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1.
Tua madre è uscita a prendere un po’ d’aria. Da quando sei nato è la prima volta che si allontana da te. Siamo rimasti soli in casa, tu e io. Hai cominciato a piangere. Ti ho preso fra le braccia e ti ho cullato, ma non smettevi di strillare. Camminavo avanti e indietro per il corridoio, tenendoti su con un braccio. Con l’altra mano ti accarezzavo la testa. Ho mormorato anche una specie di canzone. Niente da fare, gridavi sempre piú forte, con la faccia appoggiata alla mia spalla, mi assordavi.
– Che cosa c’è, bambino mio –. Ti parlavo per continuare a farti sentire il suono della mia voce, variando la modulazione, visto che la cantilena non aveva avuto effetto. Ti sussurravo nell’orecchio. – Che cosa c’è.
Iniziavo a pensare che fosse colpa mia, magari avevo sbagliato qualcosa, non so, forse ti tenevo male in braccio, devo ancora imparare bene.
Dopo un po’ ho chiamato tua madre, avvicinando di proposito il telefono alla tua bocca, mentre tu gridavi.
– Lo senti? – ho chiesto a Silvana.
– Arrivo fra un attimo, – ha detto lei.
Nemmeno un’ora avete resistito a stare lontani uno dall’altra, voi due.
Ho aspettato. Non sapevo che cosa fare. Tu continuavi a piangere. Allora ti ho posato con delicatezza sul tavolo in cucina, a pancia in su. Avevi il volto congestionato, gli occhi erano spariti dentro le pieghe della faccia, le manine contratte. Sono rimasto a guardarti, incredulo che da un corpicino cosà piccolo potessero uscire spifferi di voce talmente potenti.
Mi sono sfilato il maglione. Ho sbottonato la camicia, me la sono tolta. Via anche la maglietta. Sono rimasto a torso nudo. Ti ho ripreso in braccio e ti ho avvicinato al petto, tenendoti un po’ piú in basso di prima.
Non c’è stato bisogno di darti nessuna istruzione. Le tue labbra minuscole hanno cercato da sole. Si sono fatte strada sulla pelle, fra i peli, quasi brucando. Mi facevi un po’ di solletico. Hai trovato il capezzolo (non so come tu abbia fatto a capire che era un capezzolo, il mio è talmente piccolo). Hai cominciato a succhiare, con metodo. Le tue guance si muovevano da sole, del tutto autonome, stavano eseguendo una procedura conosciuta da qualche milione di anni. Ma questa volta qualcosa non stava funzionando. Hai increspato la fronte, non riuscivi a credere che il rubinetto fosse già secco. Hai afferrato i peli sullo sterno con le dita, tiravi. Hai ciucciato piú forte, con rabbia, mi facevi male.
Mi dispiace, ma devi capirlo in fretta che non uscirà sempre latte da ogni capezzolo a cui ti attacchi. Meglio che lo impari subito.
– Mi dispiace, piccolo –. Te l’ho detto anche a voce alta. Chissà quante volte, da oggi in poi, non ti potrò offrire quello che ti serve.
Tu ci hai dato dentro, hai aumentato ancora l’intensità della suzione. Devo avere fatto una smorfia, dal brivido che ho sentito.
– È meglio che lo impari anch’io, – ho mormorato.
Non so chi dei due ha ceduto prima. A un certo punto ti sei staccato. Hai allontanato la testa, all’indietro, gridando a tutta forza. Mi sono guardato il petto, il capezzolo era solo un po’ arrossato. Ho massaggiato la mammella. Ho sentito un rumore alla porta, le chiavi che giravano nella serratura. Mi sono mosso rapidamente, ho arraffato i miei vestiti e sono entrato in bagno con te in braccio, appena in tempo. Ti ho controllato le labbra. Per un attimo, mi ero illuso che potessero essere sporche del mio sangue.
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2.
Bambino mio, io ci ho messo tanto tempo a capire che i grandi non mi dicevano la verità . Se ricordo bene, mi è successo verso i quattordici anni. È a quell’età che mi sono reso conto che non mi dicevano come stavano le cose. Ma non perché fossero cattivi. Semplicemente non potevano.
