L'uomo che cade
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L'uomo che cade

  1. 264 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'uomo che cade

Informazioni su questo libro

Scendendo con altre migliaia di persone le scale della Torre nord del World Trade Center, Keith Neudecker riesce a mettersi in salvo pochi minuti prima del crollo. Ha i vestiti impregnati di sangue e di cenere, la faccia cosparsa di frammenti di vetro, e negli occhi immagini che non potrà mai dimenticare.
All'esterno la strada ha perso il suo aspetto familiare e le cose mostrano il volto impassibile che avrebbero in un mondo privo di sguardi umani.
È l'America dell'Undici settembre, catapultata da un giorno all'altro nel nuovo secolo della paura. Quel mattino Keith ritorna nella casa che ha lasciato un anno prima, da sua moglie Lianne e suo figlio Justin. Quando si presenta alla porta sembra un uomo «fatto di futuro».
Don DeLillo sceglie di raccontare questo futuro seguendo due frecce del tempo. La prima converge verso l'Undici settembre ed è la storia di Hammad e dei suoi diciotto compagni, la preparazione dell'attentato dalla Germania alla Florida, dai simulatori di volo alle cabine degli aerei.
La seconda si allontana dal momento della tragedia ed è la storia di Keith e della sua famiglia.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806233990

Parte seconda
Ernst Hechinger

Capitolo sesto

La sua apparizione sulla porta era stata un’immagine impossibile, un uomo riemerso da una tempesta di cenere, tutto sangue e scorie, puzza di materia bruciata, minuscoli scintillii di schegge di vetro in faccia. Era parso immenso, sulla soglia, con uno sguardo privo di distanza. Aveva in mano una valigetta e stava lí, muovendo lentamente la testa su e giú. Lei aveva pensato che fosse sotto shock, ma non sapeva cosa ciò volesse dire in termini precisi, in termini medici. L’aveva oltrepassata, diretto verso la cucina, e lei aveva provato a chiamare il medico di famiglia, poi il 911, poi l’ospedale piú vicino, ma non aveva sentito altro che il brusio delle linee sovraccariche. Aveva spento la Tv, ma senza sapere perché, per proteggerlo dalle notizie da cui era appena uscito, ecco perché, quindi l’aveva raggiunto in cucina. Era seduto al tavolo e lei gli aveva versato un bicchiere d’acqua, dicendogli che Justin era con la nonna, li avevano fatti uscire prima da scuola, e anche lui era al riparo dalle notizie, almeno per quel che riguardava il padre.
Lui aveva detto: – Tutti che mi danno acqua.
Lei aveva pensato che non sarebbe mai riuscito ad arrivare fin lí, o anche solo a salire le scale, se fosse stato ferito gravemente, o avesse perso molto sangue.
Poi lui aveva detto un’altra cosa. La valigetta era appoggiata accanto al tavolo, simile a un oggetto dissotterrato da una discarica. Aveva detto che c’era una camicia che scendeva dal cielo.
Lei aveva versato un po’ d’acqua su uno strofinaccio di cucina e gli aveva pulito la polvere e la cenere dalle mani, dalla faccia e dalla testa, facendo attenzione a non toccare i frammenti di vetro. C’era piú sangue di quanto le fosse parso in un primo momento, e pian piano si era resa conto di una cosa, che i suoi tagli e le sue abrasioni non erano abbastanza profondi o numerosi per giustificare tutto quel sangue. Non era il suo sangue. Perlopiú proveniva da qualcun altro.
Le finestre erano aperte perché Florence potesse fumare. Sedevano nello stesso posto della volta prima, ai lati opposti del tavolino, posizionati in diagonale.
– Mi sono dato un anno, – disse lui.
– Attore. Ti ci vedo, come attore.
– Studente di recitazione. Mai andato oltre.
– Perché c’è qualcosa in te, nel modo in cui tieni lo spazio. Anche se non so esattamente cosa significhi.
– Però suona bene.
– Devo averlo sentito dire da qualcuno. Che significa? – chiese lei.
– Mi sono dato un anno. Mi sembrava una prospettiva interessante. Poi ho ridotto a sei mesi. Pensavo: «Cos’altro potrei fare?» Al college praticavo due sport. Poi però avevo smesso. Sei mesi, mi sono detto, ma sí. Alla fine sono sceso a quattro, e ho mollato dopo due.
