
- 104 pagine
- Italian
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Sempre caro
Informazioni su questo libro
Nuoro, fine Ottocento. Bustianu Satta, al secolo Sebastiano Satta (1867-1914), un giovane avvocato e poeta, accetta di difendere Zenobi Sanna, un pastore accusato di furto di bestiame. Il giovane, inspiegabilmente, non solo si è dato alla latitanza ma pare voglia distruggere le possibili prove a suo favore complicando la vicenda che inizialmente appare di facile soluzione.
In una narrazione a tre voci, «con una sapiente, calcolatissima commistione tra lingua e dialetto», come scrive Andrea Camilleri nella sua Prefazione, Fois ci immerge in una oscura e delittuosa storia che costringerà l'avvocato, tra reticenze, patrimoni contesi, lettere e fotografie misteriose, a improvvisarsi investigatore per risolvere il caso. «Dice che l'avevano visto pensieroso, come sempre quando aveva una causa difficile. Che tutto si poteva dire di lui, ma non che non prendesse sul serio il suo lavoro».
In una narrazione a tre voci, «con una sapiente, calcolatissima commistione tra lingua e dialetto», come scrive Andrea Camilleri nella sua Prefazione, Fois ci immerge in una oscura e delittuosa storia che costringerà l'avvocato, tra reticenze, patrimoni contesi, lettere e fotografie misteriose, a improvvisarsi investigatore per risolvere il caso. «Dice che l'avevano visto pensieroso, come sempre quando aveva una causa difficile. Che tutto si poteva dire di lui, ma non che non prendesse sul serio il suo lavoro».
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Informazioni
Print ISBN
9788806195786eBook ISBN
9788858403266Sempre caro
a Francesco Olla
A me me l’ha raccontata cosà mio padre.
E sarebbe che Bustianu stava andando per i fatti suoi, a farsi la passeggiata in collina dopo mangiato. Il sempre caro.
Quei quattro passi li chiamava cosÃ: sempre caro, come la poesia di Leopardi: sempre caro mi fu quest’ermo colle... Che poi, per la precisione quando diceva sempre caro, non è che volesse dire il colle, voleva dire proprio «andare a prendersi il fresco in altura» e guardarsi il panorama e il bestià mene e prendersi un po’ d’arietta, che dalle nostre parti quando fa caldo, fa caldo.
... Dice che l’avevano visto pensieroso, come sempre quando aveva una causa difficile. Che tutto si poteva dire di lui, ma non che non prendesse sul serio il suo lavoro. In Corte d’Assise fatica non ne conosceva e chi si affidava a lui sapeva che tutto quello che c’era da fare l’avrebbe fatto. E mica per i soldi! Questo no. Che mio padre una volta dice che gli aveva detto: «Chie tenet dinare comparit innozente, s’abbocà !» E lui dice che l’aveva guardato bene negli occhi e aveva fatto uno di quei sorrisi larghi che sapeva fare lui e aveva scrollato le spalle. Poi dopo un po’ di tempo gli aveva detto: «Zommarû, che mio padre faceva Giovanni Maria di nome di battesimo, «su dinare non fachet leze!»
Insomma erano piú le volte che difendeva per niente, ma poi il suo tornaconto ce l’aveva lo stesso, che era rispettato da tutti. Insomma: di fame non ne pativa. E c’era chi stava peggio, come in tutte le situazioni, non è che siamo qui a dire niente di nuovo.
Era pensieroso, la sua causa non stava andando bene e il suo difeso si era fatto latitante.
Stava difendendo un giovanotto, che risulta parente di quelli di Portapanni, che abitavano al Contone, che la mamma, tzia Rosina, faceva il pane e i dolci, dà i, che li vendeva in casa. E signori dolci, che non faceva in tempo a soddisfare le ordinazioni, venivano anche da Orgòsolo. E questo è dire tutto!
Insomma, il figlio di questa donna, Zenobi, un giovanotto che era una meraviglia, biondo e con gli occhi celesti, si era messo nei guai alla fine del mese di dicembre, proprio verso Capodanno, per via di certi capi di bestiame che erano spariti, che pare che lui c’entrasse qualcosa. Insomma com’è come non è, lo accusano di aver rubato degli agnelli per venderseli per conto suo.
Allora la mamma come ha potuto si reca dae Bustianu, tutta ben messa col mucadore ricamato e la franda di velo...