Sai com’è, non è che tuo padre quando sei piccolo ti prende da parte e ti dice: «Questa volta non so se ce la faremo ad arrivare a fine mese». E nemmeno la tua professoressa di matematica lo ammetterebbe a cuor leggero: «Non ho interrogato il tuo compagno di banco perché mi sono innamorata di lui».
Che cos’è l’amore, che cos’è il potere. Che cosa sono i soldi, la malattia, la morte. Gli adulti mi tenevano nascosta la verità sulle cose importanti. Mi sono messo a scriverti per non rifare lo stesso sbaglio. E anche perché non credo che riuscirei a dirti queste cose a voce, faccia a faccia.
Allora eccomi qui.
Ho comprato questo quaderno per te. Tu non guardare la mia calligrafia, ma il significato delle parole che ti scrivo.
(Oppure invece l’importante è proprio la calligrafia. L’importante non è il significato, ma che in esso si sia impigliato il mio gesto, e che le due cose non siano separabili).
Gli adulti pensavano che il mondo sarebbe crollato, se loro fossero stati sinceri fino in fondo. Io lo guardavo, il mondo intorno a me, e non mi piaceva (per essere onesti, anche quello dentro di me non mi piaceva). Vedevo che non piaceva nemmeno agli adulti. Allora proprio non capivo perché mai lo difendessero (non dire com’era veramente equivaleva a difenderlo). Stavano zitti, o parlavano d’altro. Di calcio, generalmente.
Avevo quattordici anni. Li odiavo. Tutti. Anche mio padre.
(Ora che ho iniziato, non sono sicuro di niente. Non so come scriverti, con quale tono. Cerco di usare meno parole che posso, per non frastornarti. Se scrivo parolacce, ti infastidisco. Se non ne scrivo, passo per ipocrita. Se faccio battute, per ruffiano. Se non ne faccio e mi limito a descrivere con pulizia e precisione le cose essenziali, ti annoio. Mi distendo in questo tono serio, affabile quanto basta – probabilmente il peggiore! – Eppure ogni frase mi darebbe la possibilità di escogitare una capriola, un gioco di parole. Non so se ti farei sorridere o se, invece di accattivarmi la tua benevolenza, finirei per farti venire l’allergia. Cerco di togliere il mio sapore dalle frasi, ma ho paura di risultare insipido). (Il padre è questo. Sempre troppo o troppo poco. Qualunque cosa si fa, si sbaglia. Da un certo punto di vista è perfino consolante. Non farai mai la cosa giusta, mi dico, sappilo fin da principio, quindi mettiti il cuore in pace e fai. Fa’, senza tante storie. Qualunque cosa tu faccia, sarà sbagliata comunque. Scrivi a tuo figlio, continua a farlo. Ti sei cacciato tu in questo guaio, mi dico, sprofondaci fino in fondo).
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3.
(È impressionante quanto dormi. Sembra quasi che tu stia imparando a fare le cose fondamentali dell’esistenza dormendo. Forse stai sognando. Sogni di respirare, sogni di digerire).
Come sarai tu, a quattordici anni? Che aspetto avrai, quando leggerai queste pagine? Non riesco a immaginarti. Dalla faccia che hai adesso non è che si capisca molto. SÃ, assomigli a tua madre, tantissimo. Ma se distolgo lo sguardo dai tuoi occhi (non è facile) ed esamino bene ogni particolare, mi pare proprio che il tuo naso sia uguale al mio. E d’altronde, crescendo, le facce cambiano. Le facce infantili oscillano fra padre e madre. Alcune a un certo punto trovano un equilibrio, altre dopo qualche anno se ne vanno per i fatti loro, lontano dai lineamenti dei genitori.