Lei lo studiava, sedeva lí e lo fissava, e c’era qualcosa nel modo in cui lo faceva, una sincerità cosí schietta e innocente, che di lí a poco lui smise di sentirsi nervoso. Lei lo guardava, parlavano, in quella stanza che lui non sarebbe stato capace di descrivere anche solo un minuto dopo essersene andato.
– Non ha funzionato. Le cose non funzionano mai, – disse lei. – E poi che hai fatto?
– Mi sono iscritto a legge.
Lei sussurrò: – Perché?
– Cos’altro potevo fare? Dove potevo andare?
Florence si appoggiò contro lo schienale e si portò la sigaretta alle labbra, pensando a qualcosa. Sul viso aveva minuscole macchioline marroni che le scendevano dalla parte inferiore della fronte sull’attaccatura del naso.
– Sei sposato, immagino. Non che mi interessi.
– Sissignora.
– Non mi interessa, – disse lei, e per la prima volta lui avvertí del risentimento nella sua voce.
– C’eravamo separati, ora siamo tornati insieme, o ci stiamo provando.
– Chiaro, – disse lei.
Era la seconda volta che Keith attraversava il parco. Sapeva perché si trovava lí, ma non avrebbe saputo spiegarlo, e non doveva spiegarlo a lei. Che parlassero o meno non aveva importanza. Non parlare andava benissimo, respirare la stessa aria, oppure lei parla e lui ascolta, oppure il giorno è la notte.
– Ieri sono andata alla chiesa di St Paul, – disse lei, – volevo stare in mezzo alla gente, e in particolare lí. Sapevo che ci sarebbe stata gente. Ho guardato i fiori e gli oggetti personali lasciati dai visitatori, i ricordini fatti a mano. Le fotografie dei dispersi non le ho guardate. Non ce l’ho fatta. Sono rimasta seduta nella cappella per un’ora, e c’era gente che entrava e si metteva a pregare, oppure andava avanti e indietro, guardandosi intorno, leggendo le lapidi di marmo. «In memoria di... in memoria di...» È entrato un gruppetto di soccorritori, erano in tre, e io mi sono sforzata di non fissarli, poi ne sono arrivati altri due.
Era stata sposata per un breve periodo, dieci anni prima, un errore cosí fugace da lasciare pochi segni. Cosí disse. Il marito era morto qualche mese dopo la fine del matrimonio, in un incidente d’auto, e la madre aveva dato la colpa a Florence. Ecco che segno aveva lasciato.
– Mi ripeto che morire è una cosa cosí normale.
– Non quando sei tu. Non quand’è qualcuno che conosci.
– Non sto dicendo che non bisogna soffrire. Ma perché non affidarci a Dio e basta? – disse lei. – Com’è possibile che ancora non abbiamo imparato, con tutta la gente che è già morta? Diciamo di credere in Dio, ma allora perché non ubbidiamo alle leggi dell’universo che Dio ha creato, e che ci insegnano quanto siamo minuscoli, e a cosa siamo tutti destinati?
– Cosí è troppo semplice.
– Gli uomini che hanno fatto questa cosa. Loro sono contro tutto ciò che noi rappresentiamo. Però in Dio ci credono, – disse lei.
– Ma il Dio di chi? Quale Dio? Io non so nemmeno cosa significa, credere in Dio. Non ci penso mai.
– Non ci pensi mai.
– La cosa ti sconvolge?
– Mi spaventa, – disse lei. – Io la presenza di Dio l’ho sempre sentita. A volte ci parlo. Non devo andare in chiesa per parlare con Dio. Cioè, la chiesa la frequento, ma mica ci vado tutte le settimane… come si dice?
– Religiosamente, – rispose lui.
Sapeva farla ridere. Quando rideva, Florence sembrava guardargli dentro, le si accendevano gli occhi, vedeva qualcosa che lui non riusciva a indovinare. In lei c’era un elemento che rasentava sempre una qualche forma di sofferenza emotiva, il ricordo di una ferita subita, o di una perdita sopportata, forse per tutta la vita, e la risata era una sorta di muta, uno sgravarsi fisico dell’antico dolore, di una pelle morta, anche per un solo istante.
Da un’altra stanza si sentiva provenire della musica, qualcosa di classico e familiare, ma lui non conosceva il titolo del pezzo, né il nome del compositore. Queste cose non le sapeva mai. Presero il tè e parlarono. Lei parlò della torre, ripetendo tutto quanto da capo, in modo claustrofobico, il fumo, la massa di corpi, e lui comprese che potevano parlare di queste cose solo l’uno con l’altra, nei dettagli piú minimi e noiosi, ma nulla sarebbe mai stato troppo noioso o troppo dettagliato, perché adesso era dentro di loro, e perché lui aveva bisogno di sentirsi raccontare ciò che aveva smarrito nei percorsi della memoria. Era il loro delirio, la realtà frastornante che avevano condiviso sulle scale, in quelle altissime colonne di uomini e donne che scendevano a spirale.