... – S’abbocà , questa non è cosa da mio figlio, che lo conoscerò pure! Me lo dovete difendere voi, che a voi vi ascoltano, che siete persona importante, dite quanto è, solo questo.
– Si deve costituire, se rimane nella lista dei latitanti la cosa diventa piú difficile.
– Non ne vuol sapere, credete che non gliel’abbia detto? Mi’, gli ho detto che se si metteva nelle mani della Giustizia era meglio, che tanto di male grave non ne aveva fatto. Ma lo sapete anche voi: chi non ha parte in corte...
– E lui?
– E lui che niente, che non c’entra, che gli hanno voluto fare una cosa troppo brutta. Se lo vedesse, s’abbocà , è irriconoscibile: sporco, magro... Figlio mio!
– No, no, questo no. Mettetevi a sedere e asciugatevi gli occhi. Voi che cosa avete detto ai carabinieri quando sono venuti a prenderlo?
– Che non era in casa gli ho detto! Che cosa gli dovevo dire?
– Non gli avete detto che vostro figlio era fuori Núoro da due giorni?
– Eja, anche questo.
– Fuori Núoro dove, esattamente.
– Fuori Núoro, s’abbocà , come si fa a sapere queste cose precise! Grazie a Dio Zenobi est impilÃu. Non è che ce l’ho piú al seno, s’abbocà .
– Va bene, dà i. Ma se lo devo difendere, queste cose lasciamole perdere... Adesso vi prendete qualche minuto per pensare, vi mettete comoda comoda e mi raccontate tutto: per filo e per segno.
Era seduta davanti a me. Minuta. Ben messa con gli abiti delle grandi occasioni. Mi disse che quella notte di fine dicembre, quando il brigadiere Poli Arturo, facente parte comandante della locale stazione della Regia Arma dei Carabinieri per assenza, causa trasferimento, dell’ufficiale deputato, si presentò alla porta del suo casolare, la sua vita finà di colpo. «Quella che vedete è una morta, s’abbocà !» mi disse tzia Rosina. Pianse a lungo, in silenzio, sfilando un fazzolettino candido dal polso della blusa nera. Questo figlio era un angelo. Solo questo riusciva a biascicare. Che male non ne sapeva fare, che aveva sempre lavorato a servizio e che nessuno si era mai lamentato, che anzi i padroni gli volevano bene come a un figlio.
Infatti la deposizione di Bartolomeo e Cosma Casúla Pes risultò essere a tutti gli effetti, da questo punto di vista, un vero e proprio attestato di stima nei confronti di Zenobi. Ma erano offesi che uno sgarro del genere: nove agnelli furati e venduti per spuntini de sa prima die ’e s’annu, gliel’avesse fatto proprio il servo di cui si fidavano di piú. Quello che entrava in casa loro e si serviva da mangiare da solo se aveva fame, che non doveva nemmeno chiedere posso, è permesso e cose del genere...
E poi c’era la questione di Sisinnia, che insomma una certa simpatia fra i due giovani, lo sapevano tutti. Ca issu fit bellu pro nà rrere bellu, ma issa puru! Una madonnina, minuta e delicata come una porcellana. E pare anche che Cosma Casúla Pes, il padre, non fosse nemmeno scontento di questa simpatia anche se Sisinnia aveva solo diciassette anni e Zenobi già ventiquattro. Che quelle non sono differenze che contano, che l’uomo anche se è un po’ piú grandetto... anzi è meglio. Niente di ufficiale per carità , che lei quasi non poteva guardare, tanto che era controllata in ogni istante.
C’aveva due occhi verdi, Sisinnia, e capelli scuri come la pece. Corteggiatori non gliene mancavano e anche proposte vantaggiose. Un possidente orgolese per esempio. Uno che non sapeva quello che c’aveva, appena rimasto vedovo, il tempo del lutto stretto, si era presentato dai Casúla Pes per una proposta di matrimonio. Ma la cosa non era andata a buon fine perché questo orgolese era troppo avanti con gli anni e Sisinnia non voleva sentire ragioni e disse: «Manco morta!»
Il padre non le negava niente. E anche per questo, forse, vista la simpatia, non diceva niente del fatto che Zenobi a Sisinnia non dispiacesse. E dire che dalle nostre parti l’uomo troppo bello non è visto bene, ma la donna non è mai bella abbastanza. Comunque la cosa si poteva fare, con i passi giusti: parlare col padre di lei, chiedere il permesso di incontrarla, poi frequentarsi, mai da soli, poi magari ci scappava il fidanzamento vero e proprio.
