Ci si mette una vita
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Ci si mette una vita

  1. 232 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ci si mette una vita

Informazioni su questo libro

Un incidente riunisce quattro amici di infanzia nella loro città natale. E dà loro le risposte che cercavano da sempre.
Quando Rubens, redattore sportivo alla soglia dei trent'anni, scopre che Carlo è grave in seguito a un tuffo, lascia Milano e la carriera in ascesa per tornare a Firenze.
Si porta dietro solo l'ossessione per Anita: la sua ex l'ha mollato da mesi ma lui continua a sognarla ogni notte con una faccia diversa. Insieme a Gazza e Pico, tornati anche loro, passa una strana, lunga, irripetibile estate accanto a Carlo. E tutto sembra di nuovo come prima, o quasi. Al centro traumatologico si forma un'inattesa e sghemba comunità, affollata di buffi personaggi: un cinese che non sa una sillaba di italiano ma si lamenta tutta la notte, un coatto che suona in un gruppo ska dal nome improbabile, una loquace e devota signora peruviana, un'infermiera maggiorata... Tra corse in sella all'intramontabile vespa Monica Vitti, fughe dall'ospedale con Carlo come ostaggio, litri di Guinness, notti insonni e la vittoria italiana ai mondiali di calcio, Rubens e i suoi amici fanno per la prima volta i conti con quel che hanno perso e quel che non avrebbero mai immaginato di ritrovare.
E decidono finalmente di crescere. - Secondo te come saremo a quarant'anni?
- Saremo sempre noi quattro, come oggi, ed è la cosa che mi fa sentire meglio di tutte.
- E poi?
- E poi magari andrai ancora in giro con quel catorcio arancione. A proposito, ti ho fatto il pieno.
- Sciacquati la bocca quando parli della mia vespa...

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
Print ISBN
9788806208356
eBook ISBN
9788858404850
Superstiti

18.

Avevamo pianificato tutto. Nessuno spazio all’improvvisazione. Non avevamo nemmeno previsto un piano B, dal momento che quello A doveva funzionare e basta, per forza. Pico aveva perfino fatto un disegno, una bozza su un foglio a quadretti, in cui aveva tratteggiato una piantina del Cto. In fondo il suo curriculum da cleptomane, fatto di negozi di abbigliamento, supermercati, quadri a specchio e posacenere di pub, lo attestava come il piú affidabile del gruppo nell’affrontare il rischio. Gazza decise di vestirsi di nero, come i ladri dei film e dei fumetti.
Una manciata di ore prima, Pico si era avvicinato a me e Carlo, mentre ce ne stavamo in cortile a discutere sulla sigaretta, e aveva annunciato: – Dopodomani vedremo la semifinale dei mondiali sul terrazzo dei miei.
– Okay, – dissi, sapendo dove voleva arrivare.
– E ci sarai anche tu, Carlo.
– Finalmente le tue abilità nel furto ti hanno portato a rubare una macchina per il teletrasporto? – domandò Carlo.
– No. Mettiamo in atto un rapimento. Ho pensato a tutto. Verrai con noi.
Aveva la voce di chi ne ha portate a termine a centinaia, di imprese del genere, la voce di chi sa quello che fa, dell’eroe sprezzante del pericolo, che guarda il rischio dall’alto in basso.
