La confraternita dell'uva
eBook - ePub

La confraternita dell'uva

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La confraternita dell'uva

Informazioni su questo libro

«Me ne sto seduto nella mia stanza piccola e sudicia a succhiarmi il pollice cercando di scrivere un romanzo... La storia di quattro italiani vecchi e ubriaconi di Roseville, un racconto su mio padre e i suoi amici». Il romanzo è La confraternita dell'uva, pubblicato per la prima volta nel 1974 e destinato a diventare, assieme a Chiedi alla polvere, il libro piú letto di John Fante.
Al centro si erge massiccia, granitica, ingombrante la figura del padre, il vecchio tirannico e orgoglioso primo scalpellino d'America - cosí almeno lui crede di essere. Fante scrive in questo romanzo la piú dissacrante e commovente elegia alla figura paterna: l'immigrato di prima generazione Nick Molise nel quale, come nella ciurma dei suoi indimenticabili «compagnoni paesani, Fante ha saputo racchiudere il ritratto piú perspicuo della prima generazione italoamericana, quel mondo di uomini di incontenibile e testarda virilità, guardati con inorridita inquietudine dai sangue blu americani persuasi "che gli italiani fossero creature di sangue africano, che tutti gli italiani girassero col coltello, e che la nazione si trovasse ormai nelle grinfie della mafia"» (Francesco Durante).

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806170622
eBook ISBN
9788858400449

