La prima notte dei vampiri
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La prima notte dei vampiri

Diciotto storie pericolose

  1. 408 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La prima notte dei vampiri

Diciotto storie pericolose

Informazioni su questo libro

Da Polidori a Stoker, da Tolstoj a Le Fanu, da Poe a Capuana, da Quiroga a Lovecraft, ben prima di Twilight, i vampiri hanno ossessionato la fantasia dei piú celebri scrittori del XIX secolo. Questa strana creatura assetata di sangue che invade il mondo dei vivi, questo amante seducente che fin dalla notte dei tempi ha abitato le nostre fantasie piú oscure mantiene intatto il suo fascino secolo dopo secolo e le storie raccolte in questa antologia lo dimostrano ampiamente.
Attingendo alle letterature occidentali, La prima notte dei vampiri raccoglie i racconti piú agghiaccianti dedicati a questa figura sfuggente e misteriosa, narrandoci le sue infinite metamorfosi, perché il Vampiro non è morto, non muore mai, anzi... è sempre al passo con i tempi, e, perché no?, con un fisico talmente perfetto da sembrare irreale e una voce suadente - cosí lo vede Stephenie Meyer -, è entrato a turbare anche la nostra epoca.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806204877
eBook ISBN
9788858403938

SHERIDAN LE FANU
Carmilla

Prologo.
Su un foglio allegato al racconto che segue, il dottor Hesselius ha scritto un’annotazione piuttosto elaborata, in cui cita il suo saggio sull’inconsueto argomento trattato nel manoscritto.
Nel saggio affronta questa misteriosa materia con l’erudizione e l’acume che lo contraddistinguono, in modo assai esplicito e conciso. Andrà a comporre uno dei molti volumi che costituiranno la raccolta di scritti di quell’uomo straordinario.
Poiché pubblico il caso, in questo volume, esclusivamente per i «profani», non anticiperò in nulla l’intelligente signora che lo riferisce. Inoltre, dopo una lunga riflessione, ho deciso di evitare di riassumere le sapienti argomentazioni del dottore, o di riportare le sue considerazioni su un soggetto che, come egli stesso afferma, «molto probabilmente coinvolge alcuni dei piú profondi arcani della nostra duplice esistenza e le sue forze intermediarie».
Quando scoprii queste carte, ero ansioso di riprendere la corrispondenza avviata molti anni prima dal dottor Hesselius con una persona cosí ingegnosa e attenta come sembra sia stata la sua informatrice. Con mio grande rammarico, venni però a sapere che era morta. Probabilmente avrebbe potuto aggiungere ben poco al racconto che ha scritto, a mio parere, con tanta coscienziosa meticolosità.
1. Un primo spavento.
Pur non possedendo un ingente patrimonio, abitiamo in un castello, o Schloß, in Stiria. In quest’angolo di mondo, una piccola rendita è sufficiente per fare grandi cose. Otto o novecento sterline l’anno permettono di condurre una vita da signori. In patria, invece, i nostri averi ci avrebbero assicurato a stento un’esistenza agiata. Mio padre è inglese e io porto un nome inglese, per quanto non abbia mai visto l’Inghilterra. Ma qui, in questo luogo remoto e primitivo, dove tutto è meravigliosamente a buon mercato, non vedo davvero come una maggiore ricchezza potrebbe aggiungere qualcosa ai nostri agi, o addirittura lussi.
Mio padre serviva nell’esercito austriaco. Quando si ritirò, con la pensione e il suo patrimonio acquistò questa residenza feudale e la piccola tenuta su cui si trova: un vero affare.
Non potrebbe esistere una dimora piú pittoresca e romita. Si erge su una piccola altura circondata da una foresta. La strada, molto dissestata e stretta, passa davanti al ponte levatoio, che non è mai stato sollevato da quando sono qui. Nel fossato circondato da pali navigano i cigni e galleggiano le bianche flottiglie delle ninfee.
Su tutto questo si stagliano la facciata del castello, traforata di finestre, le sue torri e la sua cappella gotica.
La foresta si apre in un’irregolare e suggestiva radura davanti al cancello, mentre, a destra, un ripido ponte gotico conduce la strada oltre un torrente che si inoltra sinuoso nella profonda oscurità del bosco. Ho detto che è un luogo molto solitario. Giudicate voi stessi se dico il vero. Guardando dalla porta d’ingresso verso la strada, la foresta in cui è situato il nostro castello si estende per quindici miglia sulla destra e dodici sulla sinistra. Il piú vicino villaggio abitato dista circa sette miglia, sulla sinistra. Il piú vicino castello abitato di una qualche rilevanza storica è quello del generale Spielsdorf, a quasi venti miglia sulla destra.
