Sonetàula
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Sonetàula

  1. 158 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Sonetàula

Informazioni su questo libro

Un bambino pastore sui monti di Sardegna, il padre amato lontano e perduto, tradito da una falsa lettera d'accusa. Il ragazzo sa e cresce, educato dal nonno all'osservanza di un codice primitivo. In un giro di vite implacabile, quel codice lo porta a scegliere di essere bandito.
Un ritmo che mozza il respiro, un romanzo secco e nervoso che è insieme azione, western, struggente storia d'amore. Con la Sardegna bella com'era, intatta e scabra, tra nebbie e squarci altissimi di azzurro, mentre sopra suoni di greggi e raffiche di mitra trascorrono gli elicotteri dell'antimalaria, e sui casolari e i paesi del dopoguerra si accende il miracolo dell'energia elettrica.
Ciò che Fiori racconta, dietro le scene indimenticabili di vita da bandito, è anche la tragedia di un ragazzo qualunque e della sua energia vitale volta al bene e sprecata, distrutta: e proprio la scrittura è la cifra, ambigua e chiarissima, di questo dramma.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806190620
eBook ISBN
9788858403662
Primo Tempo
1937-1941

Capitolo primo

Ci fu un lampo, veniva ora dall’incannicciata rumore di tegole infrante. Scalzo com’era abituato ad essere, Sonetàula uscí in fretta, puntando alla casa del medico.
Pioveva con vento, ed era buio. E a momenti, nelle viuzze piú in discesa, bisognava tenersi ai muri, per vincere l’impeto delle acque in corsa sopra un fondo di selci lisce, sdrucciolevoli. Fatto un lungo inutile giro da casa del dottor Murtas all’ambulatorio e da lí al fascio e in parrocchia, Sonetàula trovò infine chi cercava nella bottega di Anania Medas, seduto davanti a una mensola ad aspettare, leggendo, la fine del diluvio.
«Che c’è?», chiese il medico.
Ancora trafelato, Sonetàula stette un poco senza parlare. L’acqua presa in cammino gli colava dai calcagni giú sul pavimento di terra battuta come da una bocca di grondaia. «Tia Antonia... – disse quindi, e sempre aveva il respiro svelto, – tia Antonia sembra morta... l’hanno spinta le acque... è scivolata picchiando forte la faccia su una pietra a punta...»
«Antonia chi?», chiese con calma il medico.
«La moglie di tiu Luigi Irde...»
A quel nome il maresciallo trattenne lontano dal viso insaponato la mano con il rasoio di Anania Medas e facendo roteare la poltroncina girevole: «Ti ha mandato lui?», chiese.
Sonetàula mosse piano la testa, per dire no.
«Ma sta in paese?»
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Di nuovo Sonetàula mosse la testa. Intuiva d’istinto qualche insidia, nelle troppe domande. «Potete cercarlo a Cabuabbas o a Lugunneri, non so...»
Il maresciallo cambiò tono. Aveva gli occhi pieni di meraviglia vedendo a che punto il bambino si era inzuppato. «Ti sei preso il fresco, eh?», bonariamente disse.
Sonetàula non rispose. Con desiderio d’uscir presto, guardava in attesa d’una risposta il dottore. Alle parole di lui: «Poi andiamo. Stai lí, un momento...», si mise riparato in un angolo dove meno venivano dai vetri rotti spifferi d’aria, e rimase a strizzarsi i lembi della giacca.
La luce era poca, verdognola. Quasi per sollecitare il medico, Sonetàula disse: «... Butta una saliva rosa, di sputo e sangue, dalla bocca...»
«Un momento e andiamo...», ancora disse il medico, però senza muoversi. Era di parlata lenta, e asciutto, giallo di malaria.
Agli spifferi, la fiamma del lume a carburo, alta su un mattone sporgente, metteva nei muri ombre vispe. Entrava di quando in quando il bagliore di un lampo.
Finito il lavoro, Anania Medas tolse l’asciugamano dal collo del maresciallo; ripose in un cassetto rasoi, forbici, pennelli; diceva del tempo che, accusato innocente d’aver ucciso Onorato Murrighile, imparava in prigione a fare barbe, ma aveva ancora mano di pecoraio, e il rasoio staccava piú pelle che peli, un disastro.
