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Stabat Mater
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Signora Madre, è notte fonda, mi sono alzata e sono venuta qui a scrivervi. Tanto per cambiare, anche questa notte l’angoscia mi ha presa d’assalto. Ormai è una bestia che conosco bene, so come devo fare per non soccombere. Sono diventata un’esperta della mia disperazione.
Io sono la mia malattia e la mia cura.
Una marea di pensieri amari sale e mi prende alla gola. L’importante è riconoscerla subito e reagire, senza lasciarle il tempo di impadronirsi di tutta la mia mente. L’onda cresce rapida e ricopre tutto quanto. È un liquido nero, velenoso. I pesci moribondi salgono in superficie, con le bocche spalancate, annaspano. Eccone un altro, viene su boccheggiando, muore. Quel pesce sono io.
Mi vedo morire, mi guardo dalla riva, ho i piedi già bagnati di quel liquido nero e velenoso.
Arriva in superficie un altro pesce agonizzante, è il pensiero del mio fallimento, sono ancora io quella, sto morendo un’altra volta.
Perché venire a galla? Meglio morire sott’acqua. Vengo tirata giú. Mi sento sprofondare. È tutto buio.
Poi sono di nuovo sulla riva, in piedi, ancora io, ancora viva, guardo il mare velenoso, nero fino all’orizzonte, i pesci morti pullulano, con le bocche spalancate. Sono io, siamo io, mille volte, mille pesci in agonia, mille pensieri di distruzione, sono morta mille volte, continuo a morire senza smettere di agonizzare. Il mare si gonfia, sale, è velenoso, nero.
Sono il pesce con gli occhi velati, salito in superficie per morire. Guardo in alto, sopra la mia testa. C’è un orizzonte livido, le nuvole sono scure, come un mare capovolto, il cielo nuvoloso è fatto di onde immobili, sfuocate.
Vedo la riva di un’isola minuscola, là in fondo c’è una ragazza che si guarda intorno. Mi guarda mentre muoio, non può fare niente per me, quella ragazza sono io.
Fai qualcosa per me, ragazza sulla riva, fai qualcosa per te stessa. Non lasciarti amareggiare da ciò che senti dentro di te. Dovunque ti volti vedi la tua disfatta. La marea nera sale, è piena di pesci morti. Reagisci, non soccombere.
Bisogna fare in fretta, prima che io sia completamente sopraffatta, finché c’è un angolino della mia mente che riesce a vedere che cosa le sta succedendo. Bisogna trascinarsi lí con tutte le forze, ritirarsi in quel cantuccio ancora capace di prendere decisioni, e dire: io.
Io non sono questo sfacelo, io ce la posso ancora fare, io sono forte, io non voglio lasciarmi sciogliere dentro questo veleno nero, io non sono tutta questa morte che vedo, io non voglio inghiottire questo mare, io non lascerò che tutto questo buio entri dentro di me e mi cancelli.
Ci sono ancora, da qualche parte, sono qui, separata da questa devastazione, l’angoscia non mi ha ancora presa tutta, c’è ancora un angolo dove posso mettermi al riparo e dire: io.
Se riesco ancora a farlo, per questa notte sono salva, sono in grado di alzarmi e lasciarmi alle spalle il mio letto di affanni e venire qui a scrivervi.
Signora Madre, tanto per cambiare anche questa notte mi sono ritrovata con gli occhi spalancati a fissare il soffitto. Non è proprio un soffitto, per la verità, perché sopra di me c’è il letto di Maddalena. Qui dentro dormiamo in file di letti fissati al muro come mensole. Quelle che dormono nei letti inferiori hanno sopra la testa una specie di soffitto personale, che è fatto dalle assi dei letti superiori.
E cosí il mio soffitto sono le assi del letto di Maddalena. È piuttosto basso, se sollevo il braccio posso toccarlo. Naturalmente non lo faccio, perché ormai mi conosco, sono troppo distratta. Mi è già successo di alzare il braccio mentre pensavo ad altro. Ho toccato le assi con la punta delle dita, senza rendermene conto, ho tolto una scheggia da uno spigolo e poi, sempre sovrappensiero, ho cominciato a grattare il legno con le unghie.
– Che cosa vuoi? – mi ha chiesto all’improvviso Maddalena, sporgendosi dalla sponda del suo letto, sopra di me, con tutta la testa. Mi ha fatto trasalire. Nel buio distinguevo il contorno della sua capigliatura scarmigliata, sembrava circondata di serpenti neri.
