Parte seconda
Otto
Il ragazzo toglieva il cappuccio al prigioniero quando veniva a nutrirlo. Anche il ragazzo portava il cappuccio, un rozzo pezzo di stoffa con fessure sfilacciate all’altezza degli occhi.
Il tempo divenne strano, la cosa originaria che c’è sempre. Incominciò a insinuarsi nella sua febbre e nel suo delirio, nella domanda su chi lui fosse. Quando sputò sangue guardò la sostanza rosea muoversi lentamente nello scolo, e il suo tremolio si portava dietro il tempo.
Dava una certa ansietà al prigioniero non sapere perché il ragazzo dovesse tenere la faccia nascosta.
Lo avevano portato qui con una macchina a cui mancava una portiera. Aveva visto un vecchio senza camicia impigliato in un rotolo di filo spinato in un campo irrigato con acqua di fogna da qualche parte.
«Stai all’erta e osserva i dettagli» disse il nastro di coscienza che gli si srotolava in testa, la voce che sussurra che tu sei piú intelligente dei tuoi rapitori.
Il prigioniero sentà che il ragazzo si avvicinava per togliergli il cappuccio e riempirgli la faccia di cibo e guardò nei buchi per gli occhi del cappuccio del ragazzo.
Il tempo permeava l’aria e il cibo. La formica nera che gli si stava arrampicando sulla gamba trasportava l’enormità del tempo, il vecchio passo lento che sa tutto.
Povero vecchio, probabilmente smarrito di notte, va a sbattere proprio nel filo spinato, senile, senza camicia, intrappolato, ancora vivo.
page_no="117" Aspettò il momento in cui poteva contare il bagliore dei missili lanciati. Quando sentiva i missili vedeva anche il bagliore benché il cappuccio che portava lui non avesse fessure per gli occhi.
Era nuovo a quest’esercizio e ansioso di riuscirci. Ogni volta che masticava il suo cibo calcolava i metri da una parete all’altra. Misura i muri, poi i mattoni nei muri, poi la calcina fra i mattoni, poi le screpolature quasi impercettibili nella calcina. Consideralo una prova. Fagli vedere come sei progredito.
Aveva visto delle corde da bucato tese fra le voragini create dalle bombe in grigie costruzioni in muratura, guardando attraverso la portiera mancante.
Il ragazzo gli tirò via il cappuccio e lo imboccò con la mano, sempre troppo in fretta, spingendogli il cibo in bocca prima che avesse finito di masticare il boccone precedente.
Ammise la realtà del suo isolamento. Riconobbe la presenza del filo di plastica che avevano usato per legargli il polso al tubo dell’acqua. Ammise l’esistenza del cappuccio. La sua testa era coperta da un cappuccio.
Il prigioniero aveva piani a non finire. Col tempo e gli strumenti adatti avrebbe imparato l’arabo impressionando i suoi rapitori e li avrebbe salutati nella loro lingua e avrebbe fatto con loro conversazioni elementari, una volta che gli avessero dato gli strumenti per imparare da solo.
Il ragazzo a volte lo torturava. Lo atterrava con un pugno, gli diceva di rialzarsi. Lo atterrava con un pugno, gli diceva di rialzarsi. Il ragazzo provava a strappargli i denti di bocca a mani nude. Il dolore continuava anche molto dopo che il ragazzo si era allontanato dalla stanza. Questo faceva parte della struttura del tempo, di come tempo e dolore erano divenuti inseparabili.
E c’erano anche delle autorità su cui far colpo. Al momento del rilascio lo avrebbero portato in un posto segreto e avrebbero recitato le loro domande con la stessa voce che udiva sul nastro delle istruzioni e lui avrebbe fatto colpo sulle autorità con la sua ricostruzione dei dettagli e la sua minuziosa analisi dei particolari cosicché loro sarebbero riusciti a localizzare in fretta l’edificio e a determinare l’identità del gruppo che lo teneva prigioniero.
Capà che era sera dai rumori della guerra. Nelle prime settimane iniziava al tramonto. Prima il clamore delle mitragliatrici, poi l’esplosione dei clacson. È interessante pensare a ingorghi di traffico provocati dalla guerra. In un certo senso tutto è normale. Sempre le solite imprecazioni.
Il ragazzo lo fece sdraiare sul dorso con le gambe piegate all’insú e colpà la pianta dei piedi del prigioniero con una sbarra di ferro. Il dolore gli rese il sonno difficile e questo allungò e intensificò il tempo, lo dotò di una consapevolezza, di una presenza ingegnosa e pervasiva.
Pensò all’uomo senza camicia impigliato nel filo spinato. I suoi ricordi non andavano al di là del momento del rapimento. Il tempo iniziava là tranne alcuni brandelli, lampi estivi, momenti concisi in una casa da qualche parte.