La sera del 4 luglio, alle sette e mezzo, quando ancora la luce del giorno illuminava inesorabile le nostre malefatte, Carlo avrebbe lasciato l’ospedale per la prima volta dopo il tuffo.
Avevamo dei complici di cui poterci fidare. Cecco avrebbe fatto il palo, spiando il corridoio dalla porta della camera. Avevamo trovato una scappatoia dal giardinetto su cui si affacciava la stanza. Bastava aprire la porta a vetri per trovarsi nel piccolo prato incolto, di fronte a un cespuglio secco che a tutto poteva servire tranne che a fare da recinzione. Si doveva passare da lí.
– Se al posto mio vi arriva un orecchio, non pagatemi il riscatto, non vorrei mai dare certe soddisfazioni a questi tre idioti, – suggerí Carlo a Cecco, che per tutta risposta lo rassicurò: – Nun te preoccupa’, frate’, nun c’ho ’n euro manco se me vendo l’anima.
Susanna sapeva tutto, Pico aveva vuotato il sacco, avrebbe agito con o senza il suo silenzio. L’infermiera decise di rischiare la sua posizione, o forse solo una ripassata dal primario, facendo finta di niente, e il nostro amico dal fascino svedese si innamorò di lei ancora di piú.
Il ragazzino era in giro per l’ospedale con la madre, ma in ogni caso sapevamo che si sarebbe fatto gli affari suoi. In quella camera regnava la solidarietà.
Quanto al cinese, gemeva come sempre, e dava l’impressione di non essere affatto cosciente di ciò che stava succedendo fuori dalle sue lenzuola. Anche se fosse stato chiamato a deporre, non sarebbe andato oltre le parole «dottole» e ancora «dottole».
Cecco ci fece l’occhiolino: significava «via libera». Attraversammo il giardino, e dopo dieci metri fummo davanti al cespuglio malconcio. Gazza spezzò i pochi ramoscelli che ostruivano il passaggio, aprendo alla fuga. Le ruote di Carlo oltrepassarono il terriccio e le erbacce grazie alla nostra spinta, prima di tornare a scorrere agevolmente sull’asfalto che portava al parcheggio. Pico accelerò il passo raggiungendo la macchina per primo, pronto a togliere la sicura e preparare l’imbarco. Il passaggio dalla sedia a rotelle al sedile anteriore, infatti, non era cosí immediato. Prima di avventurarci nella missione, Susanna ci aveva dato istruzioni ben precise: «Togliete il bracciolo sinistro dalla carrozzella, dopo averla affiancata allo sportello della macchina». Fatto.
«Prendete una tavola di legno liscia, tipo uno skateboard senza ruote». Fatto: l’aveva rimediata Pico, probabilmente rubandola.
«Mettetela sotto il sedere di Carlo, rivolta verso il sedile anteriore dell’auto». Fatto.
«A questo punto aiutatelo a scivolare nella macchina». Fatto. Liscio come l’olio.
«Richiudete la carrozzella e mettetela nel baule. In bocca al lupo. Non fatevi beccare». Fatto. Crepi. Tocchiamoci le palle.
Tirammo un sospiro. Tutto bene. Non ci scoprí nessuno, tranne Zibi, che se ne stava là fuori ad arrotolare uno spinello dopo aver riposto la materia prima sotto il sedere, sicuro del nostro silenzio, come noi del suo. Alzò al cielo la cartina mezza chiusa come si farebbe con un bicchiere di vino per chiamare un brindisi.
Pico mise in moto, e quella sera, per la prima volta nella nostra nuova vita, eravamo tutti insieme fuori dal Cto.

