
- 634 pagine
- Italian
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Romanzo criminale
Informazioni su questo libro
Un'organizzazione nascente, spietata e sanguinaria, dalle periferie cerca la conquista del cielo. Tre giovani eroi maledetti, che hanno un sogno ingenuo e terribile. Un poliziotto molto deciso, un coro di malavitosi, giocatori d'azzardo, criminologi, giornalisti, giudici, cantanti, mafiosi, insieme a pezzi deviati del potere e terroristi neri. E il piú esclusivo bordello in città . Un romanzo epico di straordinaria potenza, il cuore occulto della Storia d'Italia messo a nudo.
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Informazioni
Print ISBN
9788806160968eBook ISBN
9788858400517Prima parte
1977-78
Genesi
I.
Dandi era nato dove Roma è ancora dei romani: nelle case di Tor di Nona.
A dodici anni l’avevano deportato all’Infernetto. Sull’ordinanza del sindaco c’era scritto «Ristrutturazione degli immobili degradati del centro storico». La storia andava avanti da una vita, ma Dandi non smetteva di ripetere che, un giorno o l’altro, sarebbe ritornato al centro. Da padrone. E tutti si dovevano inchinare al suo passaggio.
Per il momento occupava con la moglie un bilocale con vista sul Gazometro.
Il Libanese ci andò a piedi dal Testaccio. Erano solo due passi, ma il sudore di agosto gli appiccicava la camicia nera al torace villoso. Piú strada faceva e piú s’incazzava con il pischello.
Dandi gli aprà con la faccia stranita. Portava una vestaglia rossa a pallini. Una volta, per puro caso, aveva letto qualche pagina di un libro su lord Brummel. Da allora ci teneva molto all’eleganza. Per questo lo chiamavano Dandi.
– Mi serve la moto.
– Fai piano. Gina dorme. Che è successo?
– M’hanno preso la Mini.
– Embe’?
– Dentro c’era il borsone.
– Annamo.
Il vento di scirocco era persino piacevole, sulla Kawasaki. Si bevvero la strada sino alle Idrovore della Magliana, parcheggiarono davanti a una saracinesca tutta ruggine e si addentrarono nel pratone. La baracca era tra uno sfascio e un magazzino di ferri. Porta sbarrata, niente luci.
– Non è ancora tornato, – decise il Libanese.
– Chi è?
– Un pischello. Il nipote di Franco il barista.
Dandi annuÃ. Si piazzarono intorno a un vecchio tronco cavo. Dandi tirò fuori una canna. Il Libanese aspirò due boccate e gliela ripassò. Non era il momento di stonarsi. Per un po’ se ne restarono in silenzio. A occhi chiusi, Dandi assaporava la piacevole rilassatezza dell’hashish.
– Stiamo perdendo tempo, – disse il Libanese.
– Prima o poi lo stronzo deve tornare.
– Non è questo il problema. Dico, in generale: stiamo perdendo tempo.
Dandi riaprà gli occhi. Il compagno era inquieto.
Il Libanese era piccolo, nero, quadrato. Era nato a San Cosimato, nel cuore di Trastevere, ma i suoi venivano dalla Calabria. Si conoscevano da una vita. Avevano fatto insieme banda da ragazzini, e adesso erano una batteria.
– Sto pensando al barone, Dandi.
– Ne abbiamo parlato cento volte, Libano. Non è aria. Siamo troppo pochi. Poi è roba del Terribile. E quello non ce lo darà mai il permesso.
– È questo il punto, Da’. Mi sono rotto di chiedere permessi. Facciamo senza.
– Può essere. Ma sempre pochi restiamo.
– Per il momento, per il momento, – tagliò corto pensieroso il Libanese.
Una grassa luna gialla aveva preso possesso dell’orizzonte. Il Libanese non aveva torto. Bisognava mettersi a pensare in grande. Ma una batteria di quattro ragazzi non aveva un gran futuro. Organizzazione. Quante volte ne avevano discusso? Ma come muoversi? E con chi? Un cane prese ad abbaiare.
– Hai sentito?
Passi sul selciato. Chiunque fosse, non si curava di nascondersi. Strisciarono piano sino a una catasta di pneumatici da camion. Il ragazzo, secco e storto, avanzava ondeggiando. Quando fu a tiro, partirono con un cenno d’intesa.