Ma anche la storia delle autorità , che ne sanno le autorità , si aspettava davvero che le autorità venissero a conoscenza di cose importanti grazie alla lunghezza e all’ampiezza di un mattone, quand’anche ci fossero stati mattoni da contare e da misurare e non ce n’erano, o di suoni significativi che si spegnevano ancor prima di varcare le pareti.
Non c’era nessuna sequenza, nessun nesso narrativo, né un giorno che portava all’altro. Sul bordo del suo materasso di gommapiuma vide una scodella e un cucchiaio ma il ragazzo continuava a dargli da mangiare con la mano. Talvolta il ragazzo dimenticava di rimettergli il cappuccio dopo il pasto. Questo rendeva ansioso il prigioniero.
Poi venivano i mortai, un rumore di polvere nel pesante scoppio delle bombe, una polvere al rallentatore, granelli di polvere che entravano in collisione a milioni.
page_no="119" Era difficile pensare alle donne se non in maniera disperata e incompleta. Se avessero potuto mandargli una donna, almeno una volta, per mezzo secondo, giusto per metterle gli occhi addosso.
L’unico rumore significativo che sentiva era il videoregistratore al piano di sopra. Stavano guardando il video della guerra nelle strade. Volevano vedersi con le loro uniformi raffazzonate, la vivace truppa di strada, quelli siamo noi, che spariamo raffiche nervose alla milizia in fondo all’isolato.
Le formiche e i ragnetti trasportavano il tempo nella sua vastità e nel suo scontento e quando lui sentiva qualcosa che gli strisciava sul dorso della mano voleva parlare a quel qualcosa, spiegargli la sua situazione. Voleva raccontargli chi era lui, perché questa ormai era una questione piuttosto confusa. Tagliato fuori dalla gente le cui voci erano il groviglio del suo essere, sempre piú magro e pallido perché non c’era nessuno a vederlo e a ridargli il suo corpo.
Il ragazzo dimenticò di mettergli il cappuccio dopo i pasti, dimenticò i pasti, il ragazzo era il portatore dell’arbitrarietà . L’ultima cosa che avesse un senso, l’ora dei pasti e delle botte, ormai rischiava di crollare.
Se avessero potuto mandare una donna che portava le calze e che sussurrasse la parola – calze. Questo lo avrebbe aiutato a vivere un’altra settimana.
Poi ecco quello che stava aspettando, il rumore-lampo e i grossi razzi Grad che partivano da lanciarazzi a piú bocche, venti trenta forse quaranta alla volta nel crepuscolo incandescente di un duello decisivo attraverso la Linea Verde.
Voleva della carta e qualcosa per scrivere, un modo per sostenere un pensiero, per situarlo nel mondo.
Si rifiutò di esercitarsi o di contare mattoni o di inventare mattoni da misurare e contare. Parlò ad alta voce a suo padre la mattina presto, dopo che la guerra si fu spenta pian piano. Raccontò a suo padre dov’era, qual era la sua posizione, gli disse che era legato a un tubo, descrisse quali dolori aveva al momento, come stava di spirito, ma rassicurandolo che sperava di essere salvato come dicevano sul nastro delle istruzioni dell’uomo occidentale.
Cercò di inventarsele, le donne in cinghie e calze a rete, ma riuscà a ottenere soltanto delle immagini fuggevoli, incomplete.
C’era qualcosa nei rumori dei razzi lanciati che produceva un lampo corticale, la luce cerebrale sotto il cappuccio che voleva dire cristiani e musulmani, che voleva dire che il cielo brillava, la città era fasciata in rapsodie di luce e di fuoco sino al mattino, quando gli uomini uscivano in mutande dai loro rifugi soffocanti per spazzar via i detriti e comprare il pane.
Non c’era nessuno a ricordargli chi era. I giorni non erano collegati. Il prigioniero sentà l’affievolirsi dei dati piú semplici. Incominciò a identificarsi col ragazzo. A mano a mano che tutte le sue voci fuggivano egli incominciò a pensare che forse lui si trovava da qualche parte dentro il ragazzo.
Cercò di ripetere le vecchie storie, sesso con una donna indistinta su un aereo di linea che sorvolava l’oceano di notte (e doveva essere notte e doveva esserci acqua) o incontri in posti inattesi con donne con indumenti aderenti, incrociati da cinghie nere chiuse ermeticamente perché lui le dischiudesse, ma sembrava proprio che non ci riuscisse, fasciate e incinturate, donne intrappolate nel mezzo di un pensiero.
Nessuno venne a interrogarlo.
Guardò attraverso la portiera mancante e c’erano bambini che giocavano tra le macerie e una pistola puntata sul suo collo e lui continuò a dire a se stesso sto viaggiando su una macchina senza una portiera.
