Leucosia
1.
La sveglia non ha suonato, eppure Lena ha già aperto gli occhi. La mano di Matteo è ancora abbandonata sul suo seno, dove lui l’ha lasciata ieri notte. Non è che abbiano fatto granché, non è che Matteo ce la faccia a fare tutto quello che vorrebbe: l’ha cercata, le ha infilato un dito tra le gambe, le ha baciato la fronte e la bocca, ha poggiato la mano leggera lÃ, sul seno, ha cominciato a muovere il dito. Ma lei non se la sentiva; aveva paura che si affaticasse. – Domani dobbiamo partire, – gli ha detto. Ma lui si è incaponito e non c’è stato piú niente da fare.
Talvolta Matteo la cerca ancora e la tocca, adesso lo fa con un trasporto addirittura maggiore. Come se il fatto di non doversi preoccupare piú di sé lo rendesse attento e scrupoloso, quasi pignolo. Il piacere di Lena è il solo di cui può godere, ma ha scoperto che può bastargli, anche se all’inizio è stato frustrante. Adesso ha imparato come fare, cosà come con tutto il resto.
Lena non ha ancora imparato, invece. Non lo ha fatto perché non le piace: è una forma animale di intimità , è egoismo puro; a volte gli dice: – Sarebbe piú giusto che io mi rassegnassi, che sia io ad adattarmi a te e non tu a me: questo sarebbe piú giusto.
page_no="5" – Tu di giusto e di non giusto non ci capisci proprio niente, – le risponde lui sorridendo, e lei è costretta ad arrendersi, a non insistere troppo per paura di ferirlo o mortificarlo. Cosà si dà , si presta alle sue deboli necessità voluttuose.
Dopo, ogni volta, le sembra di essere un po’ piú felice, ma si tratta di una felicità materna, simile a quella che prova quando accontenta suo figlio, quando riesce a dirgli di sà dopo una richiesta difficile. «Mamma posso andare ad Amsterdam in tenda, coi miei amici?» «Mamma c’è una festa in spiaggia stanotte, torno domani mattina». «Mamma vado a buttarmi giú da un ponte appeso a un elastico».
SÃ, sÃ. SÃ.
Guarda Matteo che dorme al suo fianco, il viso immobile, chiedendosi se parte di quella felicità sia rimasta anche a lui. Gli sposta la mano, la sistema accanto al suo corpo, aspetta.
L’avevano invitata per telefono dicendole che sarebbe stato bello, soprattutto rilassante; lei non doveva fare altro che mettersi in macchina. Pensò che le avevano telefonato, invece di avvisarla con un invito formale, per trasmetterle una volontà piú precisa: Lena doveva esserci. Ma supponeva che lo avessero fatto anche per apparire piú gentili, per toglierla dall’imbarazzo di dover spiegare i motivi della sua probabile assenza.
Infatti non era riuscita a sottrarsi in nessun modo. Era stato Dante a telefonare e a dirle con entusiasmo: – Finalmente possiamo inaugurare la stazione faunistica, c’hanno dato tutti i permessi e, sorpresa sorpresa, sono stati accreditati anche i fondi del parco. Abbiamo fissato l’inaugurazione per venerdà prossimo: ci saranno una cinquantina di persone tra amici, studenti, curiosi e autorità varie. Daniela prepara la pasta e fagioli. I ragazzi altre cose. Tu ce la fai a fare una parmigiana?
L’avevano costretta anche a preparare una parmigiana di melanzane (lei però l’avrebbe fatta di zucchine, che è piú leggera) per farla sentire partecipe e, soprattutto, per tenerla legata all’evento. Chi porta il cibo non può mancare.
– Non lo so Dante, – aveva risposto lei, – non posso assentarmi per tanto tempo, in un posto cosà lontano.