Sette

Mezzo isolato prima della casa dei miei, lungo Pleasant Street, avvertii il profumo del mangiare di mamma. L’immagine tremenda della scena che si era svolta al Café Roma svaní nei vapori celestiali del basilico, dell’origano, del rosmarino e del timo.
D’improvviso una figura sbucò dall’ingresso, precipitandosi giú per i gradini della veranda, e correndo verso un furgoncino posteggiato lí di fronte.
– Mario! – gridai. – Mario, aspetta!
Forse mi sentí o forse no mentre, avviato il motore, sparava quel camioncino rumoroso senza guardarmi. Attraversai il cortile. Mia madre era in piedi dietro la retina della porta, coi capelli argentati ben raccolti, il grembiule fresco e bianco, il viso caldo di contentezza e di fornelli. Il furgone di Mario si trovava già due isolati oltre e ancora scoreggiava a tutta birra.
– Perché se l’è filata a quel modo?
– Ha mangiato ed è scappato via. Ha paura di tuo padre.
– Mangia ancora qui?
– Quando può. Sua moglie non sa cucinare all’italiana –. Lanciò un’occhiata su Pleasant Street. – Tuo padre dov’è?
– Al Roma.
– Avete bisticciato?
– Una discussione.
– Non vuoi andarci, in montagna? – Nella sua voce c’era dell’apprensione.
– Tu sapevi?
Stavamo ancora parlandoci attraverso la retina della porta.
– Mi ha detto che te ne avrebbe parlato.
– Me l’ha chiesto. Ho detto che non c’era niente da fare –. Varcai la soglia del caldo salottino, impregnato del profumo di spezie che veniva dalla cucina. Quel salotto! Ci faceva un caldo d’inferno. Una morgue. Le pareti decorate con le fotografie dei defunti: zie, zii, cugini, nonni. In un angolo, su un piedistallo, c’era una statua di Gesú che sanguinava a profusione. Ai piedi del Salvatore, candele accese infilate in coppette di vetro. Tutto ciò costituiva una parte vitale della casa, partecipava a tutto ciò che di vitale e significativo vi aveva luogo, poiché mia madre accendeva le candele ogniqualvolta moriva un parente, o qualcuno s’ammalava, o quando si perdeva qualcosa di valore, o quando i lampi si avvicinavano nel cielo.
Intravidi una pila di vestiti sul divano. Avevano un aspetto familiare, come se fossero usciti da una vecchia foto.
– Che roba è?
– I tuoi abiti da lavoro.
– Abiti da lavoro? Che lavoro?
– Il lavoro in montagna –. Lo disse senza guardarmi.
– Per quanto mi riguarda, non c’è nessuna montagna.
– Pensaci. E poi decidi.
– Niente montagna.
Osservai i vestiti, ci frugai in mezzo. Lo sapeva Dio dove era andata a dissotterrarli – magari da un baule in quella soffitta bollente e stipata di roba, dove ogni cosa si mummificava – jeans, camicie, un paio di stivali, persino la mia felpa da baseball con le due grosse lettere se incorniciate sul petto. L’idea che perfino i miei vestiti da bambino potessero essere conservati con cura da qualche parte mi diede i brividi. C’era, nella risurrezione di quegli indumenti, qualcosa di astuto, come un piano prestabilito, una ragnatela tessuta ad arte: e io ero la preda. Lei captò i miei pensieri e sgusciò in cucina. La trovai vicino ai fornelli, stava mescolando qualcosa in una pentola. Aveva preparato un bel po’ di roba da mangiare.
– E chi se la mangia tutta ’sta roba?
– Tutti.
– Hai invitato tutti?
– No, ma verranno lo stesso.
Mi lasciai cadere su una sedia al tavolo di cucina. E lei lí, davanti a me, con una bottiglia di vino presa dal frigo e un bicchiere gelato. Il vino lo riconobbi. Doveva essere il novello delle vigne di Angelo Musso, il lusso piú grande della casa, dal momento che senza quello mio padre si sarebbe rapidamente seccato e se la sarebbe squagliata.
– Mamma, cos’è questa storia del divorzio?
– Quale divorzio?
– Lo sai bene quale divorzio. Perché credi che sia qui?
Rise. – Una cosa tanto per dire. Siamo cattolici, non possiamo divorziare. Non lo sapevi?
– Mario dice che ti ha presa a calci, che ti stava strangolando. Dovevi farlo arrestare.
– Ci ha pensato Mario. Ma papà non voleva. Mica l’ha fatto apposta –. Si mise ad affettare il pane.
– Come faceva a prenderti a calci e a strangolarti senza farlo apposta?
– Non voleva. Stava solo scherzando.
– E allora è andato in galera.
– Per mezz’ora. Cosa da niente.
– E il rossetto sulle mutande?