Ho detto «il piú vicino villaggio abitato» perché, a sole tre miglia a ovest, cioè nella direzione del castello del generale Spielsdorf, c’è un villaggio in rovina con la sua caratteristica chiesetta, priva di tetto, nella cui navata si trovano le tombe sgretolate dell’orgogliosa famiglia Karnstein, ormai estinta. Un tempo i Karnstein possedevano il castello, ora diroccato, che dal folto della foresta domina i silenziosi ruderi del villaggio. Sulla ragione dell’abbandono di questo posto cosí singolare e malinconico c’è una leggenda che vi racconterò piú avanti.
Ora devo dirvi quanto sia esiguo il numero degli abitanti del nostro castello. Escluderò i servitori e i dipendenti che occupano gli edifici annessi allo Schloß. Sentite, e meravigliatevi! Ci siamo soltanto mio padre, l’uomo piú gentile della terra ma ormai molto anziano, e io, che all’epoca dei fatti che vi narrerò avevo appena diciannove anni. Da allora ne sono trascorsi otto.
Mio padre e io costituivamo dunque tutta la nostra famiglia. Mia madre, una nobile stiriana, morí quando ero ancora piccola, ma un’amorevole governante mi fu accanto sin dalla primissima infanzia. Rammento infatti di aver sempre visto intorno a me il viso grassoccio e cordiale di Madame Perrodon, originaria di Berna. Le sue attenzioni e la sua dolcezza compensavano in parte la mancanza di mia madre, della quale non serbo alcun ricordo. Era lei la terza a tavola, nelle nostre modeste cene. C’era anche una quarta persona, Mademoiselle De Lafontaine, una signora nel vero senso della parola, che potrei definire la mia «istitutrice aggiunta». Parlava inglese e tedesco, mentre Madame Perrodon parlava francese e un inglese approssimativo; mio padre e io, in parte per evitare di dimenticarlo e in parte per motivi patriottici, fra noi parlavamo sempre inglese. Insomma, una sorta di Babele, che divertiva gli estranei e che non tenterò di riprodurre in questo racconto. Avevo anche due o tre amiche della mia età, che di quando in quando si fermavano al castello per qualche tempo e che a mia volta io andavo a trovare ogni tanto.
Queste erano le nostre abituali relazioni sociali ma, naturalmente, c’erano anche le occasionali visite dei «vicini», vale a dire persone che abitavano nel raggio di cinque o sei leghe. La mia era però una vita piuttosto solitaria, ve lo assicuro.
Come potrete immaginare, le mie governanti, nonostante fossero donne esperte e accorte, esercitavano su di me un controllo piuttosto relativo: ero una ragazzina viziata e il mio unico genitore mi lasciava fare pressoché tutto quello che volevo.
La prima circostanza che produsse una notevole impressione sulla mia mente, e che vi resta tuttora in modo indelebile, fu uno dei primi avvenimenti della mia vita che riesca a ricordare. Qualcuno potrà pensare che sia talmente insignificante da non essere degno di nota; capirete però con il procedere della storia perché voglio menzionarlo.
La camera dei bambini, cosí chiamata sebbene l’avessi tutta per me, era una grande stanza con il soffitto spiovente in legno di quercia, situata all’ultimo piano del castello. Una notte, quando avevo circa sei anni, mi svegliai e, guardandomi intorno, non vidi né la cameriera né la bambinaia e credetti di essere sola. Non avevo paura, perché ero una di quelle bambine fortunate alle quali sono risparmiati i racconti di fate, le storie di fantasmi e tutte quelle fiabe che ci spingono a nascondere la testa sotto le coperte se una porta cigola o se il tremolio di una candela che sta per spegnersi fa danzare l’ombra del baldacchino sulla parete vicina al nostro viso. Quella sera ero irritata e offesa perché pensavo di essere stata dimenticata, e cominciai a piagnucolare, preparandomi a strillare, quando, con mia grande sorpresa, vidi accanto a me un volto molto bello che mi guardava con aria grave. Una giovane donna era inginocchiata di fianco al letto e teneva le mani sotto la mia coperta. La osservai con una sorta di lieto stupore e smisi di lamentarmi. Lei mi accarezzò, si sdraiò vicino a me e mi abbracciò, sorridendo. Mi sentii subito invasa da una calma deliziosa e mi riaddormentai. Fui svegliata dalla sensazione di due aghi che mi trafiggevano il petto profondamente e simultaneamente, e lanciai un urlo. La donna si ritrasse, con gli occhi fissi su di me, scivolò sul pavimento e mi parve che si nascondesse sotto il letto.