«Pensi di rimanere a Orgiadas?», dopo molto tempo disse il medico.
Ci fu un’altra lunga pausa. Negli occhi núvoli di Anania Medas si potevano leggere adesso avvilimento e inquietudine. «Per andare dove, anche decidendo di cambiare aria?...», disse infine.
«Dappertutto... e lo dico per il tuo bene... – Batté le mani su un giornale che aveva in grembo. – In Ispagna... Non ti piacerebbe, in Ispagna?... C’è l’arruolamento volontario, da questa settimana, per lí».
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Anania Medas non rispose subito. Curvo su una sedia, lavorava a intrecciare i cordoni di paglia che si erano staccati dall’intelaiatura. «In Ispagna?... – si limitò a dire, e parlava basso, come a sé. La testa grande attaccata alle spalle senza collo, doveva muovere tutto il corpo, per voltarsi. Disse quindi, drizzandosi a guardare il medico: – Voi davvero pensate che sia possibile?»
«Certo che lo è. Ti arruoli e fatto».
A una scarica, i muri tremarono. Vicino alla porta, Sonetàula vedeva l’acqua battere con furia sull’acciottolato, pietre lisce, rossastre, che si potevano pensare proiettate lí da lontani misteriosi crateri. Guardò il medico. E c’erano nei suoi pensieri il grido di Maddalena Irde in lagrime, alla vista della madre ferita, e la bava rossa alla bocca di tia Antonia e la sicura angoscia in casa, per l’attesa che si prolungava. «Andiamo?», disse.
Il dottor Murtas fece di sí, con la testa. «Cinque minuti, e andiamo, – rispose affacciandosi a vedere la pioggia. Non mostrava fastidio, per la chiamata, ma neanche sollecitudine. – Sei parente di Irde, tu?»
«No, – Sonetàula disse. – Vicini e amici, soltanto».
«E ti chiami?»
«Zuanne Malune».
«Figlio di Egidio?»
Sonetàula annuí senza parlare. Sentiva ora una voce concitata, si volse, il barbiere gli gridava: «E te ne stai qui a pisciarmi il luogo, brutto bastardo! E a spiare. Via, fuori!»
Stupíto, il maresciallo disse: «Ma no. Perché cosí?»
Medas era livido, con furore che gli altri non riuscivano a spiegarsi, cosí improvviso. Agitava una mano sotto il mento del bambino e sempre ripeteva: «So io, so io perché!»
Bianco di paura, Sonetàula smise di strizzare il berretto. «Io...», soltanto riuscí a dire. Aveva la gola chiusa, dallo sbalordimento.
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E anche gli altri si guardavano sorpresi. Il maresciallo disse: «Con un bambino, diamine!... E di punto in bianco... Ehi, che ti prende? – Entrò un tuono, nell’aria smorta lievitava adesso polvere di calcinaccio. – Si può sapere allora cosa diavolo ti... – Col dito si picchiava sul cervello. – Sei impazzito?»
Di nuovo curvo a rimettere il fondo della sedia a posto, Anania Medas lasciò passare del tempo. «Un’altra volta... – poi disse. Sembrava tornato alla calma. – Ne parliamo un’altra volta, a quattr’occhi...»
Un lampo lungo riempí la bottega di luce bianca, nessuno parlò piú: nei muri le ombre ballavano fatte svelte dal vento sulla fiamma del lume a carburo.
Poi un altro bagliore e uno schianto, ma stavolta con puzza di polvere bruciata. E Anania Medas a terra, steso davanti alla sedia. Aveva sangue alla bocca, rantolava. Gli occhi erano di gesso, sgranati.
Tutti ora se ne stavano impietriti, con gelo nelle vene, e non sapevano dove muoversi, che dire. Finché, forzandosi al dominio di sé, il maresciallo guardò fuori: silenzio e buio. «Miserabili!», nervosamente disse. Interrogava con lo sguardo il medico, chino ad ascoltare il cuore del ferito. Capí, stese un asciugamano sulla faccia del morto e scuoteva la testa, il pensiero agli altri uccisi a Orgiadas nei primi soli due mesi del ’37.
