La ruga sulla fronte
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La ruga sulla fronte

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La ruga sulla fronte

Informazioni su questo libro

Andrea Grammonte è un predestinato, come rivela «quella linea dritta che lo rendeva inconfondibile: non era una ruga - infatti era comparsa che era ancora bambino - ma un segno, una sorta di marchio che spartiva in due la fronte larga da animale sacro, custode di enigmi». Orfano di padre, eredita dal nonno nel 1946 la piú grande industria siderurgica italiana, e con una condotta abile e spregiudicata ne espande le attività fino a farla diventare un colosso anche nella chimica e nella produzione di energia elettrica. Ma se la vita pubblica di Andrea è un seguito di successi, un angoscioso senso di vuoto segna la sua vita interiore, non medicato dagli affetti familiari e non colmato dai piaceri a cui Andrea non sa e non vuole rinunciare. Un romanzo che racconta un secolo di storia italiana attraverso gli occhi, le azioni e le avventure di un protagonista d'eccezione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806200756
eBook ISBN
9788858402221

Parte prima

Il Principe incostante

Il temporale era stato violento come spesso accade a mezz’agosto dopo le settimane della grande estate. Larghe chiazze d’acqua erano rimaste tra le pietre della strada e le rocce lisce e bionde che la fiancheggiavano mentre il cielo stava tornando al sereno sotto la spinta d’una brezza di maestrale che aveva svelato una falce di luna lavata a nuovo dall’acquazzone.
È sempre cosí dopo le piogge dell’estate: i colori si fanno piú intensi, il cielo trascorre dall’azzurro pallido all’indaco e il mare, sotto alle rocce che scendono a picco tra le onde del frangente, dal verde grigio al blu, mentre i profumi della costiera che prima, sotto l’afa del pomeriggio, si impastavano tra loro svaporando nella calura, riacquistano la propria nettezza, le alghe muschiose, il mirto, il ginepro ancora acerbo, il latte del fico stillante dalle crepature della guaina, la frescura della menta che la brezza trasporta cullando l’effondersi della sera.
Le ragazze arrivarono saltando tra una pozza e l’altra per non bagnarsi i piedi nudi nei sandali leggeri. Una di loro aveva una veste lunga e fiorata che teneva rialzata per non inciamparvi nella corsa; le altre erano vestite d’organza e di velo piú che di stoffa e le gonne ondeggiavano seguendo il passo, il gioco delle ginocchia e la curvatura delle anche.
– Violante, ma dove ci stai portando? Non si vede niente, solo dirupi e siepi di rovo.
– Bisogna conquistarselo il paradiso, vedrai, ci siamo quasi.
Percorsero ancora un tratto breve, poi il sentiero di pietre svoltò in mezzo alla macchia sboccando in uno spiazzo cinto da oleandri e cipressi. In fondo, tagliato in mezzo alle rocce, il Covo di nord-est, meta notturna dei giovani che villeggiavano nelle case della costa e nelle barche all’ancora in rada o arrivavano in auto da piú lontano inseguendosi sulle rampe della cornice.
All’entrata rallentarono il passo, quasi che un’esitazione, una timidezza improvvisa le trattenesse sulla soglia. Infine, di nuovo spavalde tra i capelli controvento e il vortice danzante delle gambe snelle, andarono verso la musica che arrivava a folate ridendo e chiamandosi. La luce era scarsa, di fiaccole e lampade di candele sui muretti a secco; lo spiazzo pavimentato di pietre incerte; su una pedana rialzata con la roccia alle spalle la band del jazz e intorno, sui sedili irregolarmente ricavati nella scogliera che dal mare risaliva fin lí, altri giovani e ragazze.
Qualche coppia ballava al centro di quella terrazza naturale e lo sciacquio quieto del mare faceva da fondo al ritmo dei bassi e della batteria. Suonavano in quel momento Mood indigo, un blues appena arrivato e quasi clandestino perché veniva da un paese straniero considerato ostile; ma era cosí struggente quel blues d’aver trovato patria ovunque fosse suonato e anche lí, in quella scogliera del Covo di nord-est, tra le fiaccole e la salsedine del maestrale.