Il Libanese lo prese alle spalle, immobilizzandolo. Dandi gli sferrò un calcio nel basso ventre. Il ragazzo si accasciò con un gemito. Il Libanese gli tuffò la faccia nella terra secca, estrasse il revolver e gli piazzò la canna sulla nuca.
– Hai capito chi sono, bestia? Il ragazzo annuà furiosamente. Il Libanese spostò l’arma.
– Alzati. Il ragazzo si mise in ginocchio.
– Puzza come un caprone, – disse Dandi, disgustato.
– È la roba. È strafatto. Alzati, ho detto.
Il ragazzo cercava di mettersi in piedi, a fatica. Il Libanese sorrise.
– Ho promesso a tuo zio di non esagerare, ma non farmi perdere la pazienza. Rispondi solo sà o no.
Il ragazzo lo fissava inebetito. Aveva la faccia piena di punticci. Dandi gli mollò una pedata alla mascella.
– Sà o no?
– SÃ.
– Bene, – riprese il Libanese, – hai preso la Mini a Testaccio, vero?
– SÃ.
– Hai guardato nel bagagliaio?
– No.
– Sicuro?
– SÃ.
– Meglio per te. Dov’è la macchina adesso?
– Non ce l’ho piú…
Dandi si limitò a un buffetto sulla nuca. Il ragazzo cominciò a frignare. Il Libanese sospirò.
– L’hai venduta?
– SÃ.
– A chi?
Il ragazzo cadde in ginocchio. Non poteva dirlo. Era gente pericolosa. Lo avrebbero ucciso.
– Brutta situazione, eh, ragazzo? – disse il Libanese. – Se parli, quelli ti sparano. E se non parli ti spariamo noi…
– Libano, una volta ho visto un film western…
– E mo’ che c’entra?
– C’entra, c’entra. C’era un cavallo ferito, poveretto, stava proprio a tirare le cuoia… e il padrone non sapeva che fare… povera bestia, lo guardava con certi occhi… perché devo soffrire cosÃ, diceva…
– Aaahh! Ho capito! È quando lui poi gli tira il colpo di grazia… pam!
– Proprio cosÃ!
– Però… però, Dandi, scusa, sai, ma ti devo dire una cosa.
– E dilla, Libano!
– Ma quel cavallo era ferito… e questo ragazzo, invece, a me sembra ancora tutto sano…
Dandi gli sparò a una gamba. Il ragazzo si afferrò il ginocchio e cominciò a urlare.
– Guarda meglio, Libano!
– Hai ragione, Dandi. È proprio messo male! E come soffre! Che dici, glielo diamo ’sto colpo di grazia? Il ragazzo parlò.
II.
La Mini, ora, l’aveva il Freddo. Il Libanese non sapeva niente di lui, ma Dandi lo aveva incrociato un paio di volte. Un tipo serio, di poche parole, con una certa esperienza di uffici postali. Pizzicato per l’estorsione a un cuoco, se l’era cavata grazie alla ritrattazione della vittima. Uno di cui ci si poteva fidare, insomma.
Però nel magazzino abbandonato dietro il ristorante Il fungo c’entrarono con le armi spianate, svellendo la porta a calci. Il Libanese trovò un interruttore. A parte la puzza di benzina, solo la scocca di una 850 e, protetto da una vetrata che aveva conosciuto tempi migliori, una specie di ufficetto da contabile.
Si fissarono sconcertati. Il ragazzo era sembrato sincero, ma non si può mai dire. Il Libanese si era quasi pentito della semibontà dimostrata, quando se li sentirono alle spalle.
Si voltarono lentamente. Erano in quattro. Dovevano averli attesi in strada, nascosti da qualche parte, forse dentro una macchina. Il Libanese li fotografò rapido: due tappi, in calzoncini e maglietta, identica faccia truce, da gemelli cavati male, un barbuto con fisico da lottatore e un occhio che guardava all’India e l’altro all’America, e al centro il piú giovane. Moro, crespo, magrissimo. Il Freddo. Quasi un ragazzo. Sguardo che penetrava. Concentrato, deciso. Quanto a Dandi, studiava l’arsenale: tre semiautomatiche, e per il Freddo un revolver a canna lunga. Colt calibro 38. Una bella bestia: affidabile, tradizionale.
– Come va, Freddo?
– Vi stavamo aspettando.