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Capitolo secondo

Continuò ancora un poco a rivoltarsi sulla stuoia, estenuato dalla fatica spesa a cercare, quasi con furia, il sonno. Le tempie gli si erano indolenzite. Bisognava aprire gli occhi, per trovare nelle cose intorno un riparo alle opprimenti fantasie del dormiveglia. E Sonetàula lo fece, subito provando sollievo. Si mise supino, le mani annodate dietro la nuca.
Al chiarore ormai debole dei tizzoni vicini a spegnersi nel focolare al centro della stanza, poteva distinguere, colorita di rosso dai riverberi, in un angolo, l’alta spalliera di legno del letto su cui dormiva la madre. Senza vederne la figura, di lei sentiva il respiro di malata, faticoso e rotto. Sollevandosi un poco sul gomito, volse lo sguardo al punto dove riposava il padre, sopra una coperta piegata in due. Lo vide immobile, come nemmeno respirasse, il dorso di una mano sulla fronte e l’altro braccio rilassato lungo il fianco. Si levò a sedere, il padre aveva gli occhi chiusi.
Pian piano, per venirgli vicino, prese a strisciare sulla schiena sino all’orlo del giaciglio. Ora, allungando un braccio, poteva arrivare a sfiorargli una guancia. Con cautela, attento a non svegliarlo, posò dolcemente la sua sulla mano di lui, in una lieve carezza. Se la sentí stringere forte ed ebbe un tuffo al cuore: era contento di sentirsi prendere la mano cosí, le dita intrecciate.
«Che hai, ragazzo, non dormi?»
«Sí, babbo, dormo... ora dormo... – Ma il desiderio di far domande presto lo vinse. – Non tornerete nemmeno con la stagione buona?»
Egidio Malune non rispose subito. Strinse piú vigorosamente la mano del figlio, disse infine: «Questa volta no... Il lavoro è lungo, deve durare tre anni, tre anni filati, questa volta... E per tre anni...» Non finí la frase.
«È la prima volta, – osservò Sonetàula, – che vi capita di stare tanto tempo lontano da casa...»
Ancora l’uomo stette senza rispondere. Con ritardo disse: «Lo so... Ma cosí vuole il contratto: da questo marzo alla primavera del ’41... – C’era un velo, nella sua voce. – E adesso dormi... Se stai a pensarci troppo... Dormi, passerà... – Fu tuttavia lui, dopo un poco, a rompere il silenzio dicendo: – Zua’, senti... – Esitò un istante prima di chiedere: – Di quel fatto di un anno fa... Anania il barbiere, dico... neanche ti ricordi se lo sparatore zoppicava
«No. Ve l’ho detto, voltavo le spalle alla porta, al momento dello sparo...»
«Immaginavo che... – Si interruppe. E cambiando in fretta discorso: – Ti raccomando Maddalena, Zua’. Ora che non ha piú madre e Luigi viene con me e il nonno deve starsene al monte, a guardare le bestie, lei si sposta qua. Vivrete assieme, e tu... Capito, Zua’?... Come una di casa, lei qua dovrà sentirsi...»
Annuendo, Sonetàula strinse la mano sul polso del padre. Rimase a lungo in silenzio. Poi chiese: «È molto lontano, ba’, dove andate voi?»
«Il tempo di arrivarci stanchi. Treno, nave, ancora ferrovia e la corriera... Sarà un viaggio faticoso... Dormiamo, ora».
Ma sempre i pensieri continuavano ad andare e a tornare nel cervello di Sonetàula uguali a unghie affilate. E di stare zitto non gli riusciva. Debolmente, con voce che gli tremava, disse: «Ho paura, ba’...»
«Paura di che?»
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«Non so... questo vostro viaggio...»
«Il mio viaggio, sí. Ma paura perché?»
Perché? Sonetàula si trovò a non saper dire con chiarezza il motivo del suo turbamento. Piú che di uomo, era cresciuto figlio di bosco e di pecora, nei lunghi silenzi del Monte Entu. A vedere il babbo di sfuggita e a grandi intervalli, aveva fatto ormai l’abitudine. Perché dunque stavolta, al pensiero dell’imminente commiato, era assalito dall’inquietudine?
Le palpebre gli si appesantirono; il graticcio di canne affumicate sulla volta trascolorò, sfocandosi; lentamente, vinto dalla stanchezza, prese sonno.