Le ragazze aspettavano e man mano che il tempo passava l’allegria si smorzava nell’attesa e in una vena sottile di malinconia. Qualcuno dei giovani le invitò a ballare ma rifiutarono. Parlavano tra loro ma le voci s’erano fatte sommesse; non si raccontavano piú le loro piccole storie dell’estate, ma i sogni e i sentimenti. Violante aveva messo il braccio attorno alle spalle di Gaia e questa teneva per mano Flo, altre due sedevano a terra accanto a loro con le gonne allargate a corolla, creature di miti marini, sfuggenti, ambigue come l’acqua quando s’increspa di spuma, s’arrotola, si scioglie limpida sulla sabbia e poi se ne ritrae intorpidita e fuggitiva.
– Si può far l’amore come lo fanno i maschi? – chiese Flo mordicchiando una foglia di menta e guardando in alto alla luna che navigava verso occidente insieme alla stella sua compagna di viaggio.
– Perché, tu lo fai in un altro modo?
– Certo, io m’innamoro, loro no.
– È andata cosí anche quest’estate con Giorgio?
– No, l’ho lasciato io –. Gettò al vento la foglia di menta e le guardò con gli occhi fermi come di sfida, – son capace di lasciare, non sono una ragazzetta che si fa buttar via.
– Vedi – disse Violante – proprio come i maschi, anche loro fanno cosí. Il problema non è innamorarsi ma chi lascia prima e chi è lasciato.
– Eravate una splendida coppia, lui bello come il sole.
– Con lo spirito d’una patata.
– A te piaceva però, sei rimasta molto male quando cominciò la sua storia con Flo.
Ora parlavano tutte insieme, ridevano ma c’era anche un po’ di cattiveria e di invidia nel ricordo di quei giochi amorosi.
– Una donna quando si dà – insisteva Flo – lo fa con tutta se stessa, corpo e sentimento, se non è cosí non si dà affatto, è fisicamente impossibile. Nei maschi è diverso. I nostri contadini raccontavano che a volte, quando portavano le greggi al pascolo, lo facevano anche con le capre. Pensate un po’.
– Ma tu – disse Gaia – lo faresti con Andrea?
– Se me ne innamorassi sí.
– Non hai capito. Diciamo sei fidanzata con un altro, arriva Andrea e ti fa una proposta. Tu ci staresti?
– Certo che ci starebbe, ci puoi giurare.
– Voi piuttosto – interruppe lei – vi mettereste in fila pur di portarvi a casa quel trofeo.
Le grida e le risate sopraffacevano la musica, le coppie dei ballerini si fermarono protestando per il troppo chiasso. Proprio in quel momento arrivò Andrea, seguito dalla piccola corte degli amici vocianti e sguaiati quanto lui era taciturno e lontano. Ma il viso era di quelli che non si dimenticano: un viso triangolare, un naso prominente e fiero, gli occhi sporgenti d’un pallido azzurro, la fronte larga come quella d’un capro e in mezzo una riga dritta che scendeva dall’attaccatura dei capelli alla radice del naso, come se un fulmine l’avesse colpito lasciandolo miracolosamente indenne ma segnandolo per sempre con la sua traccia.
I due gruppi si mescolarono, bevvero, ballarono, si corteggiarono. Si conoscevano tutti da tempo, erano dello stesso stampo e dello stesso rango salvo Andrea che la sorte aveva collocato piú in alto degli altri. Apparteneva a una famiglia tra le piú potenti e ricche del paese e ne sarebbe stato il giovane erede, ma intanto le sue giornate passavano vuote, senza fatica né responsabilità, senza neppure gli obblighi di un apprendistato che lo preparasse alle incombenze future.
Gli avevano insegnato con cura le buone maniere, la gentilezza del tratto, il rispetto dell’autorità che poi, a tempo debito, sarebbe passata nelle sue mani. Possedeva una naturale eleganza fatta per metà di orgoglioso riserbo, e per metà di ironica dissipazione.
Dissipava la sua vita con il coraggio dei predestinati ai quali nulla può accadere fino a che il loro destino non sia compiuto, e nella noia, nella terribile e opaca noia che affligge chi nulla può conquistare che già non avrà per diritto di nascita.