– Ma porti pure Matteo, è ovvio, – aveva detto lui, in un tono che avrebbe voluto essere meno patetico, ma che era patetico. – Venite insieme, cosà lui si distrae e tu non hai il problema –. E senza tanti giri di parole aveva aggiunto che anche lui, la sua famiglia e altri collaboratori del professore avevano prenotato diverse stanze al Bed and Breakfast aperto da poco proprio a Punta Licosa. Sul mare, in mezzo ai limoneti. Le stanze dipinte di azzurro, con le tendine di bambú. – Abbiamo prenotato pure per te e Matteo. Per ogni necessità ci siamo noi, non ti devi preoccupare di niente.
Il «niente» di cui Dante parlava era un concetto che non le apparteneva piú. Lena aveva capito che non tutti sono disposti a mettersi nei panni degli altri, specie in presenza di eventi straordinari che costringono a una presa di coscienza precisa e irreversibile, cioè che non si vive per sempre. E parlare con queste persone, anzi, parlare con tutto il resto del mondo, era diventato non solo inutile ma frustrante. Disse: – Non lo so, ci devo pensare. Lo devo dire a Matteo.
In cuor suo aveva deciso di non andarci; eppure, in un modo che le seccava assai, si era sentita in trappola: di nuovo coinvolta in quelle stupidaggini istituzionali e lavorative di cui aveva deciso di non interessarsi piú da mesi.
La sveglia suonerà tra un’ora, sono le sei. Fuori la luce sta cambiando, comincia a imbiondirsi, almeno non pioverà . La casa è silenziosa, Andrea dorme e anche Matteo affianco a lei. Il ronzare del frigorifero la rassicura, cosà come quello delle poche macchine che sente passare per strada. Le danno la sensazione che qualcuno si muova, è sveglio, si dà da fare. Non è la sola a dover prendere decisioni, a dover portare la vita sulle spalle. Fuori, però. Ma in quella casa è lei.
Allunga un braccio senza voltarsi e lo sente, caldo, magro, rigido. Si volta. Lo guarda. Il profilo è ancora un bel profilo, con il naso piccolo, le labbra non troppo carnose, appena sporgenti in punta. La testa è rotonda, completamente liscia. E gli occhi senza le sopracciglia sono ancora piú profondi, due grosse pietre di corniola che emanano sul viso una prepotenza che gli è nuova.
Ha le mani appoggiate ai lati del busto. Una volta Lena, durante il sonno, provò a intrecciargliele con cura sopra la pancia, le gambe unite, per fare una prova. Ne rimase sbalordita, ma l’averlo fatto la rassicurò. Vederlo con le mani là sopra, steso a occhi chiusi, quieto. Le diede una specie di pace, simile a un conforto.
page_no="8" Ma adesso non lo fa, le pare di malaugurio.
È stata tutta la notte a pensare a cosa può andare storto. Tutto potrebbe andare storto: potrebbe inciampare in uno scalino, potrebbe esserci troppo vento, potrebbe avere una crisi. Saranno due giorni terribili, non vede l’ora che siano già passati.
Si siede sul letto, si sostiene con le mani alla spalliera di ottone: se dipendesse da lei rimarrebbero lÃ, a casa sua, nell’unico luogo che le pare tranquillo e sicuro. Il mondo di fuori non è piú un posto per lei perché non lo è piú per Matteo. Le viene voglia di preparare una pizza di scarole, di comprare un mazzo di margherite, di noleggiare un dvd, magari uno con Jeanne Moreau che a lui piace tanto. Lo guarderebbero distesi sul divano con un plaid sulle gambe anche se non fa freddo, ma l’idea la rassicura: starsene distesi sotto una coperta comoda. Lei gli massaggerebbe la schiena indolenzita. Lui gemerebbe di dolore. Lei gli sistemerebbe un cuscino sotto i talloni. Lui sorriderebbe per ringraziare. Lei gli preparerebbe la sua tisana rilassante alla calendula, gli porterebbe le pillole nel solito piattino di ceramica.