Finché puoi ti auguro di continuare a pendere dalla parte della faccia di tua madre, ti conviene. Silvana è una bella donna piú di quanto io non sia un bell’uomo, questo è fuori discussione. Ma a parte l’aspetto, non riesco a figurarmi che carattere avrai. Che cosa penserai di me. Immagino che a quattordici anni mi sputerai in faccia (o ti verrà voglia di farlo). È naturale. Comincerai a non sopportarmi piú. Bisogna che accada questo, altrimenti non diventerai mai grande.
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4.
È venuto a conoscerti Tiziano. Tua madre ti aveva appena tirato fuori dal bagno, eri tutto lucido d’acqua.
– Non ho mai visto una cosa cosà cruda in vita mia, – ha detto Tiziano appena ti ha visto nudo. – Sembra un petto di pollo imbustato nel cellophane.
Tiziano non ha figli. È contento cosÃ, è da anni che fa del sarcasmo perché non gli ho mai nascosto che io un bambino lo desidero da sempre. Cosà nemmeno adesso che sei nato si fa scrupoli a dire quello che pensa, davanti a me e Silvana. Un petto di pollo imbustato nel cellophane!
Però ha ragione. Tu sei incredibilmente liscio, sei proprio crudo. Ho guardato Tiziano e Silvana, le loro mani, le mie mani, la nostra pelle ancora fresca ma già sciupata.
– Tu invece sei un branzino andato a male. Puzzi! – gli ha ribattuto Silvana. L’ha detto ridacchiando, ma si vedeva che era risentita.
Oggi, mentre attraversavo la strada, mi è passato davanti un vecchio in bicicletta. Lo vedo spesso, con il suo cappello marrone in testa. Ha un naso viola scuro, e il resto del viso malsano, brunastro, dello stesso colore del cappello. Non credo che sia malato, è da anni che è cosÃ. È semplicemente vecchio. Gira con la sua solita brutta smorfia. Non ce l’ha col mondo. Prova disgusto di sé, si sente insultato dal proprio corpo.
La vita ci cuoce a fuoco lento, ci rosoliamo dall’interno. Io sto dentro la mia fiamma, ti toccherà vedermi avvizzire. Diventerò un torsolo orrendo, ma ti prego: tu cerca di ricordare quel poco di luce che sarò riuscito a fare bruciando.
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5.
Sono uscito insieme a te, la nostra prima passeggiata da soli. A parte i semafori e le strisce pedonali, non guardavo altro che la tua faccia, per controllare in continuazione che andasse tutto bene. In questo modo il paesaggio si è concentrato completamente sul tuo volto. Sarà cosà per un po’, mi dico. Da oggi in poi il mondo si restringerà dentro il tuo contorno, intensificandosi. Sei diventato tu il punto piú folto dell’universo. Basta che fai un verso piccolissimo per mobilitarmi. Voglio bene a tua madre, ma il cuore del mondo adesso sei tu.
Perciò, continuando a passeggiare guardando te, senza fare caso a dove stavo andando, mi sono ritrovato davanti al supermercato. Già che c’ero sono entrato a fare due compere, ma non potevo di certo lasciarti parcheggiato da solo e andare a prendere un carrello. Cosà ho continuato a spingere davanti a me la carrozzina nelle corsie del supermercato, al posto del carrello per la spesa.
Ho preso dallo scaffale un detersivo per i piatti concentrato, perché il flacone era piccolo e riuscivo a tenerlo in mano, appoggiato al manubrio della carrozzina. Poi una busta di noci. Avevo visto anche che c’erano dei sacchetti di mele in offerta, ma non avrei saputo dove metterlo, uno di quelli, troppo grande, cosà ho rinunciato. Poi ci ho ripensato, ho appoggiato il detersivo per i piatti e la busta di noci dentro la carrozzina, ai tuoi piedi, e ho preso anche il sacchetto di mele, trasportandolo fra le mani (pesava troppo per mettere dentro la carrozzina anche quello).
(Devi avere pazienza, ti sto raccontando com’è andata nei dettagli per farti capire che il risultato finale non era premeditato, è capitato un po’ alla volta, senza volerlo).