La sua dominante e quasi esclusiva occupazione era di sottrarsi all’incubo ossessivo di quella noia che gli impediva di ascoltare, di pensare, di fermarsi, di crescere, e perfino di godere. Era calcinato di noia; per sfuggirle moltiplicava i viaggi, le avventure, le stravaganze, le depravazioni, le volgarità e le piú sofisticate eleganze. Ma tutto questo suo agitarsi, tutti gli atteggiamenti che di volta in volta assumeva sotto la spinta delle occasioni e delle diverse compagnie delle quali si circondava piú per caso che per scelta, non gli appartenevano piú di quanto non ci appartenga un abito di maschera indossato sbadatamente al solo scopo di ingannare il tempo. Tra lui e il tempo si giocava una lunga partita che per Andrea aveva come posta quella di allontanarlo dal suo fluire, vivendo un eterno presente costruito di attimi successivi ciascuno dei quali, appena consumato, sprofondava non già nel passato ma in un vuoto immemoriale senza ritorno.
Che cosa ci fosse sotto quei suoi modi d’essere cosí mutevoli e spesso opposti tra loro non sapeva né si poneva il problema di scoprirlo. Sapeva soltanto di possedere contemporaneamente molte personalità, anzi d’esserne posseduto. E di lasciarsi andare con ciascuna di esse senza ambagi o imbarazzo di sorta perché quella – cosí pensava – era la sua piú naturale natura.
Questo trascorrere con leggerezza da una figura all’altra era poi il suo fascino e il suo strumento di seduzione, soprattutto era lo schermo dietro il quale si riparava per non essere neppure lambito dalle passioni. Era indifferente alle passioni e l’indifferenza la coltivava come una pianta rara e medicamentosa dalle cui radici crescevano l’ironia, il cinismo e, inevitabilmente, la noia.
Per il resto non aveva amici ma cortigiani, compagni d’avventura; leggeva pochissimo, non amava la musica, si stordiva con le droghe quando non trovava altro modo per riempire il vuoto che si portava addosso. Adorava la gara. Correva in macchina come un forsennato. Amava le donne ma non l’amore che considerava una malattia perniciosa.
Quella sera d’agosto passò un paio d’ore con le ragazze e con gli amici della sua corte, ma era piú distratto e lontano che mai e la ruga sulla fronte pareva un segnale di iniziazione.
– Stanotte torno a Milano – disse a Giacomo Vieri che gli stava seduto accanto con Flo sulle ginocchia. – M’hanno chiamato con grande urgenza. Se chiamano me vuol dire che qualcosa di grave è accaduto o sta per accadere.
– Sei preoccupato? Sai qualche cosa?
– No, non so niente di niente. Ma spero che si apra qualche grossa partita: l’estate non finisce mai e queste ragazze non riescono a eccitarsi nemmeno con un po’ di roba. Buttiamole in acqua e vediamo se diventano piú divertenti.
– Da quassú? Sotto è pieno di scogli.
– Va bene, se non si può andiamocene.
– Pago il conto.
– Non pagare nulla. Filiamo via, se la sbrigheranno loro. Magari non hanno soldi, le arrestano e gli fanno passare la notte in guardina. Sarà divertente quando ce lo racconteranno. Dài, andiamocene, ci vogliono tre ore per Milano, non arriveremo prima delle sei. Il nonno ha convocato il gran consiglio per le otto. Lui ce la mette tutta per rompere le scatole. Che vecchiaccio, ma è l’unica persona interessante di quella compagnia. Tutti gli altri sono fuffa, da buttare.
Le urla del fratello arrivano spente nella nursery dove Andrea gioca con un orso di peluche dagli occhi di vetro. La casa è molto grande e ci sono tante porte chiuse fino alla stanza di Filippo che sta dall’altra parte, con le finestre che dànno sul cortile. Da qualche giorno hanno messo le inferriate a quella finestra, le ha volute il dottore dei bambini che ha in cura Filippo fin da quando ha cominciato a gridare.
Filippo ha sei anni, due piú di Andrea; prima stavano sempre insieme, giocavano agli stessi giochi sebbene due anni fossero tanti di piú e Filippo superasse il fratello piú piccolo di quasi un palmo. Studiavano insieme il tedesco con la bambinaia Brigitte e l’inglese con un signore che aveva vent’anni, portava gli occhiali di tartaruga e aveva tanti brufoli sulla faccia.
