E tutti questi dove vanno mò, che manca piú di mezza giornata all’ora dello struscio? Ma non ce l’hanno un mestiere?
Il Sostituto Immacolata Tataranni si spenzolava dal davanzale al secondo piano della Procura della Repubblica, sforzandosi di allungarsi sulle punte dei piedi, perché quelle cazzo di finestre erano troppo alte. Fra i passanti che transitavano sotto il sole a picco in piazza dei Caduti, enorme e tutta bianca da quando l’avevano rifatta, avvistò una capigliatura castana striata da mèches biondo scuro. Strinse gli occhi per migliorare la messa a fuoco. Non poteva esserne sicura, ma le probabilità che fosse lei erano alte.
Maria Moliterni, impiegata di terzo livello nel settore amministrativo, e moglie del prefetto.
Già da diversi mesi la dottoressa Tataranni aveva il sentore, quasi la certezza, che la signora approfittasse delle ore di servizio per fare la spesa, ma non era ancora riuscita a sorprenderla in flagrante. Stava aguzzando la vista, cercando di cogliere qualche altro dettaglio, quando il telefono nella stanza si mise a squillare. Fece in tempo a notare un paio di scarpe modello Chanel, mentre con un’elegante falcata la signora svoltava verso la piazza del mercato.
Imma, come i piú intimi chiamavano la Tataranni, poggiò a terra la pianta dei piedi, annotando mentalmente l’orario, l’una e dieci. Poi fissò il telefono. Erano rogne, sicuro.
Valentina doveva essere appena uscita da scuola e adesso chissà qual era la novità, perché una, figuriamoci, c’era sempre. Invece le dissero che avevano ucciso un ragazzo, a Nova Siri. Volente o nolente, Imma si sentí sollevata.
La Procura di Matera il sabato mattina assumeva un aspetto sinistro. Senza il viavai di belle signore togate, di uscieri, di gente venuta a sbrigare pratiche, di avvocati in abito blu riuniti in circolo come pinguini sulla banchisa, di imputati, testimoni, parenti, carabinieri e poliziotti, saltavano all’occhio tutte le magagne.
I muri sbrecciati e stinti. Lo scotch che imperversava. Marroncino, da pacchi, a sigillare porte, oppure a fissare grossi fogli di carta per oscurare qualche vetrata. Scotch telato penzolante su quadrati di plastica che fungevano da bacheche, con ordini di convocazione e comunicati di servizio attaccati alle estremità. Scotch colorato, giallo o blu, con scritte bianche o nere, che incaprettava macchinari in disuso arenati nei corridoi. Scotch trasparente che teneva insieme vetri rotti di finestre. Scotch appiccicato dove capita e basta.
E poi pile di scatoloni polverosi in precario equilibrio, con su scritto Elezioni amministrative, fili elettrici che spuntavano dai muri e si arrotolavano come serpenti, lampade al neon agonizzanti.
Imma attraversò i corridoi deserti col rumore dei tacchi che rimbombava, oltrepassò la porta con su scritto Bagno chiuso per vandalismo e raggiunse appena in tempo la macchinetta per timbrare i cartellini.
Lí davanti, Diana De Santis stava frugando nella borsa.
Ogni giorno all’una e ventidue la cancelliera smetteva di rispondere al telefono, passava in bagno, si lavava le mani col sapone portato da casa, poi prendeva il soprabito e se lo infilava strada facendo. Timbrava e usciva a e mezza spaccate.
Diana si fermò un attimo, quando apprese la notizia dell’omicidio, poi mormorò un che peccato a fior di labbra.
A Imma non sfuggí la leggera apprensione nel suo sguardo.
Si conoscevano dai tempi del liceo. Avevano anche diviso il banco per un periodo, prima che quella scema di De Santis scegliesse di sedersi con Cucciniello, a fare chiacchiere e pettegolezzi che ebbero un pessimo influsso sul suo rendimento scolastico. Per questo Imma seppe dare immediatamente un nome alla preoccupazione che le leggeva negli occhi in quel momento: Cleo.
La cancelliera l’aveva avuta dopo quindici anni di tentativi andati male e chiamarla Cleopatra le era sembrato il minimo. D’altronde lei stessa si chiamava Diana anziché Giuseppina come la nonna, in onore della luccicante cavallerizza che suo padre aveva visto una volta, al circo, e mai piú dimenticato. Anche se poi, a causa del viso un po’ lungo, piú che alla cavallerizza, Diana somigliava al cavallo.