Sognò treni, bastimenti, fiumi di automobili, grandi fabbriche impennacchiate di fumaioli, il padre in tuta da operaio invece che in gambali e nel solito fustagno color oliva. Ed ecco: finiva una stradina ripida segnata da solchi, rilievi e cumuli di letame, con rivoli neri proprio nel mezzo, e bimbi, maiali, galline sull’acciottolato umido d’orina; e subito ne cominciava una larga del Continente, piena di colori e luccicante. E alle case costruite a secco, con appena una mano di fango tra blocco e blocco di granito, e senza calcinaccio, come nuraghi quadrati, succedevano grattacieli, il tetto perso fra le nubi. E spuntavano di quando in quando, in mezzo a volti sconosciuti, quello scarno e dolente di Maddalena o quello badiale del maestro Marreri o ancora quello di Gorinnàri, il figlio del sacrista. Sonetàula finí per trovarsi nel cimitero di Orgiadas, a divellere croci... Le lunghe ombre animate dal vento e gli improvvisi miagolíi fra i sepolcri non gli davano piú i trasalimenti di una volta. Tranquillamente afferrò i bracci della prima croce: uno strattone e via. Due, tre, cinque croci vennero su come piume: si faticava meno che a sradicare un giunco. Ma per la successiva non bastarono tutti i suoi muscoli: sembrava confitta nella roccia, sembrava essa stessa di roccia, dura a piegarsi per sole forze di braccia. Eppure era uguale alle altre, nera e di legno come le altre... Si chinò a guardare meglio il punto dove la croce affondava nella terra e quel che vide gli vuotò le vene. Lí, in quel punto, la croce era avvinghiata da mani scheletriche: lo scheletro di Anania il barbiere, uscito di sepoltura, teneva stretta con forza la base della croce e dagli occhi uguali a punte incandescenti di fil di ferro fissava furibondo l’intruso. Di colpo, nel piccolo camposanto le ombre presero profili umani e si agitarono minacciose. «Mi avete tolto la vita, volete anche togliermi la croce», diceva con voce lontana lo scheletro di Anania Medas. Gridi acuti, simili a graffi su un cielo di lamiera, laceravano il silenzio. E a Sonetàula era impossibile gridare e fuggire: la voce gli si consumava in gola e sempre le gambe ripiombavano sulle stesse zolle, mentre lo scheletro di Anania ripeteva: «La croce no, la croce no»... Disperatamente, con un balzo Sonetàula si librò a mezz’aria; ora volava sulle tombe, sul muro di cinta, sugli orti fra il cimitero e i primi fabbricati di Orgiadas, e continuò a volare, in un interminabile salto radente, sino alla piazzetta delle poste e poi al sagrato, rosseggiante della luce di tanti falò. Era la notte di San Giovanni, la gente cantava e beveva per le strade, Sonetàula superava leggero i fuochi: finché sull’ultimo perse lo slancio. Non poteva andare avanti né indietro, l’aria lo teneva prigioniero, sospeso a due metri da terra, sul falò. E i piedi cominciarono a dolergli, lambiti dalle fiamme; poi questo odore forte, acre di legna bruciata: una nuvola di fumo nero gli salí alla bocca e agli occhi, lagrimava, il respiro gli si fece difficile, tossí, tossí a lungo, sino a svegliarsi...
Le figure della madre, seduta su una sponda del letto a macinare caffè, e del padre, intento a lavarsi, erano velate dal fumo che, soffocante, si levava dal corbezzolo in fiamme tra mattoni anneriti.
Rannicchiandosi, Sonetàula allontanò i piedi dal fuoco.
La madre gli fece cenno di rimanere coricato. Dal viso giallo di malaria e dallo sguardo lucido si capiva che la febbre era ancora in lei.
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La luce dell’alba colava dalla porta, dischiusa per far uscire il fumo, e dall’unico finestrino della stanza, aperto in alto sull’incannicciata. «Vengo anch’io, alla corriera», a un tratto lei disse.
Il marito si volse a guardarla, era triste. Scuotendo la testa, disse: «Mi sembra un’imprudenza. Dovresti riguardarti, sei malata». Per evitarle di bagnarsi, sciacquava lui, in un mastello pieno d’acqua, le scodelle del caffellatte.
«Vengo anch’io», lei insisté. E di nuovo si diede da fare, fingendo forze che non aveva.
