La scimmia di Shinagawa
Ogni tanto scordava il proprio nome. Per lo piú succedeva quando qualcuno tutt’a un tratto le chiedeva come si chiamava. Per esempio, se in una boutique comprava un vestito al quale bisognava accorciare le maniche e la commessa le domandava: «Scusi, a che nome devo segnarlo?»; oppure se faceva una telefonata di lavoro e alla fine del dialogo il suo interlocutore le chiedeva: «Potrebbe ripetermi il suo nome, per favore?», in questi casi perdeva di colpo la memoria. Dimenticava chi era. Per ricordarlo doveva tirar fuori di corsa il portafoglio, prendere la patente e leggere a chi era intestata. Questo atteggiamento suscitava sempre una certa meraviglia in chi le stava davanti; oppure – per quei secondi inattesi di silenzio – dava l’impressione alla persona dall’altra parte del telefono che ci fosse qualche problema.
Quando era lei a fare il proprio nome, tutto questo non succedeva. Bastava che fosse preparata agli eventi e la sua memoria funzionava senza intoppi. Ma quando aveva fretta o doveva rispondere a una domanda improvvisa, nella sua mente si faceva il vuoto, come se una serranda fosse calata di colpo. Cercava con frenesia qualche appiglio che l’aiutasse a ricordarsi come si chiamava, ma niente da fare, veniva inghiottita da un abisso senza contorni.
Però scordava soltanto il suo nome, quello degli altri mai. E nemmeno il suo indirizzo, il numero di telefono e di passaporto, la data del compleanno. Ricordava a memoria il numero degli amici intimi e delle conoscenze di lavoro importanti. Aveva sempre avuto una buona memoria, fin da bambina, l’unico problema era il proprio nome. La cosa era iniziata l’anno precedente, prima non era mai successo, neanche una volta.
page_no="345" Si chiamava Andō Mizuki. Da nubile invece faceva Ōzawa. Nessuno di questi nomi era particolarmente insolito o sensazionale, e in ogni caso che ragione c’era perché sparissero nel corso della giornata?
Aveva cambiato cognome nella primavera di tre anni prima, sposando un uomo che si chiamava Andō Takashi. All’inizio non riusciva ad abituarsi al nuovo nome, «Andō Mizuki», sia il suono che gli ideogrammi che lo componevano le davano un senso di disagio. Ma a forza di ripeterlo, di scriverlo, finí col trovarlo passabile. Se le fosse capitato un binomio come Mizuki Mizuki, o Miki Mizuki (per un breve periodo era stata con un tale che di cognome faceva Miki), allora sí che sarebbe stato un guaio; in confronto Andō Mizuki era magnifico. Cosí poco a poco l’aveva accettato.
Un anno prima, tuttavia, quel nome aveva cominciato a sfuggirle. Nei primi tempi le succedeva circa una volta al mese, ma col passare dei giorni la frequenza era andata aumentando. Al momento il ritmo era di almeno una volta alla settimana, e quando accadeva diventava una donna senza identità: nessuno, insomma. Finché aveva con sé il portafoglio poco male, le bastava prenderlo e guardare la patente. Ma se per caso l’avesse perso, forse non avrebbe piú saputo né chi era né dove si trovava. Naturalmente, anche se per qualche istante dimenticava il suo nome, sapeva di essere se stessa, e dal momento che ricordava l’indirizzo e il numero di telefono, non si può dire che la sua esistenza venisse annullata. Era un caso diverso da quello degli smemorati totali che si vedono nei film. Ad ogni modo quelle temporanee dimenticanze erano terribilmente problematiche e le davano insicurezza. Una vita senza nome, pensava, era come un sogno dal quale non c’è modo di svegliarsi.
In una gioielleria comprò un sottile braccialetto, molto semplice, sul quale si fece incidere Andō (Ōzawa) Mizuki. Niente indirizzo o numero di telefono. «Eccomi diventata come un cane o un gatto», pensò avvilita. Quando usciva di casa metteva sempre il braccialetto, di modo che, se si fosse dimenticata come si chiamava, le sarebbe bastato gettarvi un’occhiata. Non avrebbe piú avuto bisogno di tirar fuori il portafoglio, e la gente non l’avrebbe piú guardata con aria stupita.
page_no="346" Al marito non aveva fatto cenno di quel problema che si verificava di frequente, sicura che lui le avrebbe detto: «È perché non sei contenta della tua vita con me, perché non sei felice». Era uno cui piaceva polemizzare. Non per malignità, semplicemente doveva trovare una spiegazione logica ad ogni cosa. A lei invece quel modo di interpretare gli eventi non piaceva. Inoltre quando discuteva col marito, che era un abile parlatore, non riusciva a tenergli testa. Cosí aveva deciso di lasciarlo all’oscuro.
