I racconti di guerra
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I racconti di guerra

  1. 648 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I racconti di guerra

Informazioni su questo libro

Dalle storie della Grande Guerra, scaturite dall'album di famiglia e dai bollettini ufficiali, a quelle della seconda guerra mondiale che ripercorrono la campagna di Francia, la tragica spedizione albanese, il drammatico fronte russo, la prigionia, il ritorno sull'Altipiano: pagina dopo pagina, attingendo alla sua memoria personale e a quella collettiva, «il sergente» Rigoni costruisce un quadro scarno e spietato di un tempo che non è il nostro ma che ci viene lasciato in eredità. Tutti i racconti che Rigoni Stern ha dedicato al tema della guerra nelle sue opere precedenti, oltre a numerosi altri testi sparsi in giornali e riviste, vengono qui pubblicati in un ordine storico-narrativo a cura dell'autore.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806238926
eBook ISBN
9788858401774

Seconda guerra mondiale

Cosí a diciott’anni andammo in guerra

Da ragazzo guardavo alla Grande Guerra come a una cosa molto lontana anche se dal giorno della pace erano passati pochissimi anni, e sí che i segni nella mia terra erano vivi come piaga sanguinante. Molto spesso giocando nelle trincee per cercare elmetti e cartucce, o nelle postazioni di artiglieria per raccogliere i quadratini di balistite delle cariche di lancio, trovavamo anche corpi di soldati italiani e austriaci.
Molti di noi vestivano ancora indumenti militari scovati nelle baracche abbandonate: e quando verso gli anni Trenta arrivava da lontano qualche «pellegrinaggio» di invalidi o di ex combattenti, questi uomini vestiti di scuro e cosí seri, che non giocavano alla guerra come noi ragazzi ma drammaticamente l’avevano subita, ci sembravano molto anziani, o addirittura vecchi, anche se molti di loro non avevano ancora trent’anni.
Ecco, se noi allora giudicavamo cosí lontana una cosa vicina e dalle mie parti tragicamente vissuta, come giudicherà un ragazzo d’oggi gli avvenimenti che nel 1939 cominciarono a insanguinare prima l’Europa e poi tutta la terra? Forse non giudicheranno proprio niente; sono fatti, per loro, preistorici, e nelle casematte di calcestruzzo delle linee Maginot, Sigfrido, Stalin, Gotica, o in quelle che sono lungo le coste del Mediterraneo o degli oceani, loro entrano per fare l’amore. Meglio cosí, certo.
Ma non mi sembra giusto dimenticare tutto, nel bene e nel male (poco e tanto!), e non per fare prediche inutili, ma solamente per capire e far capire. Fermiamoci allora cinque minuti a pensare, ora che si corre cosí in fretta senza sapere dove.
Allora non avevo ancora diciotto anni e, caporale sciatore-rocciatore alla Scuola militare d’Alpinismo Duca degli Abruzzi, avevo appena finito le escursioni nel gruppo del Gran Paradiso e le manovre sul Monte Bianco.
Verso la fine di agosto, dopo le ascensioni e le manovre che dicevo, venni mandato in licenza di otto giorni. Ma la licenza era dedicata solo al lavoro (allora, credo, era cosí per tutti), e il mio era di andare nei boschi comunali a far legna per l’inverno: tutte le mattine prima dell’alba partivo tirandomi dietro un carrettino che nel tardo pomeriggio riportavo carico di legna nel cortile di casa.
Un giorno, mentre stavo lavorando con la scure contro un grosso ceppo d’abete che non voleva lasciare il bosco, sentii qualcuno chiamarmi dal fondovalle dove c’era il cimitero dei soldati inglesi caduti nel 1918. Il bosco divenne silenzioso e distinsi la voce di un mio fratello che ora è in Australia. Gridava: – Vieni giú! Devi venire subito a casa. I carabinieri hanno portato un telegramma dove è scritto che devi ritornare ad Aosta. Vieni giú!
Era il 29 agosto 1939. Quello stesso pomeriggio dovetti lasciare i miei vestiti odorosi di resina per la divisa da alpino, e riprendere il treno senza aver consumato la mia licenza di otto giorni.
Andava il treno nella notte per la pianura padana, a ogni stazione salivano quelli che come me avevano dovuto interrompere la licenza, ma anche tanti richiamati delle classi 1903 e 1913 che andavano a raggiungere i reparti di assegnazione. Non c’era allegria, non c’erano canti, nemmeno conversazioni dentro gli scompartimenti odoranti di naftalina.