Situazione critica. Svantaggio netto. Gli altri non mostravano nessun nervosismo. Avrebbero sparato subito, altrimenti. Il Freddo sembrava in grado di controllare i suoi. Il Libanese pensò che non era un caso se gli avevano affibbiato quel soprannome, e accennò un vago sorriso amichevole. Il Freddo mosse appena il capo, e lo strabico si avviò senza fretta all’ufficetto, attento a non mettersi sulla linea di tiro. Un minuto dopo una sacca da pugile veniva scaraventata ai piedi del Libanese. Il borsone.
– Controlla. C’è tutto. Quattro Beretta, due Tanfolio, i caricatori e le cartucce, – disse il Freddo.
– Mi fido, Freddo. Ho sentito parlare di te.
– Tu devi essere il Libanese. Per la Mini è tardi, mi dispiace.
L’aveva detto con una specie di ghigno. Doveva essere il suo modo di sorridere.
– Poco male. Ero assicurato.
La tensione residua si sciolse in una risata collettiva. Tutti riposero le armi. Dandi propose di andare a bere qualcosa al Re di picche. Il Libanese chiese di usare il telefono, se c’era. Lo strabico lo scortò nell’ufficetto. Da là chiamò Franco il barista e gli consigliò di andarsi a recuperare il nipote.
– È tutto intero, sta’ calmo. Magari un po’ zoppo, ma se l’è cavata con poco.
Il Freddo presentò i fratelli Buffoni e Fierolocchio, lo strabico. La bisca stava sbaraccando, a parte il barista con farfallino e un paio di puttane dalle occhiaie devastate. Si fecero portare una bottiglia di champagne e un mazzo di carte, e tirarono tardi giocando svogliatamente a zecchinetta. C’era qualcosa nell’aria, qualcosa che prima o poi sarebbe stato detto. Ma non sapevano da dove cominciare. Dandi e i Buffoni ne ebbero abbastanza all’alba. Fierolocchio si era addormentato sul tavolo da gioco. Il Freddo si offrà di accompagnare il Libanese a Trastevere. Montarono sulla Golf nera cinque porte, e il Libanese provò a sondare il terreno.
– Questo Re di picche mi pare un cesso.
– Puoi dirlo forte.
– Di chi è ’sto posto?
– Ufficialmente di una certa Rosa, una vecchia troia. Ma il padrone vero è il Terribile…
– Il Terribile qua, il Terribile là … sono stanco di trovarmi tra i piedi ’sto Terribile del cazzo… un rincoglionito senza un grammo di cervello… se ce l’avesse gente come noi, un posto cosÃ, lo faremmo diventare una miniera d’oro…
Il Freddo non rispondeva, apparentemente concentrato sulla guida. Ma nel suo sguardo s’era accesa una luce. Il Libanese decise l’affondo.
– Pensa, Freddo: pochi tavoli da poker, poste e «cagnotta», ma solo per clienti selezionatissimi. Un ambiente discreto. Un po’ di ragazze come si deve, altro che quelle bagasce sfondate… un barman che sa il fatto suo… quanto renderebbe un posto cosÃ, eh? Ci pensi? Quanto al mese? Quanto a settimana?
– Un sacco di soldi. Ma ne servono almeno altrettanti per partire.
– Tutto si può fare. Basta trovare le persone giuste.
Il Freddo inchiodò all’angolo tra viale Trastevere e San Francesco a Ripa e gli piantò addosso quel suo sguardo corrucciato e indecifrabile.
– Che hai in mente?
– Un sequestro.
– Chi?
– Il barone Rosellini. Quello dei cavalli.
– Perché lui?
– È un metodico. Orari fissi, abitudini consolidate. Un lavoro facile.
– Un lavoro cosà non è mai facile. Quanti uomini servono, secondo te?
– Una ventina… forse ce la possiamo fare anche con quindici.
– Io ho quelli che hai visto. Voi quanti siete?
– Oltre a me e a Dandi, Satana e Scrocchiazeppi…
– Quattro e quattr’otto. Meno della metà .
– Tu dici che gli altri non li troviamo?
– Dammi due settimane.
Il Libanese si abbandonò contro lo schienale, rinfrancato. Si cominciava a vivere, finalmente.
III.
Prendere il barone era stato un gioco da ragazzi. Proprio come aveva previsto. Il Libanese si era riservato di comunicare solo in un secondo momento l’identità del telefonista. Qualcuno aveva rumoreggiato, ma il Freddo aveva fatto pesare la sua autorità . L’alleanza cominciava a marciare. Sarebbero arrivati molto, molto lontano. Insieme. Quanto al telefonista, il Libanese aveva una sua idea. Qualcosa che aveva a che vedere con la lealtà , la paura e il dominio sui deboli. Appena rientrato a casa, chiamò Franco il barista e convocò il ragazzo.