Le vecchie storie sperimentate e vere. Sesso con una donna indistinta su una scalinata di un edificio vuoto in un giorno di pioggia. Piú eran banali, piú eran comuni, prevedibili, trite, stantie, piú erano stupide, meglio era. L’unica cosa per cui non aveva tempo era l’originalità . Voleva le stesse fantasie giovanili che aveva il ragazzo, voleva attingere alle immagini che li avrebbero trascinati entrambi fino alla mezza età , alla rovina finale, quelle tristi storielle illustrate cosà affidabili e vere.
Il cibo di solito veniva comprato già pronto, e arrivava dentro un sacchetto con sopra lettere arabe e un marchio con tre polli rossi in fila.
No, non odiava il ragazzo, che aveva mani scrostate e dita mordicchiate e non era responsabile del suo terrore solitario. Ma lui non lo odiava, vero? oppure sÃ? o no?
Ben presto, però, sentà che queste chiacchiere con suo padre erano una forma di esercizio, di automiglioramento, e smise di parlare, lasciò sfuggire anche quest’ultima voce, disse okay e si ridusse a un borbottio.
Pensò all’uomo senza camicia sul reticolato tagliente e lo vide illuminarsi al neon nell’alba sgargiante della guerra.
All’inizio, che cosa?
All’inizio c’era gente in molte città che aveva il suo nome sulle labbra. Sapeva che erano là fuori, la rete dei servizi segreti, i canali secondari della diplomazia, tecnici, uomini dell’esercito. Era incappato nella nuova cultura, nel sistema del terrore mondiale, e loro gli avevano dato una seconda personalità , un’immortalità , lo spirito di Jean-Claude Julien. Era un mosaico digitale nella griglia di elaborazione, una serie di caratteri spettrali su microfilm. Lo stavano mettendo insieme, immagazzinavano i suoi dati in satelliti a stella marina, facevano rimbalzare la sua immagine dalla luna. Si vide fluttuare fino ai lontani lidi dello spazio, oltre la propria morte e poi di nuovo indietro. Ma sentà che ormai avevano dimenticato il suo corpo. Lui era perduto nelle gamme di lunghezza d’onda, era ormai un codice in piú per la rete dei computer, per la memoria di crimini troppo insensati per avere una spiegazione.
Chi lo conosceva adesso?
Non c’era nessun altro che lo conoscesse oltre al ragazzo. Prima lo abbandonò il governo, poi il datore di lavoro, infine la famiglia. E adesso, anche gli uomini che lo avevano rapito e lo tenevano chiuso in una cantina si erano dimenticati che era lÃ. Era difficile dire quale di queste dimenticanze lo affliggesse di piú.
Bill sedeva in un piccolo appartamento sopra una lavanderia automatica un miglio circa a est di Harvard Square. Indossava un maglione sopra il pigiama e un vecchio accappatoio di spugna sopra il maglione.
Sua figlia Liz preparava la cena e gli parlava attraverso un portello per il servizio, ingombro di riviste e di copioni teatrali.
– È impossibile risparmiare un centesimo per cui non ci penso neanche a spostarmi da qui. Ormai sono arrivata al punto di sentirmi fortunata per il fatto che se non altro faccio qualcosa che mi piace.
– E al diavolo le piccole miserie.
– Ma occhio a quelle grosse.
– Come l’ultima volta che ero qui.
– Esatto.
– Stai molto meglio, piccola.
– L’ultima volta ero in crisi. Comunque vedo che hai trovato l’accappatoio e il pigiama. Ti lasci sempre dietro qualcosa, papà .
– Ho preso da te.
Era a piedi nudi e leggeva un giornale.
– Potresti anche avvertire che arrivi, per la miseria. Sarei potuta venire a prenderti all’aeroporto.
– L’ho deciso sul momento. Pensavo che fossi al lavoro.
– Il lunedà sono libera.
– Scommetto che sei brava nel tuo lavoro.
– Vai a dirlo a loro. Qui va a finire che batto i trenta da un minuto all’altro e sto ancora cercando di liberarmi dalla parola assistente.
– Senti, per via del disturbo. Sarò fuori di qui domani.
– Il sofà è tuo finché vuoi. Rimani per un po’. Mi farebbe piacere.
page_no="123" – Mi conosci.
– Per il Memorial Day andremo tutti ad Atlanta. Potrò fare una relazione sull’eccezionale visita del Padre Mitico.
– Gli rovinerai il fine settimana.
– Perché non mi chiedi come stanno?
– Me ne frego.
– Grazie tante.
– Ho raggiunto un accordo interurbano con quei due sul valore di fregarsene. Percezione extrasensoriale. Anche senza parlarci siamo in perfetta comunicazione.
Accantonò una parte del giornale e attaccò con un’altra.
– A loro interessa quello che stai facendo, – disse lei.
– Quello che sto facendo? Sto facendo quello che ho sempre fatto. A chi può interessare una cosa del genere?
