Pietra di pazienza
Du corps par le corps avec le corps depuis le corps et jusqu’au corps.
ANTONIN ARTAUD
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Le citazioni dal Corano sono tratte dalla traduzione italiana di Federico Peirone pubblicata da Mondadori nel 1979 [N. d. T.].
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Da qualche parte in Afghanistan o altrove
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La camera è piccola. Rettangolare. È soffocante nonostante le pareti chiare, color ciano, e le due tende con motivi di uccelli migratori colti mentre spiccano il volo su un cielo giallo e azzurro. Bucate qua e là, lasciano penetrare i raggi del sole che finiscono sulle righe scolorite di un kilim. In fondo alla camera c’è un’altra tenda. Verde. Senza alcuna decorazione. Nasconde una porta sbarrata. O un ripostiglio.
La camera è vuota. Vuota di ogni ornamento. Tranne sulla parete che separa le due finestre, dove è stato appeso un piccolo khanjar, e sopra il khanjar una foto, di un uomo con i baffi. Ha una trentina d’anni. Capelli ricci. Viso squadrato, incorniciato da due basette tagliate con cura. I suoi occhi neri brillano. Sono piccoli, separati da un naso a becco. L’uomo non ride, e tuttavia pare trattenere il riso. Ciò gli dà un aspetto strano, come di un uomo che dentro di sé si fa beffe di colui che lo guarda. La foto è in bianco e nero, colorata artigianalmente con tonalità spente.
Di fronte alla foto, ai piedi di una parete, il medesimo uomo, ora piú vecchio, è steso su un materasso rosso posato sul pavimento. Ha la barba. Sale e pepe. È dimagrito. Troppo. Gli resta solo la pelle. Pallida. Piena di rughe. Il suo naso è sempre piú simile al becco di un’aquila. Continua a non ridere. E ha ancora quella strana aria beffarda. La bocca socchiusa. Gli occhi, ancora piú piccoli, sono infossati nelle orbite. Ha lo sguardo fisso al soffitto, fra le travi a vista, annerite e marce. Le braccia, inerti, sono stese lungo il corpo. Sotto la pelle diafana, le vene simili a vermi esausti si intrecciano alle ossa sporgenti della carcassa. Al polso sinistro porta un orologio meccanico, e all’anulare una fede d’oro. Nell’incavo del braccio destro è infilato un ago, un liquido incolore proviene da una sacca di plastica appesa alla parete, subito sopra la sua testa. Il resto del suo corpo è coperto da una lunga camicia azzurra, ricamata sul colletto e sulle maniche. Le gambe, rigide come due pali, sono nascoste sotto un lenzuolo bianco, sporco.
Sul suo petto la mano di una donna oscilla al ritmo del respiro, posata sopra il cuore. La donna è seduta. Con le gambe piegate e raccolte al petto. La testa rannicchiata fra le ginocchia. I capelli neri, nerissimi, e lunghi, le coprono le spalle ondeggianti, e seguono il movimento regolare del braccio.
Nell’altra mano, la sinistra, tiene un lungo rosario nero. Lo sgrana. In silenzio. Lentamente. Allo stesso ritmo delle spalle. O allo stesso ritmo del respiro dell’uomo. Il suo corpo è avvolto in un abito lungo. Color porpora. Ornato in fondo alle maniche e sull’orlo con sobri motivi di spighe e fiori di grano.
A portata di mano, aperto alla pagina di guardia e posato su un cuscino di velluto, un libro, il Corano.
page_no="6" Una bambina piange. Non è in questa stanza. Può essere in quella accanto. O nel corridoio.
La testa della donna si muove. Stanca. Lascia l’inca-vo fra le ginocchia.
La donna è bella. All’estremità dell’occhio sinistro una piccola cicatrice le restringe appena l’angolo delle palpebre, conferendo al suo sguardo una strana inquietudine. Le labbra carnose, secche e pallide, mormorano piano, lentamente, una stessa parola di preghiera.
Una seconda bambina piange. Sembra piú vicina dell’altra, forse dietro la porta.
La donna ritrae la mano dal petto dell’uomo. Si alza e lascia la stanza. La sua assenza non cambia nulla. L’uomo non si muove. Continua a respirare in silenzio, lentamente.
Il rumore dei passi della donna fa tacere le due bambine. Lei rimane a lungo accanto a loro, finché la casa, il mondo non si tramutano nel loro sonno in ombre; poi torna. In una mano una boccetta bianca, nell’altra il rosario nero. Si siede accanto all’uomo, apre la boccetta, si china per instillargli due gocce di collirio nell’occhio destro, due gocce nell’occhio sinistro. Senza lasciare il rosario. Senza smettere di sgranarlo.
