Elisabeth
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Elisabeth

  1. 250 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Elisabeth

Informazioni su questo libro

Elisabeth Fritzl è stata segregata dal padre per ventiquattro anni fra le pareti di un bunker antiatomico costruito sotto casa. Ha avuto sette figli. È stata dimenticata dal mondo, eppure sarebbe bastato aprire la porta della cantina. Accadono fatti che lasciano segni profondi nella storia dell'umanità, ferite che non guariscono mai. Alcuni coinvolgono migliaia di persone, in altri le vittime sono così poche da poter essere rinchiuse in una stanza. Un romanzo nero, ipnotico, capace di trasformare un caso di cronaca in un mito senza tempo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
Print ISBN
9788806205911
eBook ISBN
9788858404607

Capitolo secondo

La corda

FIN DENTRO L’OCCHIO DI DIO
Venne svegliato da Rosemarie in preda al panico. Si era lanciata sul letto e lo scuoteva:
– Svegliati! È scappata tua figlia!
Spalancò gli occhi di soprassalto. Per un attimo pensò fosse fuggita dal bunker. Fece per alzarsi, poi realizzò. Si ridistese sul letto cadendo di peso con la testa sul cuscino.
– Stai tranquilla, sarà fuori in giardino.
– No, non è nemmeno in strada… Ho chiamato gli Adelmann ma non l’hanno vista, e Rosvita è sempre stata in casa. Fai qualcosa santo Dio, alzati!
– Se non la pianti ti rovino! – ringhiò. – Non si trova lontano…
– Ah sí, e chi te lo dice?
– Lo so e basta.
Si sedette sul letto coi piedi ciondoloni, i pugni sul materasso. Guardò fissamente le pantofole. Pensò che non ne poteva piú di starsene a casa. Il lavoro gli mancava, e cosí i colleghi di una volta.
La moglie continuò:
– Ma insomma si può sapere che ti prende? Lo capisci che se è scappata stavolta non la rivediamo piú? Fai qualcosa, chiama il tenente…
Si voltò verso la moglie serrando la mascella. Lei capí subito. La prese a pugni alla rinfusa, sull’addome, ai fianchi, finché si tirò fuori dal letto e bestemmiando si sfilò la giacca del pigiama.
I suoi piedi forti: l’ossatura perfetta avrebbe potuto reggere sull’arco il peso di tre uomini senza problemi. Le gambe robuste di chi aveva fatto bene ogni cosa nella vita: il servizio di leva, le mansioni di elettrotecnico, le competizioni sportive; il calcio, il tennis, l’atletica, lo sci di fondo, il sesso. Come massa rocciosa salivano i fianchi, ispessiti dall’età che sfiorava i cinquanta. L’addome rotondo, i peli che avvolgevano le cosce fin sul principio della schiena, le braccia corte di bipede compatto. Appena un metro e settanta di statura, aveva usato la sua altezza per stabilire quella delle pareti del bunker.
Adesso faceva la doccia e cantava. Una bestia ammaestrata che mantiene l’occhio selvatico.
Rosemarie si raccolse con fatica. Si trascinò in cucina per sottrarsi alla vista del marito: se l’avesse trovata in quelle condizioni, coi lividi addosso e il labbro spaccato, si sarebbe imbestialito ancora peggio. Pareva fosse lei a ridursi da sola in quello stato ogni volta, e lui fosse il marito premuroso che non sapendo cosa fare con quella moglie maldestra finiva col prendersela con lei e la sua disattenzione.
Tamponò il sangue con un canovaccio, tenendo insieme gli intestini che i pugni avevano messo in subbuglio. Mise in tavola la colazione che aveva preparato prima di accorgersi dell’assenza di Elisabeth, alla quale adesso pensò con felicità. Ovunque si trovasse, almeno era lontana da lui.
Di là Josef si vestí di buon umore. Infilò la camicia nei calzoni cambiando idea: non essere piú costretto a lavorare lo entusiasmava. Non gli era mai stato indispensabile avere un impiego per tenersi sveglio. La sua era un’intelligenza vivace, affilata come un’arma con la quale lui stesso si feriva non poche volte. Un’intelligenza meccanica, che faceva del suo cervello una specie di cubo di Rubik: complesso ai principianti ma fin troppo semplice una volta trovata la chiave della soluzione.