Sonetàula tolse i panni dal grosso stecco di ferro cui erano appesi, si vestí, arrotolò la stuoia, mise la faccia dentro una tinozza per lavarsi e anche per svegliarsi bene, fece colazione di pane d’orzo inzuppato nel caffellatte. Mangiavano tutti in silenzio, e Rosa Tanchis svogliatamente. A trentasei anni, ne dimostrava ben di piú, per come appariva gonfia, sfatta, le ciglia rade e brillanti d’umore e la pelle lesa da tante smagliature. Gli stessi occhi, che un tempo aveva bellissimi, tagliati un poco obliqui e castani, erano adesso intorbidati da punte di sangue tutt’attorno all’iride sfocata: una donna senz’ombra di femminilità, afflitta dalla peggior vecchiaia, quella che devasta in gioventú. «Fa’ un telegramma, appena arrivato, – disse. – E poi scrivimi, scrivi piú che puoi...»
Egidio Malune cominciò a mettere dentro una cassetta militare la biancheria, posate, gambali, una borraccia, bicchieri di corno.
«Vi portate anche i gambali?», chiese Sonetàula.
«Possono sempre servire», rispose l’uomo.
A Sonetàula sembravano malcombinati, i gambali con la tuta da operaio. Ma non insisté. Seduto su uno sgabello, teneva gli occhi fissi sul padre. Ora un sentimento insieme dolce e aspro di tenerezza, di ammirazione, di orgoglio e di pena per il vicino distacco, gli saliva nell’animo. Venne l’ora di avviarsi.
«Ti prego, rimani a casa, – disse Egidio Malune, rivolto alla moglie. Le si avvicinò, trattenne fra le sue grandi mani il capo di lei; e dopo un istante: – Coraggio, Ro’», semplicemente disse.
Lei chiuse gli occhi, non sapeva piú frenare il pianto, con voce rotta dai singhiozzi disse: «Non doveva succedere. No, il Signore non doveva permetterlo».
«Coraggio, Ro’, – lui ripeté. – Sino alla fine di maggio non rimarrai sola. Starà qui in paese, a farti compagnia, Zuanne».
La salutò chinandosi a baciarla sulla fronte. «Su, coricati, adesso. Sei sfinita, povera te».
Sollevò la cassetta lasciando che Sonetàula prendesse l’altra maniglia, fecero piano i gradini consumati che, per tutta l’ampiezza della facciata, scendevano di lato, dall’unica stanza del piano elevato, alla strada.
«Perché il Signore non doveva permettere che voi trovaste lavoro in Continente?», chiese Sonetàula.
Turbato l’uomo rispose: «Ma no, ragazzo, lascia perdere. Sai le donne...»
Era un mattino lucido, il maestrale aveva ripulito il cielo, dando all’aria trasparenza di cristallo. Bisognava camminare svelti, per vincere il freddo.
«Piuttosto, – disse Egidio Malune, – se vuoi farmi contento, il figlio di Battista Murrighile d’ora in avanti evitalo...»
«Perché?»
«Lo capirai da grande. Tu non farci comunella, adesso. E non chiedere a nessuno, neanche a tua madre, il motivo di questa mia raccomandazione. Me lo fai questo piacere?»
Erano arrivati nella piazzetta dell’ufficio postale. Già si trovavano lí ad attendere la corriera, con altri, Luigi Irde e Maddalena. Egidio Malune salutò portando un dito alla visiera, gli altri risposero allo stesso modo, nessuno parlava.
Solo dopo un poco, appena bisbigliando, una donna chiese: «Alle Tremiti o dove?»
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Anche lui in un soffio: «A San Giuliano del Sannio», Egidio Malune rispose.
«Mio marito finisce presto, fra un mese. E poi lui sta alle Tremiti, non lo incontrerai», disse la donna. Se ne vedevano solo gli occhi: il fazzoletto che le avvolgeva il capo era rigirato, a coprire mento e bocca.
I minuti passavano lenti, di quando in quando il rombo di un motore faceva correre le mani ai bauli. E sempre, al comparire di una macchina diversa, veniva in Sonetàula una curiosa sensazione di sollievo... Tante e tante volte, al morirsene dell’erba per il freddo o all’ingiallir...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Nota
  6. Primo Tempo (1937-1941)
  7. Secondo Tempo (1943-1946)
  8. Terzo Tempo (1948-1950)
  9. Indice