19.

Il sorriso di Carlo tremava di felicità e di preoccupazione per l’eventualità che qualcuno degli uomini in camice si rendesse conto del rapimento. Poi però rifletteva: – In fondo che cosa possono farmi? Non siamo mica in carcere.
Infatti.
Se Carlo avesse voluto, con il permesso dei medici avrebbe potuto firmare un semplice foglio e uscire per qualche ora, senza bisogno di organizzare la «Grande Fuga». Ma l’idea di evadere, di iniettarci un po’ di adrenalina tutti insieme, come se quella post incidente non fosse bastata, ci piaceva.
Pico sfrecciava nel traffico con l’intento di non perdere neanche un secondo della semifinale. Dallo stereo si spargeva nell’abitacolo Sick Boys dei Social Distortion, giusto per seguire la linea anni Novanta della cd-teca della Golf. Il volume era cosí alto da coprire le nostre voci che urlavano il ritornello senza una minima parvenza d’intonazione. Dai sedili posteriori, Gazza e io continuavamo a elargire pacche sulle spalle di Carlo, come si fa per complimentarsi con uno studente che si è appena laureato. Lui si guardava intorno, godendosi finalmente la città dopo tanta reclusione, la faccia curiosa di un turista giapponese che vede Firenze per la prima volta.
La sua ragazza fu messa al corrente del nostro piano per telefono, in viva voce, appena saliti in macchina. Ognuno le raccontò la propria versione del rapimento, eccitato, parlando sopra l’altro, senza che lei potesse capire un accidente. Si limitò a rispondere: – Lo sapevo che prima o poi lo avreste fatto. Scommetto che è stato tutto merito di Pico, mi sembra di vederlo che vi chiama a raccolta e vi rivela le sue idee pericolose –. E tutti a ridere.
– Stai tranquilla, guardiamo solo la partita e torniamo in ospedale, non se ne accorgerà nessuno, – provò a sdrammatizzare Carlo.
– E se trovano il letto vuoto?
– Un altro da metterci lo trovano di sicuro! – risolse Gazza. E tutti a ridere, di nuovo, senza sinceramente capire perché.
– Non fate sciocchezze.
– Non preoccuparti, mammina, – rispondemmo in coro, come bambini sul pullman in gita scolastica.
In effetti, la faccenda del letto avrebbe potuto costituire un problema, se non ci fossimo sentiti protetti da Susanna. Era di turno e si sarebbe occupata della stanza di Carlo: il suo materasso vuoto l’avrebbe visto solo lei.
Il procedimento di uscita dalla macchina fu identico al precedente, solo un po’ piú complicato, visto che la maggiore altezza della carrozzella rispetto al sedile della Golf costringeva la tavola da skate a stare in salita, ma ce la cavammo egregiamente, in tempo per prendere l’ascensore verso il nono piano e goderci la partita. Il sole non ne voleva ancora sapere di tramontare, irradiava luce come fossero le quattro del pomeriggio. Firenze era piú bella di tutta la Germania messa insieme. Mi venne in mente Annunziato, che se ne stava là a vedere una delle partite piú spettacolari della storia del calcio, in mezzo ai flash dell’Olympia Stadion che facevano lampeggiare il televisore come se sul terrazzo avessimo montato una strobo. Ma Annunziato non aveva gli amici che avevo io. Quella sera non avrebbe avuto nessuno con cui organizzare un’evasione, nessuno con cui ascoltare musica anni Novanta, nessuno con cui imprecare a ogni azione di gioco, nessuno da abbracciare in caso di vittoria. Solo il suo giornale, i suoi appunti sul taccuino, e il suo ruffiano attaccamento a Maraschi.
L’Italia vinse due a zero ai supplementari e si qualificò per la finale, noi ci riempimmo di birra e decidemmo, prima di ritornare alla base, di scorrazzare un po’ per la città a festeggiare e a cercare una pinta per un ultimo brindisi. Firenze era in festa, ovunque fummo travolti da concerti di clacson, trombe, fischietti, sventolio di bandiere tricolore e fiumi di alcol, mentre la sedia a rotelle di Carlo barcollava attraversando le mattonelle irregolari del centro e passando sopra bottiglie rotte, bicchieri di plastica, mozziconi di sigaretta accesi, uscendone sempre intatta, come un carro armato.
L’occasione della vittoria azzurra riportò per una sera il pub ai fasti di una volta, quando ancora era uno dei posti di ritrovo di maggiore successo in città. Ci prodigammo in una valanga di saluti verso persone che non vedevamo da anni e di cui nessuno di noi aveva mai sentito la mancanza. Sapevano tutti dell’incidente di Carlo, i giornali locali e il passaparola che si era scatenato dopo il tuffo avevano sparso la notizia. La gente si avvicinava a lui per sfoggiare il piú compassionevole degli sguardi, o per rivolgere timide domande dettate dall’imbarazzo, tipo: «Ma ti fa male?» Il nostro amico rispondeva con tranquillità a ognuno, abituato a destreggiarsi fra gli atteggiamenti di pietà e insieme di distanza del mondo esterno. C’erano tutti. La Gaia Ricciardi, la piú grande troia della storia centenaria del nostro liceo: con quelli che si era fatta negli anni della scuola, fra gite e ricreazioni trascorse in bagno, ci potevi riempire il Madison Square Garden, e fra gli spalti avresti scorto pure me, Gazza e Carlo. Tutti tranne Pico.