(Sono pieno di timori con te, ho paura che quando mi leggerai mi rinfaccerai qualsiasi cosa, faccio mille precisazioni per giustificare ogni frase che ti scrivo. Qui comanda il tuo sguardo, mi sento giudicato, comandi tu).
Cosà ho continuato a fare la spesa riponendo gli oggetti prima ai tuoi piedi, e poi tutt’intorno a te: li ho disposti con cura sopra la piccola coperta di lana, accostati al bordo interno della carrozzina. Detersivo per i piatti, busta di noci, sale iodato, sugo al pesto, ganci adesivi da parete, rasoi usa e getta a tre lame: la cassiera mi guardava stranita mentre li tiravo fuori dalla carrozzina per appoggiarli sul piccolo nastro trasportatore della cassa. Ti ho contornato di prodotti, flaconi, buste, scatole, etichette con la data di scadenza e il codice a barre. Intorno a te già brilla un’aureola di merci.
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6.
A un certo punto mi odierai. Sto già cominciando ad abituarmi all’idea. Mi alleno. Sei appena nato: quindi, se non sono troppo ottimista (e se non muoio prima), mi aspettano quattordici anni di bene da parte tua. Ne farò una scorpacciata, del tuo bene, per riuscire a reggere l’urto quando ti darà fastidio anche solo vedermi. Ho quattordici anni di tempo per cercare di non farmi odiare troppo quando diventerai adolescente.
(Per non irritarti, la prima cosa da fare è non scrivere mai piú «bambino mio». Se c’è una cosa che ti darà fastidio, quando avrai compiuto quattordici anni, sarà essere considerato ancora un bambino, o che ci sia qualcuno che ti ricordi che lo sei stato).
(Forse io sto sbagliando tutto, a descriverti come un neonato inerme nelle nostre mani. Forse la prima cosa che un ragazzo di quattordici anni desidera è che non gli si ricordi continuamente di essere stato un bambino. Lo è stato fino a poco tempo prima, non ne può piú, non vuole piú saperne, giustamente. Sta diventando forte, comincia a fare da solo).
(Sarebbe come voler rimettere addosso a una farfalla la crisalide vuota, una carcassa appena lasciata da parte, ancora umida. Io sono quella carcassa, io sono quella broda vischiosa che vorrebbe rimanerti appiccicata. Devo essere forte, devo imparare a essere felice del tuo decollo).
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7.
Come devo chiamarti? Non sono ancora entrato in intimità con il tuo nome. Ho ceduto a tua madre, alla fine ti abbiamo chiamato come ha voluto lei. D’altronde, io non avevo nessuna idea del nome che avremmo potuto darti. Avrei preferito aspettare un po’, imparare a conoscerti, per vedere se esprimevi qualcosa che avrebbe potuto assomigliare a un nome. Una cosa tipo: «Quando piange tende a farlo con tante e, dice uèè, uèè. Chiamiamolo Emanuele!»
«Al contrario: diamogli un nome che sia il piú distante possibile dal suo pianto. Chiamiamolo Arnoldo».
Scherzo, ovviamente; però pensavo che sarebbe stato giusto ascoltare prima di tutto te per capire qual è il tuo vero nome, il suono a cui sarai chiamato a rispondere per tutta la vita.
– Un nome da uomo, – ha preteso tua madre. – Da uomo. Come si usava una volta.
E cosÃ, adesso che ha messo al mondo anche il tuo nome, Silvana si china su di te e ti chiama sussurrandoti dolcemente: – Mario, Mario.
Va benissimo anche Mario, non ho niente da ridire, sono andato a registrarti all’anagrafe a voce alta di fronte all’impiegato. Ho iscritto con convinzione il tuo appellativo nel registro delle parole viventi, ma prima di affrettarmi a chiamarti per nome vorrei riuscire a guardarti per quello che sei. Un bambino. Un neonato. Un sacchetto di pelle rosea. Una cosa talmente cruda, come dice Tiziano. Un organismo che respira e strilla. Dentro di te pulsa un piccolo cuore. Sei nostro figlio.