La mente di Josef Fritzl aveva ingaggiato col corpo una scommessa impossibile: voleva risalire tutte le età dell’uomo fino al luogo in cui lo scorrere del tempo rallenta e da dove, ammesso che si sopravviva, si assiste alla nascita di ogni cosa. Accanto alla figlia avrebbe contemplato l’origine delle galassie e di ogni pulsante battito di vita, e piú in là ancora si sarebbe spinto, fino a dentro l’occhio di Dio – e come avrebbe potuto impedirlo proprio Lui, che gli occhi non li chiude mai?
IL NODO
Passò quella giornata e poi anche la successiva, sul finire della quale Rosemarie chiese al marito il permesso di chiamare il tenente Meier. Lo fece tenendo gli occhi bassi, uscendosene nel modo piú pacato possibile. Josef le si sarebbe volentieri rivoltato contro, ma il fatto che la donna avesse fatto silenzio per quasi due giorni lo fece esitare. Si rese conto che presto o tardi la gendarmeria andava pur chiamata.
Si alzò dal cantuccio che si era preparato dinanzi al fuoco e scocciato si attaccò al telefono. Rosemarie tenne per sé la contentezza e cominciò a fantasticare di convertire la festa per il compleanno di Elisabeth in quella per il suo ritorno.
Quando Josef ebbe finito di informare il tenente della seconda fuga di Elisabeth, la brace spezzò l’ultimo ciocco di legna.
– Scendo a lavorare un po’. Cerca di non disturbarmi.
Lei non rispose veramente. Con le labbra disse «va bene». Piegò la testa sul ricamo che prese dalla cesta. La natura morta raffigurata sulla tela le suggerí una solitudine alla quale si abbandonò come a un filo di ricordi.
Ben piú spessa era la corda che Josef tirò giú da un grosso armadio. Soffiò via la polvere e la liberò dalla confezione che la teneva avvolta.
L’aveva acquistata presso un negozio di forniture per imbarcazioni e adesso, vedendola in tutto il suo splendore, pensò che erano stati soldi spesi bene. In piú era riuscito a farsi regalare una bella lattina di grasso col quale avrebbe accuratamente unto ogni fibra per evitare che presto o tardi la corda si logorasse. Non aveva invece trovato in nessun negozio uno di quei grandi anelli d’acciaio che s’installano nella pavimentazione dei moli o dei pontili. Dovette rimediare da sé, contrattando il prezzo con un ragazzetto che aveva abbordato sul lago di Costanza e che aveva ingaggiato perché ne smontasse uno dalla banchina del club di vela per il quale lavorava. Contento di possederlo, finalmente lo aveva murato al centro della parete dell’ultima stanza del bunker, in mezzo ai due lettini che aveva disposto ai lati.
La corda era lunga sedici metri e dovette ridurla a nove. Sarebbero stati piú che sufficienti per raggiungere il water e impedirle di avvicinarsi alla porta d’entrata. Elisabeth era furba, pensava, e non si poteva mai dire.
Con forza sollevò la corda e vi infilò dentro il braccio cosí da portarla in spalla. La lasciò cadere davanti alla libreria che nascondeva l’entrata e dal fondo della ghiacciaia, disposta al di qua della cantina, estrasse il mazzo di chiavi che aprivano le porte blindate. Era cosí gelido che solo a toccarlo le dita perdevano sensibilità. Avvolse il mazzo dentro un panno di fortuna e lo tenne stretto tra le braccia perché si riscaldasse. Attendeva qualche secondo, poi riapriva il fagotto e controllava. Aveva cosí voglia di andare da lei che i pochi minuti necessari a stiepidire il metallo furono sufficienti a fargli perdere la pazienza. Si mise a strofinare il panno sulle chiavi con tale foga che pareva le stesse lucidando. Ma piú si affrettava in quei gesti e pensava alla porta che s’intravedeva appena fra i ripiani della libreria, piú a rischiararsi erano i suoi occhi, di desiderio. Il braccio quasi prese fuoco e il panno cadde a terra. Finalmente s’infilò nei passaggi; andò per introdurre la chiave quando Elisabeth, udendolo, si lanciò sull’entrata battendo i pugni contro l’acciaio:
– Apri la porta, vigliacco!