I raggi del sole passano attraverso i buchi del cielo giallo e azzurro della tenda, sfiorano la schiena della donna, le sue spalle che continuano a oscillare regolarmente, allo stesso ritmo dei grani del rosario che le scorrono fra le dita.
Lontano, in un punto della città, lo scoppio di una bomba. Violenta, forse distrugge qualche casa, qualche sogno. Rispondono. Le risposte squarciano il silenzio pesante di mezzogiorno, fanno vibrare i vetri, ma non svegliano le bambine. Per un istante – solo due grani del rosario – immobilizzano le spalle della donna. Infila in tasca la boccetta di collirio. «al-Qahhar», mormora. «al-Qahhar», ripete. Lo ripete a ogni respiro dell’uomo. E a ogni parola fa scorrere fra le dita un grano del rosario.
Finisce un giro di rosario. Novantanove grani. Novantanove volte «al-Qahhar».
Si alza per riprendere posto sul materasso, contro la testa dell’uomo, e gli rimette la mano destra sul petto. Ricomincia un giro di rosario.
Quando arriva di nuovo al novantanovesimo «al-Qahhar», la sua mano lascia il petto dell’uomo e si sposta verso il collo. Dapprima le dita si perdono nella barba ispida, vi rimangono per un respiro o due. Poi ricompaiono per allungarsi sulle labbra, accarezzare il naso, gli occhi, la fronte, e infine sparire ancora tra i folti capelli sudici. «La senti la mia mano?» Con il corpo piegato, chino su di lui, lo fissa negli occhi. Nessun segno. Tende l’orecchio verso le sue labbra. Nessun suono. Ha sempre quell’aria smarrita: bocca socchiusa, sguardo perso fra le travi scure del soffitto.
Lei si abbassa ancora per bisbigliare: «In nome di Allah, fammi un cenno per dirmi che senti la mia mano, che vivi, che torni da me, da noi! Solo un segno, un piccolo segno per darmi forza, per darmi fiducia». Le labbra le tremano. Implorano: «Solo una parola…», scivolano e sfiorano l’orecchio dell’uomo. «Spero almeno che tu mi senta». La sua testa si posa sul cuscino.
«Mi avevano detto che dopo due settimane avresti potuto muoverti, fare qualche cenno… Ma siamo ormai alla terza settimana… o quasi. Ancora niente!» Il suo corpo si gira per mettersi sulla schiena. Il suo sguardo si perde dove si è perso quello dell’uomo, in un punto fra le travi nere e marce.
«al-Qahhar, al-Qahhar, al-Qahhar…»
Lentamente la donna si tira su. Fissa disperatamente l’uomo. Gli posa di nuovo la mano sul petto. «Se riesci a respirare, allora puoi trattenere il fiato, no? Trattienilo!» Scostandosi i capelli dietro la nuca, insiste: «Trattienilo almeno una volta!», e tende di nuovo l’orecchio verso la sua bocca. Lo ascolta. Lo sente. Lui respira.
Smarrita, mormora: «Non ne posso piú».
Dopo un sospiro esasperato, improvvisamente si alza e ripete ad alta voce: «Non ne posso piú…» Sfinita. «Dal mattino alla sera, recitare ininterrottamente i nomi di Dio, non ne posso piú!» Fa qualche passo verso la fotografia, non la guarda, «sono ormai sedici giorni…», esita, «no…», e conta incerta con le dita.
Confusa, si volta, torna al suo posto per gettare un’occhiata alla pagina aperta del Corano. Controlla. «Sedici giorni… oggi devo ripetere il sedicesimo nome di Dio. al-Qahhar, il Dominatore. Ecco, infatti, il sedicesimo nome…» Pensosa. «Sedici giorni!» Indietreggia. «Sedici giorni che vivo al ritmo del tuo respiro». Aggressiva. «Sedici giorni che respiro con te». Fissa l’uomo. «Guarda, respiro come te!» Fa una profonda inspirazione, poi espira, dolorosamente. Allo stesso ritmo di lui. «Anche se non ho la mano sul tuo petto, ora posso respirare come te». Si china su di lui. «E anche se non ti sono accanto, respiro al tuo stesso ritmo». Si scosta da lui. «Mi senti?» Grida: «al-Qahhar», e riprende a sgranare il rosario. Sempre con gli stessi intervalli. Esce dalla stanza. La si ode: «al-Qahhar, al-Qahhar…», nel corridoio e altrove…
«al-Qahhar…», si allontana.