La chiacchierata proseguí, sfiorando argomenti come il matrimonio, l’amicizia, il futuro. Lui era un dilettante della conversazione, ma parlò abbastanza di buongrado. Ascoltò, soprattutto.
– Ciò che ci portiamo dietro. È questo che conta, alla fine, – disse lei con distacco.
La macchina dell’ex marito era andata a sbattere contro un muro. La madre aveva dato la colpa a Florence, perché se fossero stati ancora sposati lui non si sarebbe trovato su quella macchina e su quella strada, e siccome era stata lei a porre fine al matrimonio la colpa era sua, il segno era suo.
– Era piú vecchio di me, di diciassette anni. Suona cosí tragico. Un uomo anziano. Aveva una laurea in ingegneria, ma lavorava all’ufficio postale.
– Beveva.
– Sí.
– E aveva bevuto anche la sera dell’incidente.
– Sí. È successo di pomeriggio. In pieno giorno. Nessun’altra macchina è stata coinvolta.
Le disse che doveva andare.
– Ma certo. Devi andare. Queste cose funzionano cosí. Lo sanno tutti.
Sembrava incolparlo per il fatto di andarsene, per il fatto di essere sposato, per quel ricongiungimento sconsiderato, e al tempo stesso non dava per nulla l’impressione di parlare con lui. Parlava alla stanza, a se stessa, pensò lui, a una qualche versione passata di sé, una persona che potesse confermarle la triste familiarità di quel momento. Aveva bisogno di attestare i suoi sentimenti, in modo ufficiale, e perciò aveva dovuto pronunciare le parole, anche se non necessariamente rivolgendosi a lui.
Che però rimase seduto.
– Cos’è questa musica? – le chiese.
– Mi sa che è meglio se la tolgo. Sembra la musica di uno di quei vecchi film, quando lui e lei corrono in mezzo ai prati.
– Di’ la verità. A te quei film piacciono.
– Mi piace anche la musica. Ma solo quand’è nei film.
Lo guardò e si alzò. Passò davanti alla porta d’ingresso e si incamminò nel corridoio. Aveva un aspetto anonimo, tranne quando rideva. Era una persona qualunque in metropolitana. Portava gonne ampie e scarpe normali, era robusta e forse un tantino goffa, ma quando rideva c’era in lei una fiammata, un propagarsi di qualcosa di seminascosto e sfolgorante.
Una donna di colore con la pelle chiara. Una di quelle bizzarre incarnazioni dell’ambiguità del linguaggio e della risolutezza della razza, ma le uniche parole che per lui significavano qualcosa erano quelle che aveva e avrebbe pronunciato lei.
Florence parlava con Dio. Forse anche Lianne faceva quel genere di conversazioni. Non ne era sicuro. Oppure lunghi monologhi tormentati. O timidi pensieri. Quando sollevava la questione o pronunciava quel nome, lui faceva scena muta. Era una questione troppo astratta. Lí, invece, in compagnia di una donna che conosceva appena, sembrava una questione inevitabile, cosí come altre faccende, altre questioni.
Sentí la musica cambiare, diventando qualcosa di ritmato e potente, voci che rappavano in portoghese, cantavano, fischiettavano, con dietro chitarre e batteria, sassofoni impazziti.
Prima lei l’aveva guardato, e poi lui aveva guardato lei passare davanti alla porta e incamminarsi in corridoio, e ora capí di doverla seguire.
Era in piedi davanti alla finestra, batteva le mani a ritmo di musica. La camera da letto era piccola, non c’erano sedie, e lui si sedette per terra a guardarla.
– Non sono mai stata in Brasile, – gli disse. – A volte ci penso.
– Sono in trattative con una persona. Ma siamo proprio agli inizi. Per un lavoro con certi investitori brasiliani. Forse dovrò imparare un po’ di portoghese.
– Dobbiamo impararlo tutti, un po’ di portoghese. Dobbiamo andare tutti in Brasile. Questo è il disco che c’era nel lettore che ti sei portato via.
– Fallo, – disse lui.
– Cosa?
– Balla.
– Eh?
– Balla, – disse lui. – Tu hai voglia di ballare. Io ho voglia di guardarti.