Nominava la figlia in qualsiasi discorso, a proposito e a sproposito, come per capacitarsi che esistesse davvero, con grande ammorbamento della dottoressa, che aveva sempre trovato i discorsi sui figli noiosi almeno quanto quelli sui fidanzati e sui preparativi di matrimonio, superati soltanto dai resoconti delle vacanze e dalle foto dei viaggi.
Forse fu per mettere in atto una piccola vendetta che Imma aspettò qualche istante prima di dire alla cancelliera di far salire Calogiuri, andando via, segno che aveva intenzione di sbrigarsela senza di lei.
Mentre, sollevata, se ne andava a scaldare lo sformato di spinaci, Diana la avvisò che aveva telefonato Perrone per quella cena delle ex compagne del liceo. Avevano deciso di farla a casa di Carmela Guarini. Volevano la risposta. Imma rispose di sí pensando ad altro e se ne pentí quasi subito, ma ormai era troppo tardi.
Mentre l’Alfa Romeo d’ordinanza imboccava la statale per Metaponto, Imma aveva l’elenco della sezione A che le scorreva in testa. Altieri, Ambrico, Amodio… Si stava chiedendo chi fosse la colpevole, perché le riunioni di classe sono un incubo per tutti, ma non si sa per quale motivo, e con quale intento, c’è sempre qualcuno che si prende la briga di organizzarle.
Accanto a lei Calogiuri guidava in silenzio. Quella mattina verso le sette un rapido rovescio di pioggia aveva pulito il cielo e poi era uscito il sole. Tutto brillava.
Una gazza bianca e nera, elegante come una dama dei primi del Novecento in abito da sera e grossa come un cagnolino, sbucò dai cespugli e planò davanti a loro scomparendo un attimo dopo dall’altra parte. Dei passerotti birbanti scendevano in picchiata e si piantavano sull’asfalto, sollevandosi in volo appena in tempo per non essere schiacciati dalle ruote. La macchina procedeva in mezzo a colline ricoperte di un verde tenero e carico, striato del giallo dei fiori di rapa, uguale a quello dei colori a cera che solo pochi anni prima, quando ancora era possibile ragionarci, utilizzava Valentina.
Una nuova idea stava iniziando a ronzare nella mente di Imma. Doveva fare qualcosa, quel pomeriggio. Ma cosa?
Con un movimento fluido, Calogiuri schivò un imbecille che stava per andargli addosso e si rimise in carreggiata.
Imma formulò a un tratto il pensiero che l’appuntato fosse una delle cose migliori che le erano capitate negli ultimi anni. Non perché era un bel pezzo di giovane, come avevano notato fin dal primo giorno le segretarie, le dattilografe, alcune avvocatesse e le ragazze del bar, arrivando a malignare che fosse il motivo per cui l’aveva scelto come collaboratore personale, ma perché se ne stava zitto, muto, e non parlava se lei non gli rivolgeva la parola. Adesso pensava a guidare, cosa che peraltro faceva magnificamente, concentrato, prudente e veloce. Stavano uno accanto all’altra in perfetto silenzio, col rassicurante fruscio delle ruote sull’asfalto, senza bisogno di dire idiozie.
La strada non era molto trafficata, a quell’ora. Imma la guardava scorrere mentre sul parabrezza si schiantavano insetti di ogni genere, lasciando grosse macchie di succo verde o giallo. Uno anche una strisciata di sangue. Era primavera.
L’evidenza la colpí inaspettatamente. I campi di grano si srotolavano allegri e rasserenanti fino all’orizzonte, come se la regione definita a piú riprese vergogna nazionale, fino al giorno prima serbatoio di emigrazione, voti comprati e mortalità infantile, si fosse all’improvviso trasformata in una dolce Svizzera spensierata e fertile. Gli uccellini cantavano. Imma pensò che con tutto quello che aveva da fare, adesso, le toccava accollarsi anche il cambio del guardaroba.
A Nova Siri, il cadavere era stato ritrovato all’inizio di una stradina poderale che dava sulla 106, noto punto di snodo per le attività dei clan pugliesi e calabresi.