Per la prima volta ebbi paura, e strillai con tutte le mie forze. La bambinaia, la cameriera e la governante si precipitarono nella stanza e, sentendo il mio racconto, sorrisero, cercando nello stesso tempo di tranquillizzarmi. Ma, sebbene fossi solo una bambina, mi accorsi che i loro visi erano pallidi e i loro occhi tradivano una malcelata angoscia. Le vidi sbirciare sotto il letto, in tutta la camera, sotto il tavolo e nell’armadio, e sentii la governante sussurrare alla bambinaia: – Mettete la mano in quell’incavo nel letto. Qualcuno si è sdraiato lí, e di certo non è stata lei. Il posto è ancora caldo.
Ricordo che la cameriera mi coccolò e tutte e tre mi esaminarono il petto nel punto in cui dicevo di aver sentito le punture, assicurandomi che non si vedeva alcun segno. Le tre donne rimasero a vegliarmi per tutta la notte e da quel giorno fino a quando compii quattordici anni, una domestica rimase sempre nella stanza con me.
Quell’episodio mi turbò a lungo. Fu chiamato un medico, un uomo pallido e anziano. Rammento benissimo il suo viso lungo e mesto leggermente butterato dal vaiolo e la sua parrucca castana. Per parecchio tempo venne ogni due giorni a darmi una medicina, che naturalmente io odiavo.
All’indomani di quell’apparizione ero terrorizzata: non tolleravo di essere lasciata sola nemmeno per un istante, neppure in pieno giorno.
Ricordo anche mio padre in piedi vicino al mio letto, che mi parlava allegramente, faceva molte domande alla bambinaia e rideva a una delle sue risposte, mi dava colpetti affettuosi sulle spalle, mi baciava e mi diceva di non avere paura, che era stato solo un brutto sogno e non poteva farmi alcun male.
Ma io non ero tranquilla, perché sapevo che la visita di quella strana donna non era un sogno ed ero terribilmente spaventata.
Mi consolarono ben poco le rassicurazioni della cameriera, la quale sosteneva di essere stata lei a sdraiarsi accanto a me, e che non l’avevo riconosciuta perché ero mezzo addormentata. Sebbene la bambinaia confermasse questa versione, io non ne ero assolutamente convinta.
Quello stesso giorno, un uomo piuttosto anziano che indossava una tonaca nera entrò nella mia stanza insieme con la bambinaia e la governante, parlò brevemente con loro e poi si rivolse a me con grande gentilezza. Il suo viso era molto dolce e mite. Mi disse che avrebbero pregato, mi fece congiungere le mani e mi chiese di dire sottovoce, mentre gli altri pregavano: «Signore, ascolta tutte le nostre buone preghiere, per amore di Gesú». Penso che le parole fossero proprio quelle, perché le ripetei spesso a me stessa e la bambinaia continuò per anni a farmele pronunciare nelle mie preghiere.
Ricordo perfettamente il volto affettuoso di quel vecchio dai capelli bianchi, con la lunga tonaca nera, mentre stava in piedi in quella camera antiquata e cupa, piena di mobili grossolani vecchi di tre secoli, e la scarsa luce che penetrava nell’oscurità dalla piccola finestra con la grata. Il prete si inginocchiò, insieme con le tre donne, e pregò a lungo con voce ardente e vibrante. Non rammento nulla degli anni precedenti a quel giorno, e neppure ciò che accadde dopo, almeno per un certo tempo, ma le scene che ho appena descritto si stagliano nitide nella mia memoria come immagini fantasmagoriche circondate dalle tenebre.
2. Un’ospite.
Vi racconterò ora qualcosa di cosí strano che richiederà tutta la vostra fiducia nella mia sincerità. Ma non solo è vero: ne sono anche stata testimone oculare.
Era una dolce sera d’estate e mio padre mi chiese, come capitava talvolta, di fare una passeggiata con lui nella magnifica foresta che si estende davanti al castello.
– Il generale Spielsdorf non potrà venire a trovarci presto, come speravo, – disse papà mentre camminavamo.