– Aspetta Elisabeth, aspetta! Se spingi non posso aprire! Togliti di lí!
– Apri questa cazzo di porta!
Prima di accontentarla azionò l’interruttore elettrico che aveva installato all’esterno, perché avesse lui il controllo sulla luce. Il neon cominciò a tintinnare nel vetro della plafoniera. Lo schioccare della corrente si ripeté piú volte prima che s’incendiasse il gas, tante quanti furono i bagliori che incenerirono gli occhi di Elisabeth che da troppe ore erano stati al buio.
La ragazza perse l’equilibrio mentre Josef spalancava la porta. Gliela sbatté sulla faccia e all’improvviso si ritrovò a terra, ferita. Josef lanciò la corda all’interno. Entrò e chiuse la porta – la cui sola maniglia era saldata sul lato esterno – lasciando le chiavi sul pavimento. Elisabeth cercò di rialzarsi, ma non vedeva il padre. Mise a fuoco la vista, stinse i colori. Josef le apparve in piedi, le braccia ciondolanti cariche di intenzioni. Montò nel braccio la rincorsa di uno schiaffo che la colpí in pieno volto. L’orecchio di Elisabeth non percepí che un sibilo assordante; forse il timpano si era spezzato e tutto il silenzio del mondo, riversandosi in lei, stava risalendo i meandri del cervello. Il dolore era tale che premendo col palmo della mano sembrava acuirsi anziché scemare. Si mise a strisciare nel tentativo inutile di allontanarsi. Alzò un braccio a coprirsi il volto; non sapeva se difendersi da un calcio o dalla presa delle mani quando lui le andò sopra, afferrandola per le caviglie. La trascinò fino al centro della stanza e la testa andò a colpire il pavimento. Debole com’era per non aver toccato cibo, confusa dalla velocità con cui tutto stava accadendo, non riuscí a reagire. Sentiva le fughe tra le mattonelle scorrerle lungo la testa, ferirle la cute sotto i capelli guastati dal sangue delle abrasioni.
La luce fredda del neon – ronzante, metallica – era una luminescenza assoluta, diretta al centro della pupilla come un fiume che cade alla fine della Terra. Le teneva fermi i polsi in una presa violacea. Quanto le stava facendo andava ben oltre le violenze di sempre. Non fece in tempo a serrare le gambe che lui cominciò a muoversi isterico. Josef concentrò il corpo nelle spalle, quasi volesse entrarle con la testa intera nella bocca, tanto piú feroce e orrendo quanto piú lui stesso era spaventato dalla possibilità di riuscirci.
Alle percosse si aggiunse la penetrazione. Le membra di Elisabeth si fecero di legno, ma le mani del padre, ruvide come sabbia, la satinavano: smussò le spalle, rendendole piú rotonde di quanto già non fossero, assottigliando la pelle piú di quanto prevedesse la sua delicata natura. Con un morso a metà tra un bacio e uno strappo tirò via da una parte la fronte di lei come una striscia liquida. L’immagine di Elisabeth divenne qualcosa che lui poteva modificare con le dita e i palmi delle mani. Disarticolava il corpo della figlia in chiazze e campiture fugaci; fino a quando il giovane fusto si spezzò come un fuscello sotto carico. Le sue radici furono divelte, e dove non era passata la bestia ora arrivava l’uomo, piú quieto, cibandosi dei resti con le mani e la bocca.
La penetrazione stava continuando in ogni punto. Cosí ridotta non riusciva a gridare, a muovere un dito. Lo spessore del bacino di Elisabeth rimase lo stesso, premuto com’era sopra e sotto, ma si fece piú duro. Giunse un dolore che somigliava alla rottura dell’imene ma piú tenace, piú viscerale, come se l’uomo avesse sverginato di lei una natura piú profonda.
Lo avvertí anche lui, che le prese la testa tra le mani. Baciò la tenerezza rimasta. Intorno alle sopracciglia, agli zigomi, le lentiggini disegnavano una costellazione nuova, incerta se brillare o sbiadire. Si commosse di tanta bellezza perché poteva ancora raccoglierla nei palmi sporchi. Le passò una mano sul volto rimettendo indietro i capelli. Gli sembrò che a ogni passaggio delle dita il viso risplendesse piú di prima e si convinse che se avesse continuato avrebbe portato in superficie, poi fuori dalla testa, la luce della vita.