Ti chiamiamo per nome, ma per ora sei un bambino di pochi giorni. Non sei ancora veramente tu, anche se non ti manca niente. Mi chiedo quando comincerai a staccarti dallo sfondo indistinto dell’umanità . Ti inoltrerai dentro la figura che ti appartiene incidendola con i tuoi lineamenti sempre piú decisi. Assumerai la tua postura, la tua personalità , comincerai a essere te stesso. Sei già qui, piccolino, ci sei tutto, ma prima o poi arriverà anche il tuo io.
Mi piacerebbe chiamarti con semplicità «figlio», «figlio mio», però suona troppo stucchevole. Ricorda situazioni improbabili, epoche lontane, magari mai accadute veramente, messe in scena in qualche pubblicità o fiction televisiva dal budget risicato, in cui hanno risparmiato sugli sceneggiatori. Chissà se è mai esistito un posto al mondo dove un padre si rivolgeva abitualmente a suo figlio chiamandolo «figlio mio». E poi è arrogante, da proprietario. Non è un appellativo che riuscirei a usare a voce, quando comincerai a parlare e sarai in grado di capire queste parole. Ho deciso di scriverti come stanno le cose a questo mondo, ma non ho ancora capito come debbo rivolgermi a te.
Mario, figlio, bambino mio, sangue del mio sangue, nuovo arrivato, coso crudo, esserino che vivi fuori delle parole, ti scrivo dalle profondità della tua nascita, dai tuoi primi giorni di vita, mi sporgo verso di te che mi leggerai quando avrai quattordici anni, in un altro tempo, in un altro posto. Leggimi cosà come sei, con tutta la delicatezza e la forza d’animo che hai. Ti voglio bene.
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8.
Come ho fatto a essere cosà scemo? Ti ho portato dentro un supermercato prima ancora di averti fatto vedere il mare! Sono proprio un idiota. È troppo tardi per rimediare, ormai sarai per sempre un bambino che avrà visto un supermercato prima ancora di essere stato di fronte al mare. D’altra parte, a pensarci bene, è molto piú plausibile cosÃ.
Però è grave. Capisco se fossi nato a Padova, a Milano, a Bologna. Ma qui, proprio qui, in quest’isola! Il posto dove sei venuto al mondo ha la forma di un grissino: da una parte c’è il mare aperto, dall’altra un bacino semichiuso, una specie di lago marino costiero, pieno di acqua salata. Dentro l’isola, in asse con la lunghezza del grissino, si sono disposte le strade, anzi, quasi soltanto una strada, unica, infinita, con le case e i negozi da una parte e dall’altra, che guardano verso l’interno, si affacciano sulla corsia d’asfalto: fingono di essere in un posto qualunque, indistinguibile da una cittadina di pianura. E cosÃ, si può vivere all’interno di quest’isola facendo finta di non avere l’acqua a destra e a sinistra.
Oggi ho provato ad attraversare l’isola in orizzontale, da una riva all’altra. Dalla riva nordoccidentale a quella sudorientale (dal lago costiero al mare): ho contato seicentoundici passi, sà e no mezzo chilometro. La lunghezza precisa invece non la so, ma devono essere almeno dieci chilometri. Un’isola molto lunga e molto stretta. Un grissino, ti dico.
Durante l’inverno gli stabilimenti balneari sono difesi da un argine di sabbia. Una volta smantellavano i capanni di legno alla fine della stagione e li riassemblavano in primavera. Adesso invece in autunno arrivano le scavatrici e ammucchiano la sabbia, la tirano su fino a formare una lunga paratia alta due o tre metri, lontano dall’acqua, a ridosso della prima fila di capanni: la diga di sabbia è sufficiente a difenderli dalle sfuriate del mare, si fa prima e costa meno che smontare e rimontare tutti i capanni. L’effetto è strano. Fa pensare a un materiale da costruzione per un immenso castello di sabbia, una muraglia cinese ancora grezza, da compattare con paletta e secchiello.
In questi giorni di fine novembre il mare arriva sulla spiaggia con de...