– Volevi dirmi qualcosa? – mi ha chiesto. Io sono rimasta zitta, non avevo proprio niente da dirle.
Io non ho niente da dire a nessuno. Non sono amica di nessuno, qui dentro.
Scusatemi, vi sto raccontando cose senza nessuna importanza. Le schegge di legno sulle assi del letto! Mi vergogno, Signora Madre, vi chiedo perdono. Ma da qualche parte dovevo pur cominciare, voi non sapete niente di me, non sapete niente di niente.
Quando arriva l’angoscia, quasi ogni notte, il rimedio infallibile è non indugiare a letto. Allora mi alzo e vengo qui a trovarvi. Estate e inverno. D’inverno, in particolare, uscire dalle coperte mi fa bene, cancella di colpo ogni tetraggine, come un secchio di acqua gelata. Non importa se prendo freddo. Il mio corpo si è abituato a queste nottate gelide. È sempre meglio che lasciarsi tormentare dai pensieri cattivi in quel letto caldastro, malsano. Salgo le scale, arrivo qui sopra e mi siedo sul gradino piú alto, addossandomi a questo muro, da dove filtra il calore che mi basta. È il mio posto segreto. Per arrivarci indosso uno scialle che mi protegge, mi fa pensare a voi. Signora Madre, io vi avvolgo con il mio pensiero, mi sentite?
Ho alzato il braccio, tocco le assi del letto sopra di me, spezzo una piccola scheggia, gratto la superficie ruvida, una testa si sporge fuori dalla sponda, al posto dei capelli ha tanti serpenti neri.
– Che cosa c’è, mi hai chiamato?
– Chi sei? – le chiedo.
– Sono la tua morte, – dice la testa con i capelli di serpente. La sua voce è gentile.
– Mi faresti compagnia? – le domando.
– Vuoi che ti porti con me?
– Se per te va bene, non vorrei ancora morire, – le dico.
– E allora che cosa vuoi? – La testa continua a parlarmi dolcemente, non ha perso la pazienza.
– Vorrei che tu mi restassi sempre accanto.
– E di che cosa vuoi che parliamo?
– Non lo so, – le dico.
– Io sono di poche parole.
– Non importa.
– E poi non c’è molto da dire, – dice la testa dai capelli di serpente.
– Mi basta che mi stai vicina.
– Per fare cosa?
– Vorrei che mi aiutassi a non dimenticarmi mai di te.
Signora Madre, vi ricordate di me? Sapete come mi chiamo? Mi presento, sono Cecilia. Vi piace questo nome? Voi come mi avreste chiamata? Avevate pensato a un nome, quando mi ospitavate dentro di voi?
(«Durante il mio breve soggiorno nel vostro ventre», stavo per scrivere).
Sí, io sono intima del buio, ma non ne sono per niente orgogliosa. Prenderei questa mia intimità col buio e la baratterei volentieri con qualche ora di sonno, per ristorare il mio spirito e dargli un po’ di pace. Non saprei dirvi quand’è stato che ho preso l’abitudine di alzarmi la notte. Di una cosa però sono sicura: il primo ricordo che ho di me, il ricordo piú lontano nel tempo, è il buio. È cosí, non esagero, il mio primo ricordo di bambina sono i miei occhi spalancati nel buio. Si può dire che la mia infanzia non sia stata altro che una lunga sequenza di tenebre. Non ve lo dico per lamentarmi, e nemmeno per farvi stare male. È cosí, è semplicemente cosí.
Signora Madre, vi è mai capitato di immaginarmi? Vi siete mai chiesta come ho trascorso i miei primi anni di vita? Se volete che la vostra immaginazione rappresenti il vero, dovete figurarvi una bambina che passa le notti a occhi aperti, tormentata dall’angoscia.
Non dovete credere che sia il buio a farmi paura. E nemmeno il silenzio. Qui il silenzio completo non c’è mai. Di giorno le stanze sono piene di voci e di musica. Di notte si sentono i respiri delle ragazze addormentate. Ognuna ha il suo modo particolare di respirare nel sonno, e a me, quando non sono angosciata da altri pensieri, non dispiace passare la notte a distinguere i loro respiri. Qualcuna russa, ma non mi dà fastidio. Ognuna ha una personalità notturna, che a volte contraddice la personalità che si rivela alla luce del giorno.
Ogni mattina, come i fiori, il sole fa sbocciare i volti.