L’inconfondibile viavai che quel genere di evento richiamava si vedeva da lontano.
Il maresciallo dei carabinieri della stazione locale, Domenico La Macchia, Imma aveva già avuto modo di conoscerlo, perché la zona, la cosiddetta California di Basilicata, si poteva considerare la piú calda della sua area. Era un tipo sui trentacinque, di Lamezia Terme, e lei era convinta che sniffava. Scattoso e impettito, sempre pronto a strafare, la trattava con gentilezza esagerata, credendo cosí di nascondere un pensiero che portava scritto in faccia: era lui, non lei, che avrebbe dovuto dare gli ordini, per il semplice fatto di avere qualcosa nei pantaloni.
La Macchia si aggirava con gli occhiali a specchio, cacciandosi fra i piedi degli uomini che avevano finito di transennare e tenevano lontani i curiosi, intralciando il medico legale e quelli della scientifica.
Imma si fece avanti, decisa, sui tacchi a spillo, sotto lo sguardo di alcuni sfaccendati che non essendo riusciti a vedere il morto volevano rifarsi in qualche modo.
Il ragazzo stava steso sull’erba, in mezzo alle canne lungo il vialetto sterrato che dalla statale 106 portava a casa sua, come le avevano spiegato nella telefonata.
Era vestito di nero dalla testa ai piedi. Lo sguardo di Imma fu attratto dalla fibbia della cintura con la D e la G di Dolce e Gabbana. Una fitta le strinse lo stomaco. Un po’ era fame, perché l’ora di pranzo era passata da un pezzo, un po’ nervoso. La settimana prima Valentina aveva fatto il diavolo a quattro perché alla sua amica Bea avevano comprato uno di quei vestiti che valeva quanto lo stipendio di una persona normale, e lo voleva anche lei.
Imma aveva resistito, a costo di mettere in crisi la pace ristabilita da poco. Alla fine, tanto per cambiare, gliel’aveva comprato il padre.
Erano Dolce e Gabbana anche le mutande del morto. L’elastico bianco con la sigla grigia spuntava dalla cintola dei pantaloni.
L’intera scena avrebbe potuto essere una pubblicità del pregiato marchio. Il nero del vestito sul verde brillante dell’erba. Il pallore del ragazzo e le labbra bluastre, sul volto dai lineamenti regolari. I capelli intostati dal gel, e quel rosso violento alla gola, dove era arrivata la coltellata. Anche il motorino, buttato per terra poco piú in là, era rosso.
Non mancava la colonna sonora. Proveniva dalle cuffie dell’Emmepitre che la vittima portava ancora alle orecchie e non gli era caduto nemmeno con la coltellata.
“Festa Nunzio, nato a Nova Siri il 21 marzo 1981”.
Il brigadier Cagnazzo aveva trovato la carta di identità poco lontano, fra l’erba.
“Il 21 marzo è oggi, faceva gli anni”.
Dall’81 al 2003… ventidue.
Un tipo nerboruto dava in escandescenze. Era del consorzio di bonifica. Stavano lí dal mattino, lui e un altro. Dovevano drenare il canale che correva parallelo al sentiero, una manutenzione che veniva effettuata circa una volta l’anno. È cosí che avevano trovato il cadavere. L’avevano già ripetuto non si sa quante volte con tutti i dettagli. La Macchia li stava trattenendo senza motivo.
Il maresciallo se ne uscí con la solita trovata: “Dottoressa, non l’avevo vista”, contorcendosi in modo innaturale e flettendo le ginocchia come si fa coi bambini. Imma non si lasciò intimidire. Dopo qualche domanda ai due operai, li liberò con la raccomandazione di restare reperibili.
Poi, per mettere i puntini sulle i, volle sapere da La Macchia come si stessero muovendo. Quello le fece notare il timbro col Partenone sul polso del ragazzo.
Bè! C’era una specie di epidemia, da un po’ di tempo. Andavano in discoteca. Litigavano per qualche motivo da trogloditi, perché la ragazza aveva guardato un altro, o un altro aveva guardato la ragazza, poi uscivano, facevano a botte e casomai si sbudellavano.
Piú diventavano moderne, quelle generazioni tutte videogame e internet, piú diventavano anti...