«al-Qahhar…», si affievolisce.
«al…», impercettibile.
Svanisce.
Trascorrono alcuni istanti di silenzio. Poi contro la finestra, nel corridoio, dietro la porta torna a riecheggiare «al-Qahhar». La donna entra nella stanza e si ferma vicino all’uomo. In piedi. La mano sinistra continua a sgranare il rosario nero. «Posso perfino dirti che in mia assenza hai respirato trentatre volte». Si accovaccia. «E anche adesso, in questo momento, mentre ti parlo, posso contare i tuoi respiri». Solleva il rosario per tenerlo nell’incerto campo visivo dell’uomo. «Ecco, da quando sono arrivata hai respirato sette volte». Si siede sul kilim e continua: «Non divido piú le mie giornate in ore, e le ore in minuti, e i minuti in secondi… una giornata per me equivale a novantanove giri di rosario!» Il suo sguardo si ferma sul vecchio orologio consunto che stringe il polso scheletrico dell’uomo. «Posso perfino dirti che restano cinque giri di rosario prima che il mullah intoni il richiamo alla preghiera di mezzogiorno e predichi gli Hadith». Una pausa. Lei calcola. «Al ventesimo giro, il portatore d’acqua busserà alla porta dei vicini. Come sempre, la vecchia vicina dalla tosse rauca uscirà per aprirgli la porta. Al trentesimo, un ragazzo attraverserà la strada sulla sua bicicletta fischiettando il motivo di “Laili, Laili, Laili jan, jan, jan, mi hai spezzato il cuore…” per la figlia del nostro vicino…» Ride. Una risata triste. «E quando arriverò al settantaduesimo, quel cretino di mullah verrà a farti visita e come sempre avrà qualcosa da rimproverarmi, dirà che non ti ho accudito bene, che non ho seguito le sue istruzioni, che ho trascurato le preghiere… Altrimenti saresti guarito!» Passa la mano sul braccio dell’uomo. «Ma tu puoi testimoniarlo. Tu sai che vivo solo per te, accanto a te, con il tuo respiro!» Protesta: «È facile dire che bisogna recitare novantanove volte al giorno uno dei novantanove nomi di Dio… E farlo per novantanove giorni! Ma quel cretino di mullah non sa cosa voglia dire essere sola con un uomo che…», non trova la parola, o non osa dirla, «… essere sola con due bambine piccole!», borbotta tra sé.
page_no="11" Un lungo silenzio. Quasi cinque giri di rosario. Cinque giri di rosario durante i quali la donna rimane incollata alla parete, gli occhi chiusi. Il richiamo alla preghiera di mezzogiorno la strappa dal suo torpore. Prende il tappeto, lo srotola e lo stende per terra. Inizia la preghiera.
Finita la preghiera, rimane seduta sul tappeto, per ascoltare il mullah che predica gli Hadith sul giorno della settimana: «… e oggi è un giorno di sangue, perché proprio durante un martedí Eva ha perso per la prima volta sangue impuro, uno dei figli di Adamo ha ucciso il fratello, e hanno ucciso Gregorio, Zaccaria e Giovanni Battista – che la pace sia con loro –, nonché gli stregoni di Faraone, Assia bint Muzahim, la moglie di Faraone, e la giovenca dei figli di Israele…»
Si guarda lentamente intorno. La stanza. Il suo uomo. Quel corpo nel vuoto. Quel corpo vuoto.
L’inquietudine pervade il suo sguardo. Si alza, arrotola il tappeto, lo rimette a posto, nell’angolo della camera, e se ne va.
Qualche istante dopo, torna a controllare il livello di liquido nella sacca della flebo. Ne resta poco. Fissa lo sguardo sul contagocce, osserva gli intervalli tra le gocce. Sono brevi, piú brevi di quelli che scandiscono il respiro dell’uomo. Regola il flusso, aspetta due gocce, poi si ritira con aria decisa: «Vado in farmacia a prendere la soluzione fisiologica». Ma prima che lei varchi la porta le sue gambe esitano, la sua voce esala un lamento: «Spero che siano riusciti a procurarsene…» Lascia la stanza. La si ode svegliare le bambine, «venite, usciamo», e andarsene, seguita dai piccoli passi che corrono nel corridoio, nel cortile…
Dopo tre giri di rosario, duecentonovantasette respiri, sono di ritorno.