In ogni caso, la prevedibile interpretazione di lui non coglieva nel segno. Mizuki non era insoddisfatta o delusa dalla vita matrimoniale. Non era scontenta del marito – malgrado la sua eccessiva razionalità la infastidisse – né poteva lamentarsi della sua famiglia: il suocero era un medico con studio a Sakata, nella regione di Yamagata, e né lui né la moglie erano cattive persone. Certo non avevano una mentalità progressista, ma la lasciavano abbastanza tranquilla dal momento che aveva sposato il secondogenito. Essendo nata e cresciuta a Nagoya, Mizuki avrebbe sopportato male il gelido inverno di una regione fredda e ventosa come Yamagata, ma andarci una o due volte all’anno per un breve periodo era piacevole. Col marito, dopo due anni di matrimonio, aveva acceso un mutuo e comprato un appartamento in un palazzo nuovo nel quartiere di Shinagawa, a Tōkyō. Ora lui aveva trent’anni ed era ricercatore in un’azienda farmaceutica, mentre lei ne aveva ventisei e lavorava presso una concessionaria della Honda. Rispondeva al telefono, accoglieva i clienti, li faceva accomodare e portava loro un caffè o un tè; se necessario faceva le fotocopie, teneva in ordine la documentazione, aggiornava la lista dei clienti sul computer.
Dopo aver preso una laurea breve in un college della sua città, Mizuki era stata assunta in quella concessionaria grazie a uno zio, che era un dirigente della Honda. Non si poteva dire che fosse un lavoro esaltante, ma ogni tanto comportava delle responsabilità e a suo modo era coinvolgente. Vendere le auto non faceva parte delle sue mansioni, ma in assenza degli incaricati era perfettamente in grado di rispondere alle domande dei potenziali acquirenti. A forza di osservare i colleghi ne aveva imparato con facilità i trucchi, e aveva anche acquisito la competenza necessaria. Spiegava con ardore che la monovolume Odyssey era docile e scattante, conosceva a memoria il prezzo di ogni modello. Avendo una bella parlantina e un sorriso accattivante, riusciva sempre a sciogliere le riserve del cliente. Intuiva la personalità di chi le stava davanti ed era in grado di variare con scioltezza la sua strategia. Diverse volte era arrivata a un passo dalla firma di un accordo, ma l’ultima fase delle negoziazioni, purtroppo, doveva sempre lasciarla all’incaricato delle vendite. Non poteva fare sconti, discutere i prezzi o concedere gratis elementi opzionali, erano mansioni che non le spettavano. Anche se conduceva a buon fine metà delle trattative, all’ultimo interveniva qualcun altro che si prendeva la commissione. L’unica ricompensa che a volte le toccava era un invito a cena da parte del fortunato venditore.
«Se mi lasciassero fare, – pensava a volte, – venderemmo piú automobili e nell’insieme avremmo un fatturato maggiore. Se mi ci metto, posso ottenere risultati ben migliori di quei ragazzotti appena usciti dall’università». Peccato che nessuno le dicesse mai: «Hai talento, è uno spreco tenerti a gestire cartelle e rispondere al telefono. D’ora in poi ti occuperai delle vendite». È cosí che funziona un’azienda. Ognuno al suo posto. Una volta stabilite le competenze, a meno che non si verifichi un evento straordinario, la struttura non si altera. Inoltre Mizuki non nutriva veramente l’ambizione di operare in un settore professionale piú vasto e fare carriera. Preferiva avere un orario di lavoro fisso – dalle nove alle cinque – prendere tutte le ferie che le spettavano durante l’anno e godersi in pace il tempo libero. Era fatta cosí.
In azienda continuava a usare il cognome da nubile. Informare del cambiamento tutte le persone con cui conduceva ogni giorno transazioni sarebbe stata una gran seccatura, il motivo principale era questo. Quindi sui biglietti da visita, sulla targhetta che portava sul petto e sulla tessera c’era ancora scritto Ōzawa Mizuki. Tutti la chiamavano cosí, e anche lei quando rispondeva al telefono si presentava come tale: «Pronto? Sono Ōzawa della concessionaria Honda di XX». Non perché rifiutasse il suo nuovo nome, semplicemente non aveva voglia di dare spiegazioni.
page_no="348" Il marito era al corrente di questa circostanza – succedeva che le telefonasse in ufficio –, ma non ne era infastidito piú di tanto. Sua moglie poteva usare sul lavoro il nome che le pareva, era una semplice questione di praticità. Se una cosa era logica, non aveva obiezioni da fare. In questo senso era una persona accomodante.