– Sei ancora un argomento popolare. Salvo che con la mamma, naturalmente. Lei non vuole sentirne parlare.
– Neanch’io, Lizzie.
– Ma capita che salti fuori. Siamo come quei cagnetti marrone che tirano e mordicchiano lo stesso straccio sputacchioso.
– Riferisci che le mie bevute sono assolutamente sotto controllo.
– E che dire del tuo distacco?
– Già , che dire? – disse lui.
– E della tua rabbia. Dello spazio d’aria in cui non ci era permesso entrare quando tu rimuginavi. E della tua scomparsa?
– Scusa eh, ma perché non mi lasci perdere se sei convinta che fossi cosà difficile?
– Non lo so. Forse sono una vigliacca. Non sopporto l’idea che fra noi si instaurino dei sentimenti negativi tali da crearmi eterni rimpianti. E forse anche perché non ci sono figli nel mio futuro. Non devo vivere la mia vita come una lezione di storia su come non assomigliare a mio padre. Non avrò nessuno a cui mandare a puttane l’esistenza, come hai fatto tu con Sheila e Jeff.
Ficcò la testa nell’apertura fra le due stanze, sfoderando un sorrisetto furbo.
– Noi non pensiamo che il tuo comportamento avesse qualcosa a che fare con lo scrivere. Noi pensiamo che il Padre Mitico si valesse dello scrivere come di una scusa per quasi tutto. È cosà che noi analizziamo la questione, papà . Noi pensiamo che lo scrivere non sia mai stato il doloroso fardello che tu fingevi fosse ma che in realtà fosse la tua conveniente stampella e il tuo conveniente alibi per ogni possibile fallimento a essere una persona per bene.
– Comunque, cosa fa un direttore di scena?
Lei gli fece un sorriso piú ampio e lo guardò come se avesse detto esattamente la cosa che le dava prova del suo amore per lei.
– Ricorda agli attori dove dovrebbero cadere nella scena della morte.
Gail uscà dalla camera da letto e prese una giacca dall’armadio.
Bill disse: – Ti sto cacciando fuori? Resta nei paraggi e fa’ da arbitro. Sta per piovermi addosso una tempesta di sabbia da Vecchio Testamento.
– Stasera ho il mio ipnotizzatore. È la mia ultima speranza di togliermi di dosso un po’ di chili.
– Io le dico di cercare di non mangiare, – disse Liz.
– Lo dice come se fosse una questione di buonsenso. Io arrivo a un massimo di otto giorni di dieta stretta, poi scatta automaticamente qualcosa per cui so che sono libera da qualsiasi vergogna e colpa.
– Parla con mio padre. Gli scrittori hanno disciplina.
– Lo so. È una cosa che gli invidio. Io non potrei mai farlo, star là seduta giorno dopo giorno.
– Le formiche soldato hanno disciplina, – disse Bill. – Non chiedermi che cos’hanno gli scrittori.
Gail uscà e loro due si sedettero a cenare. A lui parve di capire che, in questo tandem, sua figlia facesse la parte della lesbica piú attiva, quella che prendeva le decisioni e curava le ferite. Cercò di sentirsi impressionato. Versò il vino che aveva comprato dopo che aveva lasciato il taxi e se n’era andato a zonzo nella zona alla ricerca di strade e case familiari perché si era accorto che non aveva idea di quale fosse il nome della strada di sua figlia e non era riuscito a trovare il suo indirizzo né il numero di telefono nel portafoglio. Come diavolo si aspettava di riuscire a entrare nell’appartamento anche se avesse saputo dove abitava? Alla fine aveva intercettato un telefono e chiamato il servizio informazioni scoprendo che sua figlia non solo era sull’elenco ma era anche in casa.
– Senti un po’, sto cercando di ricordarmi cos’altro potrei aver dimenticato l’ultima volta.
– Gail mette il tuo accappatoio.
– Ipnosi. Potrebbe essere la risposta a tutto.
– Hai lasciato un portafoglio con dei traveller’s check e il passaporto. Fai l’aria sorpresa, papà .
– E io che mi chiedevo dove diavolo…
– Lo sapevi benissimo dov’era. È per questo che sei qui, non è vero?
– Sono qui per vedere te, piccola.
– Lo so.
– Cristo, non riesco a fare una mossa.
– Non c’è problema. Non passo il mio tempo a ossessionarmi sulle ragioni di papà .
– Solo sulla sua negligenza.
– Be’, quella c’è di sicuro.
– Effettivamente non ero neanche nei paraggi quando tu sei nata. L’avevi mai saputo?
– Solo di recente.
– Ero a Yaddo.
– Cos’è?
– È un ritiro, un posto dove gli scrittori vanno per un po’ di strafottuta tranquillità e pace. Non per niente è il motto dell’istituzi...