I guai cominciarono a questo punto; e chi vuol capire capisca.
Insomma fà chere birgonza pro carchi anzone... Non era cosa da Zenobi. Questo lo poteva dire chiunque. L’hanno voluto togliere di mezzo. Che ne so, forse qualcun altro che aveva messo gli occhi su quell’immazine di Sisinnia.
Forse proprio la madre di lei, Dolores Casúla Pes, che di questa ipotesi di matrimonio non ne voleva nemmeno sentire parlare.
Come se lei fosse stata chissachà prima di sposarsi: era figlia di una che andava a servizio dai Siotto, figlia di una teracca, mica niente di piú. Che il corredo gliel’ha fatto donna Luigia Siotto in persona se no lei non aveva nemmeno lacrime per piangere. Tanto piú che suo padre era morto in Africa e quindi proprio non è che Dolores Casúla Pes, che faceva Bussu di cognome, fosse venuta chissà da quale famiglia...
– Se non ci pensa qualcuno alla povera gente, s’abbocà . Che noi non abbiamo molto, ma quel poco che abbiamo è vostro. L’importante è che si chiarisca questa faccenda. Questa maledizione che ci è caduta sulla testa.
– Bisogna che gli parli. Come faccio a fare qualcosa, sennò?
– Oj che non si fida di nessuno. Anche da me si fa vedere senza preavviso. S’abbocà , glielo chiedo io tutto quello che vi serve. Vedrete che con calma lo convinco a incontrarvi...
... Tzia Rosa disse che Zenobi non si dava pace, che era sempre inquieto in quel periodo. Da quando era venuta fuori la questione degli agnelli. E si sentiva offeso dal fatto che nessuno avesse fatto mostra di dubitare della sua colpevolezza. «I problemi sono altri!» Aveva detto alla madre poco prima di decidersi a sparire. In effetti mi risultava difficile da comprendere la dinamica dei fatti. Zenobi era stato a servizio dei Casúla Pes ininterrottamente per sei anni, durante questo periodo la sua condotta appare esemplare, a tal punto che solo due anni prima del fattaccio gli viene data l’autorizzazione per una compravendita di pecore in vece dei padroni. L’affare va a buon fine, tanto che Zenobi può contare su dieci capi suoi al pascolo insieme a quelli de sos meres. Alla fine del mese di settembre accompagna sa mere e sa merichedda a Lula per la novena di San Francesco, prepara le provviste per la cumbissÃa e si occupa dei rifornimenti ogni due giorni facendosi quattro cinque ore a cavallo per andare e lo stesso per tornare.
Magari quella fu la fase cruciale di tutta questa storia. Mi sembra di vederli Sisinnia e Zenobi che si guardano senza guardarsi per tutto il tragitto. Lui a cavallo col giustaccuore blu aperto sulla pettorina della camicia. Lei bendata di bianco, come per sposarsi, a testa china scossa dal beccheggio del carro a buoi e dal ciuffo biondo di lui senza berritta che gli accarezza la fronte a ritmo col galoppo. E donna Dolores che rimugina, ca no est tonta...
– Ci devo pensare. Voi mi capite, mi state chiedendo di correre con i piedi legati. E poi, tzia mea, dopo sette mesi vi muovete!
– Sembrava tutto a posto, s’abbocà , tutto a posto. Che all’inizio dice che con una contravvenzione si risolveva tutto! Ma Zenobi chi lo convince!
– Ci devo pensare. Tornate questa sera e vediamo.
– Dopo che avete mangiato s’abbocà ?
– No, piú tardi, verso le cinque se non vi incomoda, dopo pranzo faccio quattro passi per pensarci meglio.
– Che Dio vi illumini, alle cinque allora?
– Alle cinque, alle cinque va bene...
Cosà dopo pranzo si era incamminato verso Biscollai, che allora era un bel pezzo fuori dal paese. L’orario, che non era ancora l’una, questo è sicuro, confermato. Che tzia Nevina, che stava stendendo proprio quando lui, Bustianu, stava passando, gli aveva fatto un cenno di rispetto e anche di saluto, e poi, che era un poco contularia, gli aveva anche rivolto la parola: «Ello, s’abbocà , in ziru a cust’ora?»