Si ritrovarono fermi. Lei a terra, sfilacciata. Lui sopra, esausto. La lasciò al centro di una ruota i cui raggi lei stessa aveva segnato sulle mattonelle con la gomma delle scarpe, dibattendosi. Galleggiava distesa sul pavimento che sentiva muovere come una zattera. Distrutta nel torace, nelle gambe piegate. Sfondata nel petto, nelle scapole aperte. Ma viva. Riusciva a vedere il padre senza aprire gli occhi, il quale, anche lui scosso, dovette reggersi contro il muro per tirarsi su le braghe.
Josef legò un capo della corda all’anello d’acciaio. Si era studiato bene il nodo da fare, e poggiato sulle ginocchia per eseguirlo si stupí di quella tecnica. Pensò che era sorprendente la possibilità di stringere una fune cosí spessa; che si potesse piegare, girare in cappi e curvature come un filo di cotone. Elisabeth sprofondò in quello stato d’animo in cui i pensieri intorno al genitore si facevano troppo difficili, le conclusioni troppo facili, e la comprensione dei gesti dell’uomo inafferrabile. Si meravigliava di essere ancora viva; non capiva come ciò fosse possibile. Non riusciva a individuare quel punto di se stessa in cui la vita continuava a rinascere ogni volta che il padre gliela estirpava con la forza. Pensò che se l’avesse trovato, forse sarebbe potuta evadere da lí. Restava da comprendere cosa ci fosse dall’altro lato, cosa avrebbe visto una volta affacciata sulla vita piú interiore – sempre che esistesse quel punto dentro di sé e quell’altra vita.
Mentre Josef tirava con forza il lembo della corda puntando i piedi contro il muro affinché il nodo si stringesse al meglio, Elisabeth notò attraverso la fessura degli occhi il mazzo di chiavi a terra. Solo quando ebbe finito lui si voltò e non la vide in fondo al corridoio dove l’aveva lasciata. Pensò che poteva chissà come essersi alzata, aver preso le chiavi ed essere uscita dal bunker. Ripercorse in fretta la breve perpendicolare che tagliava le stanze. La rivide nella rientranza dei muri e trovò pace.
Si era trascinata verso la porta senza mai alzare la schiena. Un peso che non riusciva a vedere la teneva schiacciata al pavimento. Tese una mano verso il mazzo di chiavi che lui, ora giuntole sopra, calciò via lontano. La prese da sotto le braccia e nel sentirsi sollevare a quel modo, Elisabeth ebbe la sensazione che quel peso invisibile fosse rotolato dall’addome fin sulle gambe, paralizzandole.
La tirò dentro il primo passaggio, superato il quale dovette fermarsi perché i piedi di lei, molli e senza piú comandi, si erano aperti verso l’esterno e non passavano nei cinquanta centimetri del corridoio successivo. La testa era snodata e roteava sul collo a ogni spostamento. La lasciò a terra, scavalcandola nel poco spazio. Raccolse i piedi e li gettò con le gambe verso il corridoio, insieme al resto del corpo. La calpestò, non riuscendo a scavalcarla di nuovo, e tornò alle braccia. Dovette strattonarla piú volte e la ferí alle ginocchia grattandole sul cemento grezzo dei muri. «Alzati perdio, forza!» La piegava e tirava facendo delle membra un ammasso scomposto.
Poi la distese a terra coi piedi rivolti al nodo e la legò, elevando a un ordine universale il comando che aveva di lei. Sarebbe stata di sua esclusiva proprietà, d’ora in avanti, e quel giorno si prese le caviglie. Le strinse in una morsa. Il bunker era una bestia ammaestrata a cui il padrone aveva concesso di divorare la preda.
Il processo di smantellamento della coscienza di Elisabeth era cominciato. Un riflesso le attraversò i pensieri: per la prima volta vide che le ragioni di fare del male o fare del bene non erano piú le stesse per le quali si faceva male o bene qualsiasi cosa. Cosí la cura che il padre aveva avuto nel fare quel nodo, cosí la costruzione stessa del bunker. Ormai Josef sfogliava la sua mente come un libro dalle pagine sempre piú labili.