Sbuffa, si alza, va in bagno; poi lentamente raggiunge la cucina dove recupera il thermos per il tè. Il giorno prima ha cucinato una frittata di maccheroni per il viaggio, qualche panino al prosciutto cotto per Matteo. E la parmigiana di zucchine sta già incellofanata in una pirofila, in un’altra busta. Tutto in ordine sistemato sul tavolo. La borsa di Matteo è pronta, ingombrante e grossa come se dovessero partire per un mese. Ma Matteo ha necessità ingombranti. I flaconi di medicinali, i ricambi, i pacchi di pannoloni, le buste con i cateteri, le creme, l’Amuchina, le calze elastiche, i due pigiami di cotone (uno piú caldo con le maniche lunghe e uno piú fresco, non si sa mai). Gli porta anche il Satyricon che gli piace leggere quando non ha mal di testa.
Fuori la luce si è ingiallita del tutto, le mette fretta come una mano che spinge; Lena prepara il tè, il caffè, un po’ di latte per il risveglio di Matteo. Vorrà anche il pane tostato con la confettura di arance? Probabilmente sÃ, ma stamattina è meglio di no, dato che debbono mettersi in viaggio e non è il caso di appesantirlo troppo.
– Mamma, che stai facendo?
Lena si volta di scatto, spaventata. Guarda Andrea in pigiama, a piedi scalzi, fissarla mezzo stordito dal sonno. Come lei, anche lui ha imparato a svegliarsi a ogni minimo rumore. Lena sorride. – Sto preparando qualcosa prima di partire.
– Ma sono appena le sei.
– Mi sono svegliata presto, cosà guadagno tempo, – ridacchia nervosa, avrebbe voluto rimanere sola.
Andrea si siede e appoggia la testa sul tavolo, sbadigliando. – Sei sicura che non vuoi che vi accompagni?
– Potresti fermarti là con noi, – dice Lena, anche se di questo hanno già parlato. Andrea si appoggia con le spalle alla sedia incrociando le braccia. – Te l’ho detto mamma: devo studiare. Come faccio? Ho l’esame lunedÃ.
– SÃ, sÃ. Me l’hai detto, è che tuo padre sta piú tranquillo con te.
– Sei tu che stai piú tranquilla se ci sono io –. Andrea va a sorseggiare del latte dal tetrapak e poi si mette a guardare il cielo, incorniciato da un pezzetto di veranda. Alcuni passeri già cinguettano, qua e là si sentono grida di gabbiani e di colombi affamati, frotte di storni si ammucchiano in cielo.
Lena si aggiusta i capelli dietro le orecchie, stringe la vestaglia ben in vita. Non ha voglia di dire niente. Assaggia il tè: è pronto. Getta via le bustine, travasa tutto nel thermos, ci spreme un limone attenta che non caschino i semini, e in quel momento le viene in mente di portare i biscotti alle fibre, ne tiene sempre qualche pacco di scorta. Si accovaccia accanto alla credenza per prenderne uno e si accorge della peluria ispida lungo i polpacci. Non ha avuto né il tempo né la voglia di depilarsi e spera che a nessuno venga in mente di fare il bagno.
Lena chiede: – Che esame hai detto che è? Scusa ma in questi giorni sono un po’ distratta.
– Zoologia.
– Ti serve una mano? Vuoi qualche libro?
Andrea fa spallucce. Sorride con quel suo sorriso impercettibile ma deciso, che la tranquillizza spesso. – Magari! Sono un po’ confuso sui livelli di organizzazione triblastici… mi sono seguito pure tutto il corso. Solo che certi professori mica hanno la pazienza che hai tu a spiegarmi le cose –. Le va vicino, le poggia un bacio sui capelli. Andrea, adesso, è piú alto di lei, robusto con le spalle larghe, e questa piccola differenza fisica è come se cambiasse tutto quanto, come se i suoi atteggiamenti si rinnovassero automaticamente in un’affettività paterna. Gli sfiora i capelli, che sono lunghi e color miele, identici ai capelli che aveva suo padre. – Comunque sono contento che andate, – continua lui. – Papà ha bisogno di partire.
