Niagara, con sopra un’immagine identica a quella della confezione di Shredded Wheat. E alla parete un quadro incorniciato, che provocava a Violet un tale turbamento da non riuscire a guardarlo appena entrata nella stanza. Doveva avvicinarcisi piano piano, tenendolo sempre in un angolo del campo visivo. Il quadro ritraeva un re con la corona e tre donne alte, di aspetto regale, in abito scuro. Il re era addormentato, o morto. Si trovavano in riva al mare, davanti a una barca in attesa, e da quel quadro scaturiva qualcosa che si diffondeva nella stanza – una liscia, scura ondata di dolorosa e insopportabile dolcezza. Quell’immagine le sembrava una promessa; era collegata con il suo futuro, con la sua vita, in un modo che non riusciva a spiegare o raffigurarsi. Non riusciva nemmeno a guardarla, se c’era qualcun altro nella stanza. Ma in quella stanza c’era raramente qualcun altro.
Il padre di Violet si chiamava King Billy, King Billy Thoms, anche se il suo nome non comprendeva alcun William da cui abbreviare. C’era anche un cavallo di nome King Billy, il ronzino pomellato che, attaccato alla slitta in inverno e al calesse in estate, fungeva da traino. (In quel luogo non sarebbe arrivata un’auto fino agli anni Trenta, quando Violet, ormai adulta, ne acquistò una).
Il nome King Billy veniva solitamente associato alla parata del dodici luglio, l’Orange Walk. Un uomo scelto per impersonare King Billy, con indosso una corona di cartone e un lacero mantello color porpora, cavalcava in testa al corteo. Il cavallo avrebbe dovuto essere bianco, ma a volte un grigio pomellato era quanto di meglio si riuscisse a trovare. Violet non scoprí mai se il cavallo, o suo padre, o entrambi, avessero partecipato qualche volta alla parata, insieme o separatamente. Il mondo che lei conosceva era pieno di confusione, e il piú delle volte gli adulti non volevano sentir parlare di rimetterlo a posto.
Ma una cosa la sapeva di sicuro, ed era che suo padre, a un certo punto della vita, aveva lavorato su un treno che attraversava le zone selvagge del Nord, dove vivevano gli orsi. I taglialegna prendevano quel treno nei fine settimana per uscire dalle foreste e andare a ubriacarsi, e se sulla via del ritorno diventavano troppo turbolenti, King Billy fermava il treno e li sbatteva giú a calci. Non importava dove si trovassero in quel momento. In mezzo a una regione selvaggia? Poco male. King Billy li sbatteva giú a calci. Era un lottatore. Aveva ottenuto quel lavoro perché era un lottatore.
Un’altra storia, da un periodo ancora piú lontano del passato. Una volta, quando era ragazzo, King Billy era andato a una festa su alla Snow Road, il suo luogo d’origine. Altri giovani che erano lí l’avevano insultato, e lui aveva dovuto ingoiare gli insulti perché non sapeva un’acca di combattimenti. Ma dopo quell’episodio aveva preso qualche lezione da un vecchio pugile professionista, uno vero, che viveva a Sharbot Lake. Un’altra sera, un’altra festa: di nuovo la stessa storia. Gli stessi insulti. Solo che stavolta King Billy gli diede addosso e li sbaragliò tutti, uno dopo l’altro.
Gli diede addosso e li sbaragliò tutti, uno dopo l’altro.
Mai piú insulti del genere, lassú in quella regione.
Mai piú.
(Gli insulti c’entravano con la parola bastardo. Lui non lo disse mai, ma Violet lo intuí dai borbottii della madre. «Tuo padre non aveva nessun parente, – diceva zia Ivie, con quel suo tono cupo, perplesso, riluttante. – Fin da quando è nato. Non ha mai avuto nessun parente»).
Violet aveva cinque anni piú di Dawn Rose e sei piú di Bonnie Hope. Quelle due si davano manforte a vicenda, ma tutto sommato erano docili. Avevano i capelli rossi come King Billy. Dawn Rose era paffuta e rubiconda, con la faccia larga. Bonnie Hope aveva le ossa piccole e una testa grande su cui da principio i capelli erano cresciuti a ciuffi e chiazze, facendola sembrare un uccellino barcollante. Violet aveva i capelli scuri, era alta per la sua età e forte come la madre. Aveva un viso lungo e bello, e occhi blu che a prima vista sembravano neri. Piú tardi, quando s’innamorò di lei, Trevor Auston disse alcune cose carine sul fatto che avesse il colore degli occhi intonato al nome.
La madre di Violet, non meno del padre, aveva un nome strano, visto che veniva chiamata quasi sempre zia Ivie, anche dalle sue stesse figlie. Questo perché era la piú giovane di una famiglia numerosa. Lei di parenti ne aveva un mucchio, anche se non venivano spesso a trovarla. Tutte le cose antiche o preziose della casa – gli oggetti del salotto, e un certo baule dal coperchio bombato, e alcuni cucchiai ossidati – venivano dalla famiglia di zia Ivie, che possedeva una fattoria sulle rive del White Lake. Zia Ivie era rimasta laggiú cosí a lungo, prima di sposarsi, che il nome con cui la chiamavano nipoti e nipotine venne adottato da tutti, e anche le sue figlie lo preferirono a mamma.
Nessuno credeva che si sarebbe sposata. Lo diceva anche lei. E quando invece sposò il baldanzoso ometto dai capelli rossi che sembrava cosí strano al suo fianco, la gente disse che aveva l’aria di non sopportare molto bene il cambiamento. Perse quei primi bambini, e non prese troppo allegramente la responsabilità di mandare avanti una casa. Le piaceva lavorare all’esterno, zappando l’orto o spaccando la legna, come aveva sempre fatto a casa sua. Mungeva le vacche e puliva la stalla e badava alle galline. Toccò a Violet, man mano che cresceva, sobbarcarsi le faccende di casa.