Ogni tanto qualcuno faceva girare un fiasco di vino e si beveva in silenzio. Ma poi a Verona, a Milano, a Novara, a Vercelli, a Chivasso (quel bar della stazione di Chivasso che l’anno scorso ho rivisto come era allora, come se il tempo non fosse corso via!), era un salire e scendere di uomini assonnati e stanchi, di zaini affardellati, e rumore di gamelle vuote. Qualche imprecazione, qualche bestemmia, il fischio del capotreno, il segnale di un fanale e via nel buio. Verso la guerra?
Arrivai ad Aosta il mattino del giorno 30 (queste date precise le sto ricavando dal mio notes di allora, che il tempo ha reso quasi illeggibile). Ma ad Aosta nelle caserme Testa-Fochi, Chiarle e Mottino c’erano solamente i richiamati con i capelli grigi, cupi e silenziosi; non tutti con la divisa, alcuni anzi vestiti per metà da militari e per metà da civili, e facevano contrasto sulle scarpe giallo chiaro le fasce mollettiere. E ancora acuto odore di naftalina.
Molti di loro, già armati con i lunghi fucili modello 1891, stavano appoggiati al muro dei cortili in attesa di essere messi in rango dai sergenti. Ma i battaglioni del 4° reggimento alpini, i gruppi del 1° reggimento artiglieria alpina, il battaglione Duca degli Abruzzi erano già sulla frontiera con la Francia. Anche la mia compagnia, naturalmente, e il magazziniere mi disse che dovevo raggiungerla subito verso il Col de la Seigne.
Nel treno per Pré-Saint-Didier incontrai una bella ragazza di Torino che andava in villeggiatura con la famiglia; mi chiese della guerra, se era vero che i tedeschi stavano per entrare in Polonia e se noi alpini eravamo già schierati sui confini. Forse in quel giovane bruciato dal sole dei ghiacciai vedeva il mitico alpino dei racconti dei libri di scuola, delle canzoni e della retorica di allora e io, forse, per una ragazza cosí bella che viveva in un’Italia cosí bella pensavo che bello sarebbe stato pure morire.
Leggo nel notes: «31 agosto. – Siamo sopra il lago Combal, in baite, si mangia poco. Molte munizioni. 1° settembre. – Allée Blanche. Guerra tedesco-polacca. Sceso ad Aosta per ordine del capitano per riaccompagnare su i richiamati. Piove e fa freddo. In Francia c’è la mobilitazione generale».
In quei giorni, con piccole pattuglie, andavamo lungo la linea di confine e giú in basso, verso la Francia, a Ville des Glaciers, a Les Chapieux vedevamo le casermette degli chasseurs alpins con i camini che fumavano: ci dicevano che lí dentro stavano i soldati senegalesi, ma non ci credevamo. «3 settembre. – L’Inghilterra e la Francia hanno dichiarato guerra alla Germania. Ci hanno dato le maschere e gli elmetti. In alto nevica».
Nei giorni successivi ci fecero entrare nelle opere difensive alle pendici delle Pyramides Calcaires. Nessuna notizia ora ricevevamo di quello che stava accadendo in Europa. «5 settembre. – Fa freddo, di notte i topi ci passeggiano sul viso».
Poi ritornò il sole. In piccole cordate con il tenente e qualche compagno andavamo a fare ricognizioni verso l’Aiguille des Glaciers e all’Aiguille de Trélatête: da lassú guardavamo la Francia, dove già c’era la guerra.
Al ritorno da una di queste escursioni trovammo che i nostri compagni, a causa della forte umidità, dei topi e dei pidocchi, erano stati costretti a uscire dalle casermette e a piantare le tende sulla morena del Miage. E lí restammo fino al tardo ottobre, finché una notte una forte nevicata seppellí l’accampamento.
Ecco, cosí visse quei giorni un diciottenne sopravvissuto. Se ripenso ai compagni di allora rivedo i volti giovani, ricordo le voci, le canzoni che cantavamo sottovoce nei rifugi del Monte Bianco. I primi caddero su quelle stesse montagne nel giugno del 1940, poi venne la campagna di Grecia e altri restarono per sempre sulle montagne dell’Albania; e i Balcani, ancora; e le steppe della Russia. Sempre piú pochi ci contavamo. Vennero i Lager dei tedeschi e la Resistenza. Furono i nostri ventanni.
Da Tra due guerre e altre storie, Einaudi, Torino 2000.