– Era gelatina.
– Lo pensavo anch’io.
– Gelatina di ciliegia. Stava dentro il suo cornetto. Se l’è fatta cadere addosso.
– E per questo l’hai accusato di infedeltà?
– Mi sono sbagliata, sí. Per una volta –. Tirò un sospirone. – Quante volte ho avuto ragione in questi cinquant’anni?
Le presi la mano e ne lisciai quella pelle secca e morbida.
– Non devi piú preoccuparti di cose del genere. Non è piú giovane. Ha sparato tutte le cartucce.
– Mica ha bisogno di cartucce. Lui lo fa lo stesso.
– Ma solo con la fantasia.
– È da sporcaccioni, – disse, – è peccato.
Si dava da fare per la cena, assaggiava le melanzane nel forno, i gnocchi messi a scaldare in una pentola nera di acciaio, le scaloppine che ribollivano nel marsala.
– Non sono stata capace di trovare calze pesanti. Ne avrai bisogno, lassú. Può essere che nevica, in questo periodo.
– Non ci vado, lassú.
– Nemmeno per quest’ultima volta, per tuo padre?
– Sto lavorando. Non posso lasciar perdere il libro.
Questo la fece schizzare fuori dalla stanza, in direzione della camera da letto, da dove la sentii rovistare in mezzo a oggetti di un certo peso. Tornò con le braccia cariche di libri, e li scaricò sul tavolo davanti a me. Erano i miei vecchi libri di testo del liceo: geometria, storia, inglese, spagnolo.
– Portateli a casa, – disse. – Sono come nuovi.
La ringraziai. – Proprio quello di cui avevo bisogno.
Lei mi diede un’occhiata, toccandosi con le dita le ossa delicate delle guance mentre ripiombava nell’unica vera ossessione della propria esistenza. – Non l’hai fatto arrabbiare? Non si caccerà nei guai?
– Berrà un po’ troppo, e nient’altro.
– Non mi importa se beve. I ragazzi lo portano a casa.
– I ragazzi?
– Zarlingo e gli altri. Sono loro che me lo tengono d’occhio. Grazie a Dio ci sarai anche tu. Mi fanno paura quelle montagne.
Un angelo: un angelo testardo, pertinace. Non c’era da stupirsi che papà la pigliava a calci nel culo. Mi sentivo soffocare, disarmato come un bambinello in fasce che si dibatteva invano. Che diavolo ci facevo in quel posto? E mia moglie come stava? Avrei avuto un bel problema con quel mio libro. Che stava succedendo? Davvero il vecchio aveva dovuto sopportare queste stronzate per mezzo secolo? Chi diceva che era un impulsivo, uno che si spazientiva, un intollerante? Il sole era sceso dietro le case dall’altra parte del vialetto e adesso faceva piú fresco, circa trentacinque all’ombra, mentre il cielo era un’esplosione di nubi rosse e arancione.
– Finché so dove sta, – stava dicendo, – finché me lo fa sapere…
Mi riempii il bicchiere e uscii sulla veranda, mi sedetti sulla sedia a dondolo cigolante e accesi una sigaretta. Rapidamente fece buio. In fondo alla strada una madre uscí su una veranda e chiamò i figli per la cena. Il lampione all’angolo della strada si illuminò e un vecchio cane vi trotterellò sotto, avviandosi a casa. Gli occhi bianchi dei televisori brillavano attraverso le finestre dall’altro lato della via, sugli schermi cowboy al galoppo, sparatorie che riecheggiavano nel crepuscolo di San Elmo. Una città abbandonata. Tutte le città della valle erano cosí, desolate, misteriosamente improbabili, delle enclave di esistenza umana, un popolo di romiti al di qua di brevi recinzioni e inconsistenti muri a stucco, barricati contro l’oscurità, in attesa. Mi dondolai avanti e indietro e sentii una pena filtrarmi nelle ossa: mi faceva pena quella solitudine nella casa di mia madre e mio padre, di quei due anziani in attesa, a scandire il passare del tempo.
E allora mia madre si avvicinò quieta alla retina della porta e mi guardò, quasi che stesse facendo provvista di ricordi, come se non avesse dovuto vedermi mai piú. La sentii pulsare avanti e indietro, incorporea, angelicata, e triste, perduta in questo suo scivolar via dalla realtà e tornarci, piena di vergogna per quel poco tempo che le rimaneva.
– Henry? – La voce era morbida, irresoluta. – Non devi preoccuparti per me e per tuo padre. Quando si invecchia si diventa un po’ matti, ma non c’è pericolo. Abbi pazienza, Henry. Vuoi cenare, adesso?