All’età di dieci anni, Violet già mostrava sporadicamente il piglio dittatoriale dei maniaci dell’ordine e della pulizia. Passava il sabato a strofinare e lucidare, poi strillava e si buttava sul divano e digrignava i denti per la rabbia quando gli altri entravano in casa lasciando impronte di fango e letame.
– Quella bambina crescerà e si ritroverà con tanti monconi al posto dei denti, e se lo sarà meritato, con quel caratteraccio, – disse zia Ivie, come se stesse parlando della figlia di un vicino. Di solito zia Ivie era quella che portava dentro il fango e rovinava il pavimento.
Altri sabati poteva trascorrerli a cuocere torte o escogitare ricette. Per tutta un’estate, Violet cercò di inventare una bibita come la Coca-Cola, che sarebbe stata famosa e squisita e li avrebbe resi ricchi. Sperimentò su di sé e sulle sorelle ogni possibile combinazione di bacche spremute, vaniglia, estratti di frutta imbottigliati e spezie. Ogni tanto correvano tutte a vomitare nell’erba alta del frutteto. Di solito le piú piccole obbedivano agli ordini di Violet, e credevano a quel che diceva. Un giorno arrivò il garzone del macellaio per comprare i vitelli, e Violet disse a Dawn Rose e Bonnie Hope che a volte il garzone non era soddisfatto della carne dei vitelli e dava la caccia a bambini succulenti per tramutarli in bistecche, braciole e salsicce. Lo disse di punto in bianco e per puro divertimento, o almeno cosí ricordò in seguito, quando cominciò a trasformare le cose in storie. Le bambine cercarono di nascondersi nel fienile, ma King Billy sentí il trambusto e le cacciò fuori. Loro gli riferirono cosa aveva detto Violet, e King Billy replicò che si sarebbero meritate qualche ceffone per aver bevuto una simile frottola. Di sé disse di essere un uomo con una mula per moglie e una figlia delinquente a mandare avanti la casa. Dawn Rose e Bonnie Hope corsero ad affrontare Violet.
– Bugiarda! I macellai non fanno a pezzi i bambini. Hai detto una bugia, bugiarda!
Violet, che in quel momento stava pulendo la stufa, non disse nulla. Raccolse una padellata di cenere – calda, ma per fortuna non bollente – e la rovesciò in testa alle sorelle, le quali capirono che era meglio tacere. Corsero fuori, si rotolarono nell’erba e si scrollarono come cani, cercando di togliersi la cenere dai capelli, dalle orecchie, dagli occhi e dalla biancheria. Costruirono una casa-giocattolo in un angolo del frutteto, con mucchi d’erba per sedersi e pezzi di porcellana rotta al posto dei piatti. Giurarono di non dirlo a Violet.
Ma non riuscivano a stare lontane da lei. Violet arricciava loro i capelli con strisce di stoffa; le vestiva con abiti ricavati da vecchie tende; le imbellettava con misture di succo di bacche, farina e lucido per la stufa. Scoprí la casa-giocattolo ed ebbe idee d’arredamento migliori delle loro. Anche nei giorni in cui non aveva tempo per intrattenerle, non potevano fare a meno di guardarla lavorare.
Ora dipingeva un motivo di rose rosse sul logoro linoleum nero della cucina.
Ora intagliava un orlo smerlato per rendere piú eleganti le vecchie persiane verdi.
Sembrava che in quella casa la normale vita famigliare si fosse ribaltata. Di solito, avvicinandosi alle altre fattorie, si scorgevano prima di tutto i bambini – bambini che giocavano o sbrigavano qualche faccenda. La madre era nascosta in casa. Qui invece compariva per prima zia Ivie, intenta a rincalzare le patate o anche solo a gironzolare per il cortile e il recinto dei polli, con un paio di stivali di gomma e un cappello di feltro da uomo e una squallida combinazione di maglione, gonna, sottoveste penzolante, grembiule e un paio di calze grinzose e macchiate. Era Violet a governare la casa, Violet a decidere se e quando distribuire le fette di pane imburrato e lo sciroppo di mais. Era come se King Billy e zia Ivie non avessero ben capito come si metteva in piedi una vita normale, malgrado ci avessero provato.
Ma la famiglia tirava avanti. Mungevano le vacche e vendevano il latte al caseificio e allevavano i vitelli per il macellaio e tagliavano il fieno. Erano membri della Chiesa Anglicana, anche se non andavano spesso alle funzioni perché non riuscivano a convincere zia Ivie a darsi una ripulita. Piú spesso partecipavano ai tornei di carte nell’edificio della scuola. Zia Ivie sapeva giocare a carte, e per farlo si toglieva grembiule e cappello, anche se rifiutava di cambiarsi gli stivali. King Billy aveva fama di essere un bravo cantante, e dopo la partita tutti cercavano di convincerlo a intrattenerli. Gli piaceva cantare le canzoni non scritte che aveva imparato dai taglialegna. Cantava deciso, con i pugni serrati e gli occhi chiusi:
Sulla Opeongo Line guidavo i miei d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il percorso dell’amore
  4. Il percorso dell’amore
  5. Lichene
  6. Monsieur les Deux Chapeaux
  7. Miles City, Montana
  8. Raptus
  9. La luna nella pista di pattinaggio
  10. Jesse e Meribeth
  11. Esquimese
  12. Una vena di follia
  13. La Catena di Preghiera
  14. Mucchio Bianco
  15. Dello stesso autore
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Copyright