Temendo che dimenticare il proprio nome fosse il sintomo di una grave patologia, Mizuki si sentiva inquieta. E se si trattava di Alzheimer? O di qualcos’altro? Al mondo c’erano migliaia di malattie mortali! Per esempio, fino a poco prima aveva ignorato l’esistenza della miastenia o della malattia di Huntington. E chissà quanti altri malanni c’erano di cui lei non aveva mai sentito parlare! Nella maggior parte dei casi i primi sintomi erano insignificanti. Sí, insignificanti, per quanto strano potesse sembrare… la tendenza a dimenticare il proprio nome, ad esempio, poteva essere uno di quei sintomi. Da quando quel pensiero le si era insinuato in testa, non riusciva a calmare l’angoscia: mentre lei si lambiccava il cervello, chissà che nel suo corpo i germi di una malattia assurda non stessero gradualmente diffondendosi!
Andò all’ospedale a consultare un medico al quale spiegò la situazione. Ma il dottorino che la visitò – con il viso esangue e l’aria spossata sembrava piuttosto un paziente – non la prese molto sul serio.
– Ci sono altre cose che dimentica, oltre al suo nome? – le chiese.
– No, per il momento no, – rispose Mizuki.
– Mmh. Be’, credo che dovrebbe piuttosto rivolgersi a uno psicanalista, – disse il medico in tono del tutto inespressivo. – Se dovesse incominciare a dimenticare altri elementi della sua vita quotidiana, torni a consultarmi. A quel punto faremo delle analisi specialistiche mirate –. Aveva l’aria di dire che in quell’ospedale arrivavano pazienti con malattie ben piú gravi, e loro medici erano già oberati di lavoro. Dimenticare ogni tanto il proprio nome non era una tragedia; che si desse una calmata insomma.
Un giorno, sul gazzettino di Shinagawa che arrivava con la posta, lesse un trafiletto nel quale veniva annunciata l’apertura, da parte del municipio della circoscrizione, di un «Centro di sostegno psicologico». Erano solo poche righe, cui in altre circostanze non avrebbe fatto caso. C’era scritto che una volta alla settimana, per una modica spesa, era possibile avere un colloquio privato con uno specialista. Qualunque persona residente a Shinagawa, purché avesse compiuto i diciotto anni, poteva avvalersi liberamente del servizio. Le consultazioni erano strettamente personali, e la privacy garantita.
Un Centro di sostegno sponsorizzato dal Comune? Chissà se poteva davvero rivelarsi utile… Be’, valeva la pena provare, si disse Mizuki. Cosa ci perdeva? Lavorando alla concessionaria il sabato e la domenica, durante la settimana per lei era relativamente facile prendere un giorno di ferie e adeguarsi all’orario delle consultazioni – un orario che non teneva conto delle esigenze generali, visto che cadeva nelle ore lavorative. Mizuki telefonò per prendere appuntamento, come veniva richiesto. Il costo era di duemila yen per una seduta di trenta minuti. Una spesa che poteva permettersi senza problemi. Prenotò per il mercoledí successivo, all’una.
Quel giorno, quando si presentò alla «sala di consultazione», al terzo piano del palazzo municipale, scoprí di essere l’unica paziente.
– È un programma che abbiamo messo su di recente, in poco tempo, – le spiegò la donna alla reception, – può darsi che la gente non ne sappia ancora nulla. Vedrà che quando si spargerà la voce, ci saranno molte persone. È fortunata, lei, a essere la sola.
La psicologa, che si chiamava Sakaki Tetsuko, era una simpatica donna di mezz’età, piccolina e piuttosto in carne. Aveva i capelli corti, un po’ schiariti, e un viso largo su cui aleggiava un sorriso affabile. Indossava un tailleur leggero color pastello sopra una camicetta di seta lucente, al collo aveva una collana di perle finte e ai piedi scarpe dal tacco basso. Piú che una psicologa, sembrava una di quelle vicine premurose, sempre pronte a dare una mano.
– A dire la verità, mio marito lavora in questo municipio, – disse in tono confidenziale dopo essersi presentata. – È il direttore dell’ufficio lavori pubblici. È una delle ragioni che ci hanno permesso di ottenere un finanziamento e aprire questo Centro di sostegno. Lei è la prima a presentarsi. Grazie per la fiducia. Oggi non sono previsti altri pazienti, quindi possiamo parlare senza fretta, in tutta tranquillità.