Quando dorme, Maddalena ha il fiato grosso, per lei dev’essere una grande fatica riposare, mentre di giorno il suo passo è lieve, le sue parole sono delicate, sorride volentieri. Forse fa sogni faticosi, nei quali le ricade addosso tutto quello che è riuscita a evitare durante la giornata.
Di tanto in tanto, quando sono distesa nel mio letto al buio, colgo qualche piccolo schiocco indecifrabile, in lontananza. Sembra fatto apposta per ricordarmi che qui dentro siamo in un edificio enorme, complicato, pieno di sale, stanze grandi e piccole, e scale scavate come cunicoli nelle intercapedini fra le stanze, e rampe di gradini che si inerpicano, in diagonale, sospese sopra voragini architettoniche.
Provo a immaginare il percorso che ha fatto quel rumore per arrivare fino alle mie orecchie, salendo su per le scale, attraversando i corridoi, infiltrandosi nelle fessure, trapassando serrature e porte. I rumori, anche quelli piú sinistri, sono sempre stati un conforto per me, perché mi distolgono dai miei pensieri. Tendendo l’orecchio, restando ad ascoltare, mi trasferisco lontano da me stessa.
I rumori sono i miei pensieri esterni. Sono quella parte della mia mente che sta fuori di me, oltre il mio contorno, distante dal mio corpo. Sono il mio io piú vasto.
Volete sapere che cosa penso quando sto male? Non saprei dirlo con precisione. Mi sento perduta, completamente perduta. In quei momenti ho la certezza che per me non ci sia niente da fare, tutto è amaro.
– Non devi angosciarti cosí, – mi dice la testa dai serpenti neri.
– Che cosa posso fare?
– Non lo so.
– Credi che sia meglio morire, per me? – le domando.
– Può darsi. Prova a immaginarti morta.
– Come?
– Come ti viene meglio.
– Vedo un corpo immobile e freddo.
– Ma tu dove sei?
– Fuori da quel corpo, da qualche parte, per aria. Lo sto immaginando.
– Non va bene. Ti sei soltanto cambiata di posto. Devi immaginarti morta da dentro.
– Dovrei immaginare di non riuscire piú a immaginarmi?
– Infatti.
– È impossibile.
– Allora lascia stare, se non sei capace. Vai a scrivere alla tua mammina, va’.
– Ma tu… Tu…!
La chiamo ancora, tante volte, sottovoce, ma la testa con i capelli di serpente non mi risponde.
Certe volte, nel buio, ho l’impressione di vedere qualcosa sopra di me, una specie di grande palla piena di spine. È una sfera rocciosa completamente ricoperta di pungiglioni lunghissimi, come un riccio, però sassoso, fatto di pietra. Quella per me è la vita, la mia vita, il male.
Signora Madre, ho imparato che quando mi succede, e mi succede ogni notte, non debbo assolutamente restare distesa nel letto a tormentarmi, devo alzarmi e venire qui da voi.
Striscio fuori dalla camera, percorro un corridoio lunghissimo, mi infilo in un passaggio quasi invisibile che solo io conosco e salgo sulla piccola scala che porta a un pianerottolo, sotto una porticina chiusa. È una delle tante scale dell’edificio. Mi siedo su quei gradini, in alto. D’inverno mi addosso al muro, dove passa la canna fumaria di una stufa, i mattoni sono caldi. Rimango seduta per un po’ sulla sommità della rampa, finché l’angoscia non mi passa. Sotto di me sento le scale che sprofondano fino al centro della terra. Mi aggrappo alla ringhiera, per non precipitare anch’io.
Sapeste quanto ho tenuto stretto nella mia mano quel metallo freddo, in tutti questi anni! Sarei capace di modellarlo a occhi chiusi, con la creta, rifacendolo tale e quale, se me lo chiedessero. Ne conosco a memoria la forma, le foglioline che fanno da ornamento, di ferro, un po’ taglienti.
Ho appena scritto una stupidaggine. Perché mai qualcuno dovrebbe chiedermi di rifare la ringhiera con la creta? A che cosa mi è servito conoscere quelle foglioline di metallo? A che cosa mi è servito imparare a memoria tutti i particolari del mondo?
Signora Madre, dovete avere pazienza con me, mi vengono in mente cose senza senso, ma qui dentro è cosí, le cose si ripetono e noi entriamo in confidenza con un gran numero di dettagli.
Sentire fra le dita sempre la stessa forma della stessa fogliolina di metallo attaccata alla ringhiera delle scale. Incontrare sempre la stessa piastrella rotta del pavimento, ogni mattina, andando dalla chiesa al refettorio, la terza piastrella del primo corridoio al secondo piano. Riconoscere una tacca sulla maniglia di ottone della sala.