Arrivò dopo nemmeno mezz’ora, gli occhi ancora gonfi di sonno. Zoppicava dalla gamba ferita, ma almeno si era fatto una doccia, e non puzzava piú. Il Libanese lo invitò a sedere su una delle due poltrone coperte dal drappo nero. Il ragazzo esitava, incuriosito dal busto sul comò rimediato a Porta Portese.
– Chi è quello?
– Mussolini.
– E chi è?
– Un grand’uomo. Siediti.
Il ragazzo obbedÃ. Nei suoi occhi brillava una paura selvaggia.
– Come va la gamba?
– Cosà cosÃ… faccio terapia…
– Ti buchi sempre?
– Sono pulito, giuro.
– Balle. Vuoi lavorare?
– Che genere di lavoro?
– Rispondi sà o no.
Il ragazzo tremò tutto. Il Libanese faticò a reprimere un sorriso.
– Come ti chiami?
– Lorenzo.
– Mi sembri un sorcio, tutto rattrappito… proprio un sorcio… allora: sà o no?
– SÃ.
– Risposta esatta. Sei arruolato, Sorcio. Adesso te ne vai a Firenze, e finché non ti autorizzo niente buchi. Quanto al lavoro, si tratta di fare qualche telefonata.
Anche il Freddo rientrò all’alba. Gigio lo aspettava sulla soglia, rattrappito dal gelo.
– Che ci fai qua?
– Io non ci torno piú a casa.
– Papà t’ha menato di nuovo? Gigio fece segno di no.
– E allora?
– E allora basta! A scuola va un disastro, e non ho mai una lira in tasca. Prendimi a lavorare con te. Ti prego…
Gigio aveva sei anni meno di lui. La polio gli aveva toccato una gamba, e anche il cervello non era un granché. Il Freddo provava uno strano affetto per quel fratello disgraziato. Una vita diversa, perché no? Dove sta scritto che il destino è un obbligo? In una delle sue rare fantasie era giunto a immaginarselo dottore. Si frugò nelle tasche e gli allungò un centomila.
– Adesso torni a casa, ti cambi e vai a scuola. O giuro che ti spacco la faccia. Chiaro?
Gigio incassò la testa tra le spalle. Avrebbe obbedito, come sempre. E sarebbe rimasto fuori da tutto questo, come sempre. Quando fu solo, il Freddo si buttò sul letto, senza neppure togliersi gli stivaloni.
IV.
Rapporto giudiziario sul sequestro a scopo di estorsione in danno del barone Valdemaro Rosellini (a cura del commissario Nicola Scialoja).
Dalle indagini relative al fatto in oggetto è emerso quanto segue:
il barone ROSELLINI, all’atto del sequestro, viaggiava a bordo della propria autovettura, Mercedes turbo diesel di colore cammello. Il fatto fu commesso nei pressi della via del Casale di San Nicola, località La Storta. L’auto del rapito fu fatta fermare di traverso al centro della strada da due autovetture. Secondo quanto riferito dal teste Oscar Marussi, che a bordo della propria autovettura, FIAT 131, seguiva il rapito, si trattava di una CITROEN Ds 21 e di una ALFETTA 1750 di colore azzurro. Lo stesso Marussi ha riferito che le due autovetture strinsero da ambo i lati la Mercedes del barone, costringendo quest’ultimo a fermarsi. Indi, dall’ALFETTA scesero quattro persone che afferrarono il barone e lo trascinarono verso la CITROEN, a bordo della quale l’ostaggio fu fatto entrare. La vettura ripartà subito dopo in direzione di Roma, mentre i quattro malviventi, dopo aver minacciato il Marussi, ripartirono a loro volta, tre a bordo dell’ALFETTA e il quarto impossessandosi della Mercedes del barone, che fu ritrovata il giorno seguente in via Cristoforo Colombo, altezza civico 459.
I contatti telefonici con la famiglia del rapito furono effettuati da località extradistrettuale (regione geografica diversa dal Lazio) allo scopo di impedire il funzionamento del blocco di rete dispos...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Prologo. Roma, oggi
- Prima parte
- Seconda parte
- Terza parte
- Epilogo. Roma, 1992
- Titoli di coda