Affaticato ma soddisfatto, la osservò riversa sul pavimento tra i due piccoli letti sui quali non gli venne in mente di adagiarla. Pareva appesa per i piedi, penzoloni. La piú bella delle sue figlie era diventata l’impiccato delle carte magiche. Lui stesso provò un brivido di inquietudine a vederla, ma se ebbe quel sentimento fu per aver ottenuto un risultato migliore del previsto. Ebbe la conferma che le motivazioni di tenerla tutta per sé non erano maligne, ma antiche, appartenenti a un mondo che si credeva perduto e sul quale invece lui era riuscito a trovare un portale. Allora forse non avrebbe dovuto condurci Elisabeth, come credeva; forse quel mondo si sarebbe mosso verso loro due: un universo vivo che premeva per ricongiungersi agli umani, ai loro cuori, ai loro desideri per tornare reale.
Andò verso l’angolo della prima stanza per raccogliere le chiavi. Elisabeth, che da lí non poteva vederlo, percepí appena il rumore metallico che si faceva indistinto. Le mandate che sbloccavano le serrature e poi di nuovo le ancoravano risuonarono nell’acciaio come scale di note, sfumando nel piano, pianissimo, della lontananza.
Rimase sola. Purtroppo, però, sola nel modo in cui desiderava non lo era mai stata e non lo fu quel giorno. Il suo corpo nel giro di mezz’ora era invecchiato di mesi; lo spirito, invece, non si sarebbe piú separato da lei come quei bambini che vivono sul limitare del mondo materno, e senza la madre accanto non riescono nemmeno a giocare, convinti di non doverla lasciare mai o sarebbe la fine.
Le dolevano le gambe ancora piú di prima. Al senso di oppressione si era sostituito il rilascio della tensione. La tortura era diventata stanchezza, come fosse stato suo lo sforzo di esercitarla. Il grosso nodo che le avvolgeva le caviglie formava una matassa a piú strati, un ancoraggio insito nei doppi giri di corda prima ancora che al muro. Si rese conto che se anche si fosse liberata dal pugno della fune non sarebbe comunque potuta fuggire. C’era da risolvere il resto del bunker, metri cubi di cemento da attraversare. Immaginò di alzarsi come uno spettro a cui non importa di vedere incatenato il proprio corpo. Senza curarsene avrebbe lasciato a terra quella coda lunga, quel morso ai piedi che presto si sarebbero rappresi in una livida consistenza. Avrebbe attraversato i muri senza pensiero. Quanto sarebbe stato bello lasciarsi andare, allora, e quanto semplice dimenticare di essere vissuta.
LA VICINANZA
La mattina seguente, attraverso la finestra della cucina, Rosemarie vide Josef lanciare qualcosa oltre la siepe che divideva il loro giardino da quello di Sauer. Il vicino di casa, in occasione del rilascio di Josef, si era presentato alla porta con un esemplare maschile di cocorita in dono. Adesso, rientrando dal giardino, Josef sbuffò alla moglie:
– Sono anni che seleziono canarini, e cosa mi porta quel bastardo? Una cocorita! Se crede che gli permetterò di sterminare i miei piccoli si sbaglia.
– Che ne hai fatto allora?
– L’ho ucciso, che domande!
Rosemarie si sentí ferita per l’offesa che ne sarebbe derivata – essendo Sauer, tacitamente, suo spasimante. Josef non aveva mai dato peso alla cosa; non curandosi come sempre del risentimento della moglie decise che si sarebbe dedicato a Elisabeth per il resto della giornata. Gli piaceva l’idea di starsene giú con lei, come in sala hobby.
Fece il giro dei frigoriferi collezionando alimenti. Prelevando piccole dosi qua e là, avrebbe evitato di destare sospetti. Dispose il cibo in una busta che portò in cantina, lasciandola su un ripiano della libreria. L’avrebbe consegnata a Elisabeth non appena avesse finito di pranzare.
Tornato di sopra, si mise a tavola. Mentre si serviva riempiendo il piatto con appetito, la moglie gli domandò se avesse notizie del tenente ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Josef
  5. La corda
  6. Qui comandi tu
  7. Kerstin
  8. Stefan
  9. Lisa
  10. Monika
  11. Alexander e Michael
  12. L’inverno piú caldo
  13. Felix
  14. I segreti sono sogni realizzati