La signora del bosco

L’estate del 1939 stava per finire. Le armate tedesche avevano invaso la Polonia e si combatteva a Varsavia. Francia e Inghilterra avevano dichiarato guerra alla Germania il 3 settembre e sul fronte occidentale le forze contrapposte stavano dietro le grandi linee fortificate, la Maginot e la Sigfrido, in attesa del grande scontro. L’Italia aveva dichiarato la sua «non belligeranza». Gli alpini che risalivano in cordate il ghiacciaio verso l’Aiguille de Trélatête, alla sera, sotto la tenda cantavano le solite canzoni. Dall’altro accampamento piú in basso veniva il suono di una fisarmonica. Con la radio da campo un caporale era riuscito a intercettare qualche volta una stazione dell’Eiar da dove trasmettevano le canzonette del Trio Lescano e le notizie dal mondo che, da lassú, pareva lontanissimo. Gli ufficiali ascoltavano le notizie della guerra in Polonia e le azioni di pattuglia sul fronte occidentale.
Tra i soldati correva voce che in valle, a Cormaiore, o a San Desiderio Terme, o a Porta Littoria (cosí venivano scritti Courmayeur, Pré-Saint-Didier e La Thuile!), avevano arrestato delle spie francesi, donne bellissime. Poi dicevano di no, che non le avevano arrestate ma che erano state segnalate e quindi bisognava sorvegliarne attentamente i passi. Ma gli alpini di notte dormivano stretti dentro le tende per riscaldarsi; di giorno, poi, gli ufficiali raccomandavano ai caporali di non farsi vedere sui crinali e, alle cordate, di ignorare quelle degli Chasseurs in eventuali incontri.
La storia delle belle spie francesi aveva eccitato la fantasia dei soldati; forse qualche giovane sottotenente sognava di arrestarle, magari mentre osservavano dall’alto il nostro accampamento. Un giorno il capitano chiamò nella sua tenda-Comando il caporalmaggiore degli esploratori e con aria di grande mistero gli ordinò di portare e consegnare al Comando, ad Aosta, uno zaino tutto speciale. Dentro, gli disse, c’erano segreti militari e lo doveva consegnare nelle mani del colonnello o del suo aiutante maggiore. Solo a uno di loro. Doveva andare a piedi, svelto, fino a Pré-Saint-Didier; lí doveva prendere il treno. Gli diede anche gli scontrini per il biglietto. Poteva fermarsi un giorno ad Aosta e ritornare l’indomani. Ma gli raccomandò, anzi gli ordinò, di non aprire lo zaino e di tenerlo sempre in spalla, di non fermarsi a parlare con nessuno e di andare tranquillo per la sua strada anche se avesse dovuto incontrare qualche ragazza.
Il caporalmaggiore degli esploratori partí subito, a salti, giú per l’alpe della Lex Blanche, costeggiò il lago Combal dove nel luglio precedente avevano preso molte rane e, prima di La Visaille, vide uscire dal bosco una ragazza che si incamminò sulla sua strada, un poco piú avanti di lui. Anche lei andava di buon passo. Il caporalmaggiore rallentò. Rallentò anche lei. Non c’era nessuno per quella strada all’ombra dell’Aiguille Noire: né alpinisti né militari né turisti, anche se era una bella giornata fresca di fine estate. Forse la guerra che s’addensava sull’Europa aveva fatto rientrare la gente nelle case. La ragazza che camminava davanti a lui si sedette sull’argine della strada. La raggiunse, la guardò di sfuggita. Lei lo salutò. Rispose al saluto. – Ma dove va cosí in fretta? – gli disse.
– Vado in permesso. Devo prendere il treno.
– Prenderà quello dopo. Si fermi un poco con me. Parliamo, – rispose lei.
Si fermò in mezzo alla strada per guardarla. No, non poteva quella signora essere una spia, una di quelle spie di cui si raccontava la sera sotto le tende. Era solamente un’alpinista solitaria. Piuttosto formosa. Aveva il sacco in spalla, una corda, la piccozza: un’alpinista malinconica che, forse, voleva essere amata per una volta da un giovane alpino. Ma poi ricordò l’ordine che gli era stato dato, e la fiducia del capitano: doveva andare al Comando senza fermarsi e consegnare quello zaino «segreto militare» al colonnello. – Mi dispiace, signora, devo proprio raggiungere il treno sennò perdo le coincidenze per il permesso.
– Vai, vai. Addio alpino, – disse la signora quasi con stizza.
Lui riprese la strada, correndo, quasi volesse recuperare i tre minuti di sosta. Ma poi improvvisamente rallentò, come per fermarsi. La signora lo chiamò: – Alpino!
Riprese a camminare svelto. A Courmayeur, tranne il Royal, tutti gli alberghi erano chiusi. Da Verrand scese a Pré-Saint-Didier per il vecchio sentiero e, sempre tenendo lo zaino in spalla, aspettò il treno per Aosta, dove arrivò nel pomeriggio. Al «Castello» consegnò lo zaino all’aiutante maggiore e qui intuí che i segreti militari erano le relazioni che il suo capitano aveva fatto su certi materiali alpinistici che loro avevano usato per la prima volta. Perciò lo zaino era cosí leggero.
L’aiutante maggiore gli disse che per mangiare e dormire era in forza al