Florence si tolse le scarpe e cominciò a ballare, battendo piano le mani al ritmo della musica, avvicinandosi. Gli tese una mano e lui scosse la testa, sorridendo, e si fece indietro, verso la parete. Le mancava la pratica. Era una cosa che non si era mai concessa di fare, pensò lui, né da sola, né con qualcun altro, né per qualcun altro, non fino a quel momento. Tornò sull’altro lato della stanza, e sembrò perdersi nella musica, con gli occhi chiusi. Per un po’ ballò in movimenti lenti, senza piú battere le mani, con le braccia sollevate e staccate dal corpo, come in trance, poi prese a girare su se stessa, sempre piú lentamente, fino a ritrovarsi davanti a lui, con la bocca aperta, gli occhi che si aprivano piano.
Seduto lí, continuando a fissarla, lui cominciò a scivolare fuori dai vestiti.
Era successo a Rosellen S., una paura primordiale proveniente dalla piú remota infanzia. Aveva dimenticato dove viveva. Si era ritrovata da sola, all’angolo di una strada vicino alla sopraelevata della ferrovia, in preda a una disperazione crescente, separata da tutto. Aveva cercato un negozio, un cartello che potesse fornirle un indizio. Il mondo, i segni di riconoscimento piú elementari, si stavano allontanando. Chiarezza e definizione delle cose avevano cominciato a svanire. Non si era persa, piú che altro si sentiva precipitare, illanguidire. Era tornata indietro da dove era venuta, o da dove pensava di essere venuta, ed era entrata in un edificio, e si era fermata nell’ingresso, ad ascoltare. Aveva seguito il suono delle voci, raggiungendo una stanza dove una dozzina di persone sedevano a leggere libri, o meglio, un libro in particolare, la Bibbia. Vedendola avevano smesso di recitare, e avevano aspettato. Lei aveva tentato di spiegare il problema, e uno di loro le aveva guardato nella borsetta, trovando dei numeri da chiamare, ed era infine riuscito a parlare con qualcuno, una sorella di Brooklyn, a quanto pare, indicata come Billie, e le aveva detto di venire a prendere Rosellen a East Harlem per portarla a casa.
Lianne lo venne a sapere dal dottor Apter il giorno dopo. Anche lei aveva assistito al lento declino, nel corso dei mesi. Rosellen ogni tanto rideva ancora, la sua ironia era intatta, una donna minuta dai lineamenti delicati e la pelle color castagna. Si stavano avvicinando a ciò che era imminente, tutti quanti, e rimaneva poco spazio, ormai, per stare a guardare, per vederlo succedere.
Benny T. disse che certe mattine aveva problemi a mettersi i pantaloni. Carmen commentò: – Sempre meglio che se avessi problemi a toglierteli –. Disse: – Finché riesci a toglierteli, tesoro, sei sempre quella bomba sexy del nostro Benny –. Lui rise e pestò un po’ i piedi, battendosi una mano in testa per sottolineare il tutto, e disse che il problema non era quello. Non riusciva a convincersi di aver indossato i pantaloni nel modo corretto. Se li metteva, li toglieva. Verificava che la cerniera fosse sul davanti. Controllava la lunghezza allo specchio, se i risvolti coprivano o meno le scarpe, solo che i risvolti non c’erano. Lui se li ricordava. Ieri questi pantaloni i risvolti ce li avevano, e allora come mai oggi no.
Disse: – Lo so a cosa state pensando –. Anche a lui sembrava una cosa un po’ bizzarra. Usò proprio quella parola, bizzarra, evitando termini piú espressivi. Ma quando gli succedeva, disse, non era in grado di uscirne. Si ritrovava in una mente e in un corpo che non erano i suoi, mentre cercava di capire se i pantaloni andavano bene. E quei pantaloni non sembravano andar bene. Se li toglieva e se li rimetteva. Li scrollava. Ci guardava dentro. Pensava che forse erano i pantaloni di qualcun altro, in casa sua, appoggiati sulla sua sedia.
Aspettarono che Carmen dicesse qualcosa. Lianne attese un accenno al fatto che Benny non era sposato. Meno male che non sei sposato, Benny, con i pantaloni di uno sconosciuto appesi alla sedia. Tua moglie ti dovrebbe qualche spiegazione.
Ma Carmen questa volta non disse nulla.
Omar H. parlò del suo viaggio uptown. Era l’unico dei partecipanti al gruppo...

Indice dei contenuti

  1. Parte prima — Bill Lawton
  2. Parte seconda — Ernst Hechinger
  3. Parte terza — David Janiak
  4. Indice