Il generale si sarebbe dovuto fermare qualche settimana a casa nostra, e lo aspettavamo per il giorno seguente. Avrebbe dovuto portare con sé la sua giovane nipote e pupilla, Mademoiselle Rheinfeldt, che non avevo mai visto ma della quale avevo sentito parlare come di una ragazza incantevole. Avendo pregustato i giorni felici che avrei trascorso in sua compagnia, rimasi molto delusa, ben piú di quanto possa immaginare chi vive in città o è abituato a frequentare tante persone. Da molte settimane sognavo quella visita e la nuova amicizia che prometteva di portare con sé.
– E quando verrà? – domandai.
– Non prima dell’autunno. Non prima di due mesi, credo, – rispose mio padre. Poi aggiunse: – Ora sono molto contento, mia cara, che tu non abbia conosciuto Mademoiselle Rheinfeldt.
– Perché? – chiesi, mortificata e curiosa al tempo stesso.
– Perché la povera ragazza è morta. Questa sera, quando ho ricevuto la lettera del generale, tu non c’eri, cosí non ho potuto dirtelo.
Rimasi sconvolta. Nella sua precedente lettera, di sei o sette settimane prima, il generale Spielsdorf aveva detto che la nipote non stava bene quanto lui avrebbe desiderato, ma nulla faceva supporre la possibilità, anche remota, che fosse in pericolo di vita.
– Ecco la lettera del generale, – continuò mio padre, porgendomela. – Temo che sia estremamente addolorato. Mi sembra che sia stata scritta in uno stato di grande turbamento.
Ci sedemmo su una panchina di pietra, sotto i tigli imponenti. Il sole stava ormai tramontando con tutto il suo malinconico splendore dietro l’orizzonte boscoso, e il torrente che scorreva accanto al castello e sotto il vecchio ponte per poi inoltrarsi fra gli alberi, passando quasi ai nostri piedi, rispecchiava il cielo, di uno scarlatto sempre piú sfumato.
La lettera era cosí singolare, cosí impetuosa e a tratti cosí contraddittoria, che la lessi e la rilessi – la seconda volta ad alta voce – senza riuscire a spiegarmela, se non pensando che il dolore avesse sconvolto la mente del generale.
Diceva:
Ho perso la mia cara figliola: la amavo infatti come una figlia. Negli ultimi giorni di vita della povera Bertha non ho potuto scrivervi.
Prima non avevo idea che fosse in pericolo. Ora l’ho perduta, e ora so tutto: troppo tardi. È morta nella pace dell’innocenza e nella gloriosa speranza di un futuro benedetto. Il demonio che ha tradito la nostra avventata ospitalità è stato la causa di tutto questo. Pensavo di accogliere nella mia casa l’innocenza, la gaiezza, un’amabile compagnia per la mia povera Bertha. Cielo! Che pazzo sono stato!
Ringrazio Dio che la mia bambina sia morta senza sospettare l’origine delle sue sofferenze. Se n’è andata senza sapere quale fosse la natura della sua malattia e ignara della passione maledetta del responsabile di tanta sventura. Consacro i giorni che mi restano alla caccia e alla distruzione di un mostro. Mi è stato detto che posso sperare di raggiungere il mio giusto e misericordioso scopo. Al momento solo un barlume di luce mi guida. Maledico la mia presuntuosa incredulità, la mia deprecabile ostentazione di superiorità, la mia cecità, la mia ostinazione... tutto... È troppo tardi. Non riesco a scrivere né parlare con calma: sono fuori di me. Non appena mi sarò ripreso un poco, mi dedicherò alle ricerche, che mi porteranno probabilmente fino a Vienna. In autunno, fra un paio di mesi, o anche prima se sarò ancora vivo, verrò a trovarvi, se me lo permetterete. Vi dirò allora quel che ora non ho il coraggio di mettere sulla carta. Addio. Pregate per me, caro amico.
La strana lettera terminava cosí. Sebbene non avessi mai visto Bertha Rheinfeldt, gli occhi mi si riempirono di lacrime. Ero spaventata e addolorata.
Il sole era tramontato e il crepuscolo era ormai sceso quando riconsegnai la lettera a mio padre. Camminammo nella sera dolce e chiara, facendo congetture sui possibili significati delle frasi furiose e incoerenti che avevo appena letto. Dovevamo percorrere circa un miglio prima di arrivare alla strada che passava di fronte al castello; intanto sorse una luna luminosa. Sul ponte levatoio incontrammo Madame Perrodon e Mademoiselle De Lafontaine, che erano uscite ad ammirare il meraviglioso chiaro di luna. Avvicinandoci, udimmo il cicaleccio delle loro voci animate. Le raggiungemmo e ci fermammo ad ammirare con loro lo splendido paesaggio che ci circondava.