La donna porta le bambine nella stanza accanto. «Mamma, ho fame», piange una delle due. «Perché non hai comprato le banane?!», si lamenta l’altra. «Vi darò del pane», le consola la madre.
Quando il sole ritrae i suoi raggi dai buchi del cielo giallo e azzurro della tenda, la donna riappare sulla soglia della camera. Rivolge un lungo sguardo all’uomo, poi gli si avvicina, gli controlla il respiro. Respira. La sacca della flebo sta finendo. «La farmacia era chiusa», dice, e aspetta con aria rassegnata, come se potessero giungere altre istruzioni. Niente. Nient’altro che respiri. Se ne va e torna con un bicchiere d’acqua. «Dobbiamo fare come l’ultima volta, acqua con zucchero e sale…»
Con un gesto veloce e preciso gli toglie la flebo dal braccio. Leva l’ago. Pulisce il tubicino, glielo infila nella bocca socchiusa e lo spinge finché non raggiunge il tubo digerente. Poi versa il contenuto del bicchiere nella sacca della flebo. Regola le gocce, ne controlla l’intervallo. A ogni respiro, una goccia.
E se ne va.
page_no="13" Dopo una decina di gocce, torna. Con il burka in mano. «Devo andare da mia zia». Aspetta ancora… forse l’autorizzazione. Ha lo sguardo perso. «Sono impazzita!» Nervosamente, si volta ed esce dalla stanza. Dietro la porta, nel corridoio, la sua voce, «non me ne frega niente…», va e viene, «di quello che pensi di lei…», va, «… io le voglio bene», e viene, «mi resta solo lei… le mie sorelle mi hanno abbandonata, e anche i tuoi fratelli…», va, «… che io la veda», e viene, «bisogna…», va, «… ti manda a quel paese… e io pure!» La si ode uscire con le due bambine.
La loro assenza dura tremilanovecentosessanta respiri dell’uomo. Tremilanovecentosessanta respiri durante i quali accadono solo le cose che la donna ha previsto: il portatore d’acqua bussa alla porta del vicino. Una donna con la tosse rauca gli apre la porta… Qualche re-spiro piú tardi un ragazzo attraversa la strada in bicicletta fischiettando il motivo di «Laili, Laili, Laili jan, jan, jan, mi hai spezzato il cuore…»
E infine tornano, lei e le due bambine. Le lascia nel corridoio. Con un gesto deciso, apre la porta. Il suo uomo è sempre lí. Stessa posizione. Stesso ritmo di respiro. Lei è pallidissima. Piú ancora di lui. Si appoggia alla parete. Dopo un lungo silenzio, dice con un gemito: «Mia zia… se n’è andata di casa… è sparita!» Addossata alla parete, si lascia scivolare per terra. «Se n’è an-data… dove? Nessuno lo sa… non ho piú nessuno… nessuno!» Le trema la voce. Ha un groppo in gola. Le scendono le lacrime. «Non sa quello che mi è successo… lo ignorava! Altrimenti mi avrebbe lasciato un messaggio, sarebbe corsa in mio aiuto… lei ti detesta, certo, ma a me vuole bene… vuole bene alle bambine… invece a te…» I singhiozzi le impediscono di parlare. Si scosta dalla parete, chiude gli occhi, respira profondamente per dire una parola. Non ci riesce. La parola dev’essere pesante, carica di senso, tanto da toglierle la voce. Allora la tiene dentro di sé, e cerca qualcos’altro di leggero, di dolce, di facile da pronunciare: «E tu lo sapevi che avevi una moglie e due figlie». Si percuote il ventre. Una volta. Due volte. Come per espellere quella parola pesante che ha sepolta nelle viscere. Si accovaccia e grida: «Hai mai pensato per un istante a noi mentre imbracciavi il tuo kalashnikov del cazzo? Figlio di…», e ancora reprime la parola.
Per un attimo rimane inerte. Le si chiudono gli occhi. La testa si abbassa. Emette un gemito, dolorosamente. Lungamente. Le spalle continuano a muoversi al ritmo del respiro. Sette respiri.
Sette respiri, e rialza la testa, si asciuga gli occhi con la manica dai motivi di spighe e fiori di grano. Dopo un lungo sguardo si avvicina all’uomo, si china verso il suo viso e chiede «scusa», accarezzandogli il braccio. «Sono stanca. Sono allo stremo delle forze, – mormora. – Non lasciarmi sola, non...