Lena non risponde, non gli dice che non ne è proprio sicura, che, anzi, questa capatina improvvisa nel mondo dopo mesi e mesi di clausura le appare una cattiveria. Una specie di falsa promessa che toccherà a lei non mantenere.
In quel momento suona la sveglia; Lena corre a riscaldare il latte per Matteo; sistema la sua tazza azzurra, la tovaglietta di plastica, il bicchiere d’acqua con le pillole del mattino, quella rossa e quella bianca, sul piccolo vassoio di legno con rose laccate.
Da una decina di minuti Matteo sta interpretando squittii, ringhi, latrati, nella speranza che lei indovini quale animale ha deciso di essere. È un gioco vecchio che Lena comincia a non sopportare piú.
Andrea è sempre stato un campione: negli anni ha sviluppato una capacità sorprendente di imitazione animale. Cresciuto con la passione per la natura, assimilata soprattutto dai genitori, dagli ambienti che loro frequentavano, dai libri e dai viaggi, ha imparato ad ascoltare i versi e a riprodurli con precisione. Anche Matteo ha sempre avuto questa fissazione pur non possedendo la naturalezza e la spontaneità di Andrea. La vera schiappa è lei, che non solo non riesce a imitare i versi, ma non si sforza nemmeno di scovare animali rari, o difficili; si limita al cavallo, al cane, al gatto oppure attinge a qualche strana creatura del repertorio fantastico (è una regola che ha introdotto Andrea verso i sette anni, quella di usare anche animali non esistenti), come il drago o il dinosauro. I suoi preferiti comunque sono i versi degli uccelli, con i quali può sbizzarrirsi: suo figlio e suo marito non possono conoscerne piú di lei.
Lasciano la città alle spalle mentre Matteo ulula.
Non è un ululato normale, non è un lupo. Ma a Lena non interessa: sta guardando il cielo, sperando che il sole si mantenga come adesso, lucente e pulito, e dallo specchietto retrovisore vede via Caracciolo, dove alcune coppiette portano a spasso cani pelosi o figli indiavolati. C’è un uomo che vende palloncini accanto al mare, che questa mattina è piatto come una distesa di neve, senza increspature né movimenti.
Lena si chiede se il mare a Licosa sarà cosà fermo, ma anche questo non le interessa granché, anzi vorrebbe già tornare indietro, per lei il mare può pure scomparire.
– Ti decidi? – Matteo le spinge un gomito e poi ricomincia quel suo ululato cupo. – Ti aiuto: non sono estinto ma non esisto.
Lena sbuffa. Vorrebbe che Matteo non si affaticasse troppo. – Non lo so, te l’ho detto.
– Ma non ci provi nemmeno! Sforzati. Ascoltami.
Stamattina Matteo è rilassato. Lena lo osserva di sottecchi e le sembra che sia quasi contento, il viso disteso, le mani che giocano con un tovagliolino di carta; ogni tanto mangiucchia un biscotto alle fibre. Lena gli ha messo una polo di flanella a maniche lunghe color zucca e un paio di pantaloni blu. Non è il vestito ideale per una cerimonia di inaugurazione ma Matteo non ha voluto indossare niente di troppo elegante, nemmeno ne voleva sentire di giacche o di cravatte. Le ha detto che sarebbe stato ridicolo: – Nessuno vuole vedere un uomo incravattato che non sa piú camminare. Profumato. Incremato. Che però assomiglia a Quasimodo: è orrendo.
Lena, invece, indossa un completo di lino color champagne, pantaloni larghi e casacca sblusata; una collana di perle di fiume giusto per darsi un tocco di eleganza in piú. È un vestito comodo e fresco, l’unico che riesce a coprirle il sedere e la pancia, cosà soda e turgida che da qualche anno non riesce proprio piú a far scomparire.