Adesso le urla non si sentono piú. Andrea continua a giocare con l’orso come se nulla fosse accaduto ma quelle grida lo inseguono da un tempo per lui infinito e (lui pensa) continueranno sempre a inseguirlo per tutta la vita anche quando sarà diventato grande come papà. Ma chi è Filippo? Lui non lo sa piú, non ricorda il suo viso, Filippo, Lifippo, Piloffo, Fipollo se gli cambio il nome smetterà di gridare e ritornerà a giocare con me e poi non mi ricordo come è fatto se gli cambio il nome Filippo è l’orsacchiotto che non parla mai perché è contento di stare con me e lo cullo e lo faccio dormire poi quando si sveglia gli dò anche da mangiare e Brigitte gli ha preparato una copertina per quando lo mettiamo a letto la sera e lui sta buono. Adesso ricomincia a urlare ma tanto io non lo sento poi non me lo ricordo adesso arriva la mamma che mi porta fuori a passeggio a vedere i negozi e mi compra un treno lungo e anche il cappello da bersagliere e la sciabola perché io non faccio i capricci non piango e non grido e la mamma mi vuole bene perché lei dice che sono buono e giudizioso. Anche Brigitte mi vuole bene e mi piace perché è bionda come la madonna della chiesa dove andiamo la domenica però la madonna è bionda ma non ha le sise davanti è piatta invece Brigitte ce l’ha e io gliele tocco anche la mamma ce l’ha le sise ma sono piú piccole di Brigitte e sono le sise della mamma che non sono sise e anche se lui urla io non lo sento forse non è lui ma qualcuno che strilla per la strada io non so chi sia.
Ora si è messo nell’angolo della nursery dietro il paravento giapponese con le pagode e i bambini che pescano nel fiume, si tiene le mani strette sulle orecchie e l’anima gli si è fatta piccola piccola e s’è nascosta dietro il cuore che gli batte forte ma lui non piange perché tutti gli ripetono che i bambini bravi non piangono mai e intanto si apre la porta e lui sente la mamma che dice dov’è il mio ometto e lo cerca e lo trova dietro il paravento lo tira su da terra lo abbraccia e gli dà tanti baci sulle guance e sulla bocca e lui la stringe forte al collo e dietro di lei tende una mano a Brigitte che gliela prende, adesso Filippo non urla piú ma lui sa che piange e quando avrà finito di piangere ricomincerà a gridare e poi il dottore verrà e gli darà la pillola per dormire e lui dormirà perché Filippo sta male, vede tutti fantasmi e per questo urla per la paura ma io non lo sento e non mi ricordo chi è.
Viviane lo tiene sempre stretto a sé e gli si aggrappa ma il suo sguardo è fiero. Lei sa combattere. È la moglie di Enrico Grammonte, è una dei de Guiche che governarono il Poitou quattro secoli fa ed erano già conti prima di Luigi Capeto.
– Allons, allons, mon petit chou, on ne se quittera jamais, nous deux, jamais pour la vie, n’est-ce pas?
Andrea la stringe e ride felice. Dentro la sua testolina bruna qualche milione di cellule stanno lavorando per escludere quelle terribili urla dal circuito percettivo e raschiarle via dalla memoria spingendole in fondo in fondo, lontane, sepolte, ammutolite per sempre in un abisso di materia che le sommerga e ne cancelli le righe tracciate sulla scheda del tempo. Ma l’anima è rimasta piccola e intirizzita, nascosta in un angolo dietro il cuore per farsi dimenticare.
Anche Viviane vorrebbe dimenticarsi dell’anima sua, del fardello di pena che porta con sé, ma non ci riesce. C’è solo un modo, questo l’ha imparato: poiché senza l’anima non si vive, non resta che moltiplicarla, averne tante di anime, magari altre pene, altri gomitoli di memoria, ma anche altre figure che procurino smemoratezza e soprattutto impediscano che le tante anime comunichino tra loro col rischio che ridiventino una sola.
Pensa a queste cose Viviane mentre esce di casa col suo bambino per mano e la bionda Brigitte a fianco. Andranno a far spese di giocattoli e Andrea sarà felice ma lei non riuscirà a dimenticare la sua pena perché è proprio Andrea che gliela ricorda.