Ci aveva sbaciucchiati sulle guance, subito dopo essere uscita dal cesso dove, ci avrei giurato, aveva appena praticato petting estremo con uno degli avventori del locale. Fu l’unica a comportarsi serenamente davanti al nostro amico, chiedendo dettagli sul maledetto tuffo, dividendo la sua curiosità fra l’incidente e le nostre vite a Milano e in Scandinavia, sfoggiando il suo sorriso piú spontaneo e sexy, che campeggiava sopra le tette tonde, strizzate in una canottiera bianca, di un paio di misure piú piccola. Tutti gli altri non appena vedevano la sedia a rotelle cambiavano espressione e si agitavano, chiedendosi quale fosse il modo piú adatto per rapportarsi con Carlo. Lui conosceva tutte le possibili reazioni della gente: si divertiva nel corridoio dell’ospedale ad andare a sbattere con la carrozzella contro estranei, per notare meravigliato che gli chiedevano scusa, come se stare seduto là sopra gli desse di diritto ragione.
Nel gruppo della Ricciardi c’era Fabio Bontempi, detto Bonte. Esperto pilota di scooter, riusciva ad attraversare tutta la piazza impennando il suo Booster, che a quasi trent’anni non aveva ancora abbandonato. Sull’ingresso se ne stava impalato Giampiero Malatesta, soprannominato il «Male», vista la sua pungente antipatia: aveva finito l’università prima di tutti, con una laurea in Legge da centodieci e lode e il bacio accademico, rievocato ogni volta che qualcuno gli poneva domande sui suoi studi. Raccontava del bacio con tale soddisfazione che sembrava ci avesse limonato, con quei vecchi professori. C’era il gruppo dei punkabbestia con i cani liberi di pascolare davanti al pub nel cimitero di bicchieri rotti, la banda dello stadio, con cui Gazza scambiò abbracci fraterni neanche fosse Capodanno, e quella dei fighetti, che avrebbero indossato il Woolrich con la pelliccia anche in luglio, per il solo desiderio di fare moda.
Tutti al pub, tutti diversi fra loro, e Firenze come unico punto in comune. Ci rinfrancò il pensiero che il giorno dopo il nostro pub sarebbe tornato alla normalità, rifugio di americane e pochi individui di sesso maschile assetati di birra e sport sui canali satellitari.
Gazza si fece spazio a gomitate tra la folla ubriaca, prese quattro Guinness al bancone, riuscí a portarle fuori maneggiandole come palline da tennis, e ce le scolammo seduti su un muricciolo, nella piazzetta all’ombra del Palagio di Parte Guelfa, al riparo dall’apocalisse di gioia che si stava consumando in tutta Italia per la vittoria degli azzurri.
Carlo, reduce dal suo primo bagno di folla, beveva la birra facendosela versare di volta in volta in un bicchiere di plastica, piú facilmente impugnabile.
Il primo sorso lo rilassò: abbandonò del tutto le spalle sullo schienale. In fondo se l’era meritato proprio, dopo aver dovuto dispensare saluti e spiegazioni su tuffi, Cto e fisioterapie. Il suo racconto era ormai diventato una registrazione che bastava mettere in play, un copione imparato a memoria, che era stato costretto a ripetere a ogni visita e a ogni telefonata ricevuta nell’ultimo mese e mezzo, ma nella sceneggiatura da dare in pasto a chiunque ne facesse richiesta c’erano solo i momenti salienti. Di raccontare i dettagli alla Ricciardi, o a quel perfido di Malatesta, non aveva nessuna voglia.
La sbronza spinse però Carlo a farci notare qualcosa a cui non avevamo mai pensato.
– Non mi avete mai chiesto com’è successo.
– Com’è successo cosa? – domandò Pico, sapendo benissimo a cosa si riferisse Carlo.
– Il tuffo.
Seguí un attimo di silenzio, sporcato dai rumori dei caroselli provenienti da ogni parte della città.
– Lo sappiamo benissimo com’è successo, te l’ha appena chiesto tutta Firenze, – provai a mixare le mie parole sui cori dei tifosi, – e poi ce l’ha raccontato Valeria.
– Già, ma non sapete come l’ho vissuta io. Non sapete cos’è successo sott’acqua, mentre ingurgitavo e respiravo sabbia, acqua salata, e schifosissime alghe tirreniche.
– Hai perso conoscenza, – provò a indovinare Pico.
– È vero, ma questo è accaduto dopo.
Si tinse le labbra di schiuma densa e irlandese, e cominciò il racconto: – Mi ricordo tutto nei minimi dettagli. Nel momento in cui ho impattato con il fondale, ho sentito una fitta spaventosa. Il dolore è stato forte, ma brevissimo, forse meno di un secondo, piú veloce di una scossa, poi non ho sentito piú niente. Sono rimasto anestetizzato, e non riuscivo a muovere un solo muscolo del corpo.
I petardi e i clacson dei motorini diventavano sempre piú assordanti.