La radura dove avevamo passeggiato si stendeva davanti a noi. A sinistra, la stradina serpeggiava sotto gli alberi maestosi e si perdeva nella fitta foresta. A destra, la stessa stradina passava sopra il ponte ripido e pittoresco, presso il quale si ergeva una torre in rovina che un tempo montava la guardia a quel passaggio. Al di là del ponte si innalzava una ripida altura ricoperta di vegetazione, le cui rocce grigie tappezzate d’edera si intravedevano appena nell’oscurità. Sui prati lontani si allungava un leggero manto di foschia, segnando l’orizzonte con un velo trasparente, e qua e là si scorgeva il debole luccichio del torrente illuminato dalla luna.
Non si potrebbe immaginare uno scenario piú affascinante. La notizia che avevo appena ricevuto lo rendeva malinconico, ma nulla poteva turbare la profonda serenità, lo splendore incantato e l’armonia di quel luogo.
Mio padre e io, che amiamo il pittoresco, ci soffermammo a guardare in silenzio. Le due buone governanti, a pochi passi, discorrevano del paesaggio e della luna.
Madame Perrodon, che era grassa, di mezza età e romantica, parlava e sospirava poeticamente. Mademoiselle De Lafontaine, la quale, avendo un padre tedesco, pretendeva di essere psicologa, metafisica e un po’ mistica, affermò che quando la luna brillava con tale intensità era risaputo che indicava una particolare attività spirituale. Gli effetti di una luna piena cosí luminosa potevano essere molteplici. Agiva sui sogni, sulla follia, sulle persone nervose e aveva una profonda influenza anche sul piano fisico. Raccontò che un suo cugino, ufficiale in seconda su un mercantile, in una notte simile si era sdraiato sul ponte della nave e si era addormentato con il viso esposto ai raggi della luna piena; d’un tratto, dopo aver sognato una donna che gli artigliava le guance, si era svegliato con un lato del volto orribilmente contratto, e da allora era rimasto sfigurato.
– Questa notte la luna è carica di influssi idilliaci e magnetici, – disse. – Guardate le finestre del castello, come scintillano d’uno splendore argentato, quasi che mani invisibili avessero illuminato le stanze per ricevere ospiti fatati.
Ci sono momenti in cui il nostro stato d’animo ci rende riluttanti a parlare ma è piacevole ascoltare il chiacchiericcio altrui, che fa da sottofondo ai nostri pensieri, e io continuai a osservare il panorama, confortata dalle voci delle due donne.
– Sono rattristato, stasera, – disse mio padre dopo un lungo silenzio. Poi, citando Shakespeare, che spesso mi leggeva ad alta voce per non perdere familiarità con l’inglese, aggiunse: – «Perché sono di questo umore, in coscienza, non lo so: è una tristezza che mi pesa; e pesa, mi dicevate, ora, anche a voi. Ma dove me la sia presa o trovata...» Ho dimenticato il resto, ma mi sento come se una grande sventura incombesse su di noi. Immagino che la disperata lettera del povero generale abbia a che fare con questo mio stato d’animo.
In quel momento, il rumore inconsueto delle ruote di una carrozza e di molti zoccoli di cavalli sulla strada attirò la nostra attenzione. Pareva dirigersi verso di noi, scendendo dall’alta collina che sovrastava il vecchio ponte, e ben presto un piccolo corteo sbucò proprio da quel punto. Dapprima due cavalieri attraversarono il ponte, poi apparve una carrozza trainata da quattro cavalli, infine altri due caval...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione di Carlo Pagetti
  5. La prima notte dei vampiri
  6. Il vampiro
  7. Vampirismo
  8. Berenice
  9. L’amante cadavere
  10. Il visitatore terrificante
  11. La famiglia del vurdalak
  12. La bella vampirizzata
  13. Il vampiro
  14. Carmilla
  15. L’Horla
  16. L’ospite di Dracula
  17. Un vampiro
  18. Il Dottor Nero
  19. Il vampiro della foresta
  20. Aylmer Vance e il Vampiro
  21. Il cuscino di piume
  22. Nella cripta
  23. Il vampiro del Sussex
  24. Fonti