Le melanzane al forno mi riportarono all’infanzia, quando costavano un soldo l’una ed erano una vera festa: quelle meraviglie purpuree a forma di globo, paffute, allegre e generose come nababbi arabi ardenti dal desiderio di riempirci lo stomaco, cosí belle che mi veniva da piangere.
Alle fettine di vitello dovetti nuovamente combattere le lacrime: me le annaffiavo con lo splendido vino dei colli di Joe Musso. I gnocchi cotti in burro e latte fecero il resto. Nascosi gli occhi e mi misi a piangere di gioia, asciugandomi le lacrime con il tovagliolo, gorgogliando come se mi trovassi ancora nell’utero di mia madre, con una tale dolcezza, una pace tale, che mi si riempiva la bocca di vita eterna. Lei vide i miei occhi umidi, non c’era modo di nasconderli.
– C’è qualcosa nell’aria, – dissi, – ammoniaca. Può essere? Mi bruciano gli occhi.
– È ammoniaca. Ci ho lavato i pavimenti.
– Ecco. Ammoniaca.
– Tuo padre odia l’ammoniaca. Non vuole che la metta nella lavatrice.
– Davvero?
– Sai cosa gli piace?
– Dimmi.
– Il bagnoschiuma.
Passò poi a domande su Harriet e i ragazzi. Le mostrai le istantanee che tenevo nel portafoglio, il piú piccolo di ventidue anni, il piú grande di ventiquattro. Esaminò le fotografie sotto la luce della cucina.
– Non hanno un’aria da muratori.
– No.
– Anche ai ragazzi di Mario non gli passa manco per la testa. Il ragazzo di Virgil vuole fare il pianista e Stella ha soltanto figlie femmine. A lui, un muratore gli piacerebbe cosí tanto, pover’uomo. Ne avesse uno solo in famiglia, credo che smetterebbe di bere. Ogni sua preghiera sarebbe esaudita.
– Prega?
– Mai. E non va a messa –. Mi fissò con aria inquisitoria. – Tu ci vai a messa, Henry?
Me l’aspettavo. – Tutte le domeniche. Un orologio.
– E i tuoi ragazzi?
– Sulla stessa panca con me e la madre, tutte le domeniche.
Quasi levitava estatica verso il soffitto, ma di colpo si riprese, e si fece seria. – Sei un bugiardo, Henry. Tua moglie non si è mai fatta cattolica.
– Me la sto lavorando. Ci vuole tempo.
Si sedette, sospirò delusa, versandosi un poco di vino in un bicchiere. – Né cattolici né muratori. Buon Dio, che cos’è successo?
Mi prese una mano tra le sue palme asciutte e calde; poi, con voce appassionata, quasi implorando: – Parla con tuo padre, Henry. Fa’ che ritorni a Nostro Signore. Non c’è molto tempo. Alla sua età, ogni ora può essere quella giusta. E quando se ne sarà andato, io che farò, senza sapere dove è andato a finire?
– Perché non chiedi a padre Martin di parlargli? Salvare anime è compito suo.
– È venuto qui un sacco di volte. Ma litigano e basta. Tuo padre non gli porta rispetto. Lui ha quei suoi vecchi modi da contadino: ride.
– E allora lascialo in pace.
– Spero che se ne vada per primo. Nessuno all’infuori di me è in grado di sopportarlo. È peggio d’un bambino: stirami le lenzuola ma non il cuscino. Inamidami i polsini ma non il colletto. Puliscimi le scarpe, spuntami i baffi, lavami i piedi, tagliami i capelli, mettimi la borsa dell’acqua calda nel letto. E ne vuoi sapere una nuova? Si è messo un campanello vicino al letto. Ogni sera a scampanare per qualche motivo: e portami un bicchiere di vino, e grattami la schiena, e fammi un po’ di minestra. Quando me ne vado io, credi che Stella farà tutto questo?
La faccenda del campanello m’incuriosí.
– Non dormite insieme?
– Mi ha cacciata.
– Perché?
– E che ne so? Comunque non l’avrei manco toccato –. Poi, d’un fiato: – Lo sai che succhia vino caldo dal tubicino di un enteroclisma e al mattino mangia uova crude?
– Nauseabondo.
– Visto?
Dalla strada giunse il suono di un clacson.
– È Virgil....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione di Vinicio Capossela
  5. Storia di La confraternita dell’uva
  6. John Fante: la vita, i libri
  7. John Fante in italiano
  8. La confraternita dell’uva
  9. Uno
  10. Due
  11. Tre
  12. Quattro
  13. Cinque
  14. Sei
  15. Sette
  16. Otto
  17. Nove
  18. Dieci
  19. Undici
  20. Dodici
  21. Tredici
  22. Quattordici
  23. Quindici
  24. Sedici
  25. Diciassette
  26. Diciotto
  27. Diciannove
  28. Venti
  29. Ventuno
  30. Ventidue
  31. Ventitre
  32. Ventiquattro
  33. Venticinque
  34. Ventisei
  35. Ventisette
  36. Ventotto
  37. Ventinove
  38. Trenta
  39. Trentuno
  40. Indice