– Lieta di conoscerla, – disse Mizuki, chiedendosi in cuor suo se si fosse rivolta alla persona giusta.
– A prescindere da quanto le ho detto, io sono una psicologa qualificata, e ho anche una lunga esperienza professionale. Quindi non si preoccupi, la nave su cui è salita è solida, – aggiunse sorridendo la donna come se le avesse letto nel pensiero.
La signora Sakaki era seduta dietro una scrivania in alluminio, mentre Mizuki si era accomodata su un divano a due posti. Un vecchio divano che aveva tutta l’aria di essere stato tirato fuori in fretta e furia da un ripostiglio. Aveva le molle allentate e mandava un odore di polvere che irritava il naso.
– Ci vorrebbe un divano come si deve, la stanza avrebbe un aspetto piú professionale, – disse la psicologa, – ma per il momento non l’abbiamo trovato. Sa, trattandosi di un’amministrazione pubblica, non allentano facilmente i cordoni della borsa. Mi spiace doverla accogliere in un posto cosí disadorno. Ma abbiamo intenzione di apportare dei miglioramenti, vedrà che la prossima volta troverà tutto cambiato. Per oggi la prego di portare pazienza.
Sprofondata in quel pezzo d’antiquariato, Mizuki raccontò, cercando di esporre i fatti con ordine, come le capitasse con frequenza di dimenticare il proprio nome. La signora Sakaki non faceva domande, non mostrava sorpresa. Non la incoraggiava. Si limitava ad annuire in silenzio ascoltando attentamente le sue parole con un accenno di sorriso sulle labbra, un sorriso placido come una luna di primavera. Solo ogni tanto aggrottava le sopracciglia, come se riflettesse.
– È stata una buona idea, mettere un braccialetto con il suo nome, – disse finalmente quando Mizuki finí di parlare. – Ha avuto una risposta corretta. Cercare di ridurre nella misura del possibile i disagi effettivi è essenziale. Meglio affrontare il problema concretamente, evitando di sentirsi in colpa, di arrovellarsi e perdere la testa. È una persona intelligente lei, sa? E poi è stupendo, quel braccialetto. Le sta d’incanto.
page_no="351" – E… pensa che il fatto di dimenticare come mi chiamo possa degenerare in qualche grave malattia? – chiese Mizuki.
– Oh, be’, non credo. Non ci sono malattie con sintomi iniziali cosí circoscritti, – rispose la psicologa. – Tuttavia mi preoccupa un po’ il fatto che nell’ultimo anno sia peggiorata. Può anche darsi che il sintomo innesti qualche altra patologia, oppure che il vuoto di memoria si estenda ad altri campi… diciamo che c’è questa possibilità. Quindi credo sia meglio trovare fin da ora l’origine del fenomeno, facendoci qualche bella chiacchierata. A parte il fatto che dimenticare il suo nome deve causarle non pochi problemi pratici, sul lavoro.
Per cominciare, la psicologa pose a Mizuki alcune domande sulla sua vita quotidiana. Da quanti anni era sposata? Quali erano le sue mansioni presso la concessionaria? Fisicamente si sentiva in forma? Poi la fece parlare un po’ della sua infanzia. Si informò sulla sua famiglia, sulla vita scolastica. Sulle cose che le erano piaciute e su quelle che invece non le erano andate giú. Sulle cose in cui era brava e su quelle in cui non lo era. Mizuki rispondeva sinceramente ad ogni domanda, con prontezza e precisione.
Era cresciuta in una famiglia come tante. Il padre lavorava in una grande compagnia di assicurazioni. Non erano particolarmente facoltosi, ma non ricordava che in casa ci fossero mai stati problemi di soldi. Aveva una sorella maggiore. Il padre era una persona seria, la madre un po’ pignola e rompiscatole. La sorella a scuola era bravissima, ma aveva una mentalità piuttosto superficiale e opportunista – a detta di Mizuki. Ad ogni modo con i suoi famigliari andava d’accordo, non c’erano motivi di attrito. Non avevano mai litigato veramente. Quanto a lei, era stata una bambina tranquilla che non amava farsi notare. Con una salute di ferro – mai una malattia – ma non per questo brava negli sport. Riguardo al proprio aspetto non aveva complessi, ma era anche vero che non si aspettava complimenti da nessuno. Non si riteneva una stupida, tutt’altro, eppure non eccelleva in nessun campo. I suoi voti a scuola erano nella media, ma in graduatoria si faceva prima a cercare il suo nome partendo dall’alto piuttosto che dal basso. Da ragazza aveva diverse amiche, ma tutte prima o poi si erano sposate ed erano andate a vivere...