Signora Madre, che stupida che sono. Voi non sapete ancora niente di me, e io mi perdo a raccontarvi cose di nessun conto. Pensate che cosa mi è tornato in mente: ero ancora piccola, sarà stato sette o otto anni fa. Da tre giorni un dente mi dondolava in bocca, proprio un dente davanti, in alto. Era il primo dentino che perdevo. Le mie compagne mi dicevano che avrei dovuto procurarmi un filaccio, oppure fare una treccina con tre capelli lunghi, passarla intorno al mio dente e annodare l’altro capo della treccia a una maniglia, per poi chiudere di scatto la porta. Io non me la sono sentita, mi faceva troppa impressione. Mi strappavo un capello per fare la treccia, poi ci ripensavo e lo mettevo fra le labbra, lo risucchiavo a poco a poco, facendolo a pezzettini fra i denti.
Poi, una notte, seduta su questi gradini, mi sono messa le dita in bocca, ho stretto pollice e indice a tenaglia e ho dato uno strattone. Il dente mi è rimasto in mano al primo colpo. Il suo orlo frastagliato scintillava nel buio. Stavo per gettarlo al di là della ringhiera, nella tromba delle scale. Scommetto che avrei dovuto contare fino a mille prima di sentirlo toccare il fondo, al centro della terra. Invece, senza pensarci, ho rimesso in bocca il mio piccolo dente morto e l’ho inghiottito. Volete che vi dica che cosa ho provato? Per me è stato lo stesso che averlo gettato nella tromba delle scale: qualcosa che cade, che sparisce e si perde in un fondo scuro. Un pezzettino di me mi cadeva dentro e scompariva nel nulla. Quella notte ho sentito che io non mi appartenevo, non ero di mia proprietà, non lo sarei mai stata.
Da piccola le mie notti trascorrevano sempre uguali. Ero come allucinata, restavo seduta sul gradino piú alto della rampa, all’ultimo piano.
È la stessa dove mi trovo anche adesso. Gli occhi si abituano al buio, si arrangiano con quel poco di luce che c’è.
Cosí rimanevo a fissare l’angolo del muro, imbambolata, a volte anche per ore. La linea dove le due pareti si incontravano mi sembrava una cicatrice. Lo spazio aperto, fuori, era una ferita. Qualcuno doveva avere chiuso la ferita dello spazio costruendo quelle pareti.
Immaginavo che cosa c’era lí fuori, tanti secoli fa, quando non esistevano muri né case né niente, quando c’era solo spazio aperto, l’acqua e le isole melmose, ricoperte di sterpaglie. Il vento le spazzava, le donne avevano paura, si facevano compagnia nella notte, i bambini si rannicchiavano in mezzo a loro.
Da qualche parte filtrava del chiarore, nel pianerottolo sulla sommità delle scale. C’è sempre un po’ di luce che rimane da qualche parte, di notte. Ma non si addensa mai negli angoli, non è come un batuffolo di polvere, è una sostanza piú sottile dell’aria. È un sottofondo.
Il buio è solo un’apparenza, il vero sottofondo è la luce.
A me piaceva pensare che me lo stessi inventando io, quel poco di luce che c’era, perché anche nel buio piú fitto ho scoperto che posso chiudere gli occhi e immaginare la luce, e allora è come se la mia testa si illuminasse da sola, da dentro, in segreto io posso pensare la luce, accendere una luce dentro di me.
Non ricordo quando è stata la prima volta che mi sono alzata dal letto e ho passato la notte sulla cima delle scale. A pensarci bene, non dev’esserci nemmeno stata una prima volta. Mi sa che è stato cosí da sempre. Io ho trascorso tutte le mie notti in questo modo, fin da quando ero piccolissima, fin da quando sono qui. Arrivo a dire che non sarei quella che sono, se non avessi la mia insonnia. È una parte di me, e mi chiedo come farei a continuare a vivere, senza questo appuntamento notturno con la mia nullità.
Signora Madre, vi scrivo nell’oscurità, senza candela accesa, senza luce. Le mie dita scorrono sul foglio appoggiato sopra le ginocchia. Bagno la penna nell’inchiostro, la intingo nel cuore della notte. Riesco a distinguere con difficoltà le parole che si srotolano sulla pagina, forse non sono nient’altro che grumi di buio anche loro. Dentro queste parole, ogni not...