Comprerà dei fiori per rallegrare la casa, il fioraio è proprio davanti a lei sull’altro lato della piazza e la vetrina è colma di mazzi già composti, le rose bianche ravvivate da rami d’orchidea, le rosse insieme ai primi gelsomini e i fiori di campo che durano un giorno e già col cader della sera reclinano come le farfalle che li corteggiano volando dall’uno all’altro inebriate dal profumo delle corolle e poi piegano delicatamente le ali per morire insieme ai loro fiori.
Viviane ha le braccia piene di fiori, ha comprato gelsomini e giacinti, pensa che il loro profumo acuto l’aiuterà, disporli nei vasi l’aiuterà, una bottoniera d’orchidea sulla sua giacca di velluto scarlatto l’aiuterà, ma quella porta chiusa, quel pozzo con le inferriate alle finestre e quel piccolo agnello che grida dietro la porta, di scordarsene non ne ha il diritto, ma di vivere sí, c’è anche per noi un diritto di vivere, come un felice animale senza memoria. Se un cucciolo si azzoppa la madre lo cura, se non guarisce presto lo abbandona; la natura è economa e spietata, lo spreco della pietà non rientra nel suo codice.
– Voglio il camion rosso con la scala gialla dei pompieri –. Andrea la tira per la manica e la guarda col viso rivolto in alto supplichevole e imperioso. L’odore dei gelsomini e dei giacinti le arriva come il fetore d’una putredine. Li getta nel secchio dei fiori marciti ed escono tutti e tre in mezzo al traffico della piazza.
Erano quasi le nove quando Andrea varcò il cancello dello stabilimento di Agrate e fermò la macchina davanti alla palazzina di pietra dove avevano sede la presidenza e la direzione della società Sidera.
A fianco della palazzina, impreziosita da alcune citazioni architettoniche neoclassiche e molto annerita dalla fuliggine, due massicci edifici rettangolari disposti uno di seguito all’altro e comunicanti al livello del primo piano allungavano la loro mole per circa un chilometro. Grandi finestroni su entrambe le fiancate davano luce all’interno; una ciminiera sbucava dal tetto di uno degli edifici e smaltiva nel cielo i fumi della fonderia.
Il complesso dello stabilimento denunciava la sua data di nascita, 1907, quando ancora la pubblicistica radicale e socialista chiamava i Grammonte «i padroni delle ferriere». Loro in realtà non se n’erano affatto adontati: dei giornali e di chi ci scriveva non facevano gran conto; con i loro operai il rapporto era di durezza, di ostilità latente e di reciproca stima, come doveva essere – pensavano i Grammonte e anche i capi operai – in tutte le fabbriche dove il padrone e i dipendenti hanno coscienza del proprio ruolo, capacità professionale e dignità nell’esercitarla.
Molti anni erano passati da allora. Di mezzo c’erano stati una guerra con centinaia di migliaia di morti, uno sconvolgimento sociale profondo, lotte sindacali durissime. Dalla guerra la Sidera aveva tratto benefici immensi e un’espansione industriale che l’aveva portata a diventare una delle maggiori potenze economiche del paese.
Poi era arrivato il fascismo a metter ordine. Anche i Grammonte ne avevano aiutato gli esordi, convinti che si trattasse d’un episodio transitorio e utile per tagliare le punte dell’aggressività operaia e spegnere l’infatuazione ideologica divampata dopo la rivoluzione bolscevica. Ma poi il movimento era sboccato nella dittatura e la dittatura nel regime, una rete fitta e flessibile di interessi, compromissioni, gerarchie, tenuta insieme dal carisma del Capo, dal suo nazional-populismo e da una capacità scenografica che puntava sul protagonismo delle comparse diventate il pilastro su cui si reggevano la nuova rappresentanza politica e il nuovo modo di manipolare il consenso popolare.
I Grammonte, come tutto il loro ceto e anzi come l’intero paese, erano stati avviluppati da quella rete. All’inizio non se ne resero conto poiché essa fu tessu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Preludio
  5. Parte prima. Il Principe incostante
  6. Parte seconda. Milano Milano, la bella città
  7. Parte terza. Il viso e le maschere
  8. Parte quarta. Vero è ben, Pindemonte
  9. Indice