– Ma lo sapete qual è stata la cosa peggiore? Il rumore. Il rumore che ho sentito non credo esista in natura. Tipo quello che senti sul pavimento quando sposti di qualche centimetro un mobile pesante, ma molto piú ovattato. Non era forte, ma sono riuscito a sentirlo chiaro, scandito, in un mare di silenzio. È durato pochissimo, come la fitta, li ho sentiti in sincrono, e vi giuro che quel rumore non me lo dimenticherò mai. Ogni tanto ripenso a quel tuffo, lo sento ancora, e mi fa una paura del diavolo.
Nessuno di noi aggiunse una parola, ascoltavamo senza fiatare, riuscivamo a sentire i nostri respiri, nonostante il frastuono.
– Dopo quel rumore mi sono accorto che non potevo fare un cazzo di nulla, non riuscivo a sollevare la testa fuori dall’acqua, ero paralizzato, e nel frattempo immagazzinavo tutta la merda del mar Tirreno. Sto morendo, pensavo, non ci credo che sto morendo come un coglione, per un tuffetto. Io speravo di morire facendo uno sport estremo, oppure di infarto a ottant’anni, imbottito di Viagra, durante un amplesso, o durante la vittoria in finale di Champions League della Fiorentina. Speravo di morire dalle risate piuttosto, ma non per un tuffo del cazzo, e intanto respiravo acqua, sabbia e Dio solo sa cosa, e mi rendevo conto che le cose non si stavano affatto mettendo bene. Non mi sono visto tutta la vita passare davanti, non ho pensato alla mia infanzia, niente di tutto quello che si dice di chi si trova improvvisamente a tu per tu con la Grande Mietitrice. Cazzate, luoghi comuni. Non ci sarebbe nemmeno stato il tempo per ripensare a tutta quella roba lí. E poi bisogna essere in sé per percorrere ventisette anni di vita e riassumerla come si deve, e là sotto non è che fossi lucidissimo. Una sola cosa avevo in testa: sto morendo per un tuffo. I miei amici sarebbero capaci anche di prendermi per il culo per questo, e di farsi due risate al mio funerale. Contavo i millesimi di secondo che passavano lentissimi, e a ogni singolo rintocco mi allontanavo, sentivo in modo tangibile, e per questo inquietante, che me ne stavo andando. L’ossigeno era liquido, aveva il sapore della sabbia, non riuscivo ad aprire gli occhi, anche se sapevo che sarebbe stato inutile: avrei visto un unico colore marrone e opaco. Non avevo piú anidride carbonica da espellere, solo bile, che mi sono ritrovato a inspirare come una boccata d’aria. Sentivo i polmoni strizzarsi come stracci umidi. E Valeria dov’era? La immaginavo nuotare fra enormi dune e profondi tunnel di sabbia scura, dove sarebbe stato impossibile trovarmi. Sono qua sotto, diceva una voce interna, senza audio, anche se la riconoscevo come mia. Nessuno mi può aver sentito, pensavo, quel suono non deve aver smosso neanche un granello di sabbia. Stavo vaneggiando, come se qualcuno tenesse in moto il cervello per conto mio. Quando ho riaperto gli occhi, mi sono accorto di essere in un letto di ospedale. Ecco cos’è successo, ora lo sapete.
Ci sentimmo sputare incomprensibili suoni gutturali con il semplice scopo di coprire il silenzio, dal momento che anche i caroselli per l’Italia sembrarono all’improvviso andare avanti in «mute», prima che Gazza dicesse: – In effetti è meglio morire nei modi che hai detto prima: com’era quella faccenda dell’amplesso a ottant’anni? – Aveva pescato una frase a caso nell’ampolla delle possibili risposte, e avrebbe potuto indubbiamente trovare di meglio.
– E infatti tirerò le cuoia in qualche altro modo, in culo al tuffetto! – chiosò Carlo, stringendo fra i due pugni il bicchiere di birra e avvicinandolo ai nostri. – Ai modi che ho detto prima! – brindò.
– Ai modi che hai detto prima! – e le nostre voci, euforiche e commosse, surclassarono quelle dei tifosi.

20.

Sarebbe stato piú probabile trovare Zibi a fumarsi una canna con il primario piuttosto che il nostro rapimento passasse inosservato. Lo avevamo messo in conto e forse ognuno di noi sapeva in cuor suo che ci avrebbero scoperti, ma nessuno si era azzardato a sollevare seriamente il dubbio, per paura che il nostro piano fosse mandato a monte. D’altronde non sarebbe mica successa la fine del mondo, erano abituati alle fughe dei pazienti: da quando abitava al Cto, Zibi era evaso circa una volta alla settimana sulla sua carrozzella per andare a comprare il fumo, o per noleggiare una puttana sul viale piú vicino all’ospedale, con la speranza che nel suo corpo prima o poi tornasse tutto a funzionare come si deve. La leggenda, riportata da Carlo, narra che una volta lo ritrovarono sulla superstrada Firenze-Pisa-Livorno, mentre sfrecciava con la sedia a rotelle sulla corsia di emergenza verso chissà quale destinazione. Scappava come i cani quando sent...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Il giorno piú lungo
  5. Via libera
  6. Scatoloni e bustine di zucchero
  7. Superstiti
  8. Anita
  9. Quasi la Russia