– Forse è il caso che non esageri con quei biscotti, – gli dice.
Matteo ne ingoia un altro pezzetto e poi si rimette a ululare, sputacchiando briciole qua e là .
Lena imbocca l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, alza un finestrino per non far arrivare troppa aria. Si accorge che il cielo, verso sud, è piú scuro, con tante nuvole nerastre addossate simili a cunette.
– Mannaggia, – sussurra quasi a se stessa, – se si mette a piovere torniamo indietro.
– Come, torniamo indietro? E l’inaugurazione?
Lena fa un gesto di stizza con la testa. – Ce la perdiamo. Mica è la fine del mondo.
– SÃ, un po’ sÃ. Ti sei persa un mucchio di cose all’università : il convegno ornitologico a Pechino, gli esami da associato, le uscite in campo... La morte del professore vi ha aperto un sacco di strade e tu ne sei rimasta fuori: per colpa di tutte queste sciocchezze resterai un tecnico a vita.
Matteo mangiucchia. Lena lo guarda, soltanto un po’ sennò perde di vista la strada, ma vuole proprio guardarlo: vuole vedere la faccia scarna e screpolata di suo marito mentre le sbatte addosso quel suo improvviso sfogo di ingratitudine. Lo sa che lo dice perché si sente in colpa, immagina che ne abbia molti di sensi di colpa: alla fine lei rimarrà soltanto un tecnico a vita perché è lui che si è ammalato. È lui la colpa di tutto, non lei.
Ma non lo dice, non vuole nemmeno dirlo, in fondo è soltanto un pensiero che registra un fatto, non un’accusa. Lena rifarebbe tutto quanto daccapo, senza cambiare una virgola. I giorni passati su una sedia a sdraio in ospedale, i viaggi a cercare qualcuno che li aiutasse, le rinunce; le notti passate a tenergli la testa, a pulirgli il sedere, a vedergli cadere i capelli e poi i peli sul petto; la sua vita, che all’improvviso è diventata soltanto di Matteo, tutta per intero, fino all’ultimo pezzettino. Non quando si sono sposati, né quando hanno avuto un figlio. Ma soltanto ora. Prima era una prova.
Però una cosa gliela dice: – Sono cretinate. L’inaugurazione, tutta quella gente di rappresentanza, la stazione faunistica che, tanto, non userà nessuno. Sono stupidaggini.
– È il tuo lavoro, Lena. Prima ti piaceva. Un lavoro che piace non mi pare una cretinata: se queste sono stupidaggini, che rimane?
Matteo appoggia la testa al finestrino. Ultimamente adora fare un po’ il saggio, anche se le cose che dice le pensa davvero. Non riuscirebbe a dirne altre, è sempre stato cosÃ. Solo che adesso prova un certo compiacimento a sentenziare, quasi che si sentisse al di sopra di tutto come un dio invalido.
– È vero che mi piaceva, ma mi sono accorta che sono cretinate.
page_no="15" – Vuoi dire cretinate in confronto a me?
– SÃ.
– Ci fermiamo un attimo?
– Che hai? Stai male?
C’è una pompa di benzina a un centinaio di metri e Lena comincia a rallentare. Adesso fa molto caldo, con la coda dell’occhio si accorge delle macchie umide che cominciano a spandersi sul lino sotto le ascelle.
– Sto bene. Voglio solo uscire da qui.
Lena accosta proprio accanto all’entrata del bar. Non fa in tempo a sganciare la cintura di sicurezza che Matteo apre la portiera e si attrezza per uscire con i bastoni. – Aspetta, ti aiuto, – ma basta un suo sguardo a dirle di no, che può fare da solo, gli serve soltanto un po’ di tempo. Prima uno, poi l’altro, appoggia i bastoni sulla strada; di acciaio, immobili, con i tre piedi saldi sul cemento, pare che lo aspettino come cani fedeli. Con le mani Matteo si aiuta a issare la gamba destra, la...