Caldo c’era caldo, diceva mio padre, da arrostire il cristiano per strada. CosÃ, per la preoccupazione del caldo, appunto, si può spiegare quella domanda che gli fece tzia Nevina, che comunque i fatti suoi se li poteva anche fare. Ma lui, Bustianu, che era una bravissima persona, e pochi ce n’erano come lui, dice che si è toccato la tesa del cappello bianco come per salutare ed è andato per la sua strada senza dare spiegazioni.
Per il posto, questo lo sapeva mio padre, perché proprio quella mattina, fuori dal tribunale, aveva incontrato a Bustianu e l’aveva fermato per via di certe questioni di tratte in protesto che un suo cugino diceva che erano pagate e il tribunale diceva che no, e gli aveva chiesto un consiglio da avvocato. Cosà Bustianu gli aveva detto di tornare il giorno dopo perché doveva informarsi, siccome quella pratica era cosa da tribunale civile e lui invece era un avvocato che difendeva per questioni penali. Disse anche che si potevano incontrare solo il giorno dopo, perché per quel pomeriggio era impegnato. Che se ne andava verso Biscollai a fare passi perché aveva una decisione importante da prendere. Allora mio padre gli aveva detto di dire un orario che non gli fosse di disturbo anche il giorno dopo, che ne so, magari dopo pranzo, quando lui poteva andare a incomodarlo e Bustianu subito a dirgli che dopo pranzo era difficile perché lui si faceva la passeggiata, il suo sempre caro.
Che uno dice finché si va vicino uno ci va a piedi ma se uno deve andare nel corno grande della forca, che almeno si faccia un bel pezzo di strada a cavallo, allora di macchine non ce n’erano, e poi una volta arrivato, se proprio vuole fare passi, spazio non ne manca.
Ma, quel pomeriggio, Bustianu cavallo non ne ha preso. Sennò che passeggiata speciale era? Correggetemi se mi sbaglio!
Insomma se ne va in giro per i fatti suoi, come ogni giorno dopo pranzato, unu calore ’e mòrrere. E non è a dire che fosse una novità , perché che c’aveva questa abitudine lo sapevano tutti, anche tzia Nevina, che c’aveva poco da fare la sorpresa, ma, questo bisogna dirlo, era risaputo che se ne andasse verso Sant’Onofrio a fare il suo sempre caro e per andare a Sant’Onofrio di fronte a casa di tzia Nevina non ci doveva passare... Quindi insomma una giustificazione ce l’aveva quella lÃ, anche se, chin sas à nimas siat, gli affaracci suoi, proprio...
... Me ne andavo cosÃ, apparentemente senza una meta precisa. Giusto per muovere le gambe. E mi piaceva che sotto quel sole a picco, quando anche i cani nei cortili si mettevano belli comodi all’ombra, non ci fosse un’anima in giro. Come se le tre del pomeriggio fossero le tre di notte. Tranne per la luce. Feroce, terribile, che disegnava la mia ombra sul selciato con mano ferma: una passata di china scurissima. Mi piaceva anche il profumo asciutto della campagna: di sughero e di ferula e di lentischio.
Valeva la pena di sopportare il caldo, ve lo dico io. Tanto piú che procedevo prima in discesa poi in salita a raggiungere il fresco, come se l’aria mi richiamasse verso la cima di quel colle dove c’erano promesse di frescura. E il cielo quasi bianco sulle case tremolanti di via Majore o di Sèuna, si faceva piano piano, da Istiritta in poi, appena superato il Ponte di Ferro, sempre piú azzurro.
Nuvole manco a parlarne: era talmente secco che i cisti facevano olio dalle foglie; il terreno, poco fuori dall’abitato, scricchiolava di sterpi e cardi disidratati. Col formaggio non era cosa, che sudava e si inacidiva e si crepava. Non c’era da fare ricotta, tanto poco durava. Insomma un caldo d’inferno. Non che il resto dell’anno, autunno ventoso, inverno gelido e primavera grandinosa, fosse andato meglio: le bacche di mirto, che dovevano essere lucide e turgide come scarabei merdai, si erano avvizzite nei cespugli. E il raccolto agli oliveti era stato scarso, olive piccole e nere come cacche di pecora, amare come il demonio che anche a confettarle si perdeva piú tempo che altro. E ora s’ifferru. Con gli scoli che ammorbavano l’aria ferma e le mosche verdi che si radunavano, brulicanti, sulle carogne: di gatti, di cani, di corvi e cornacchie. Solo i bucati venivano bene, bianchi come...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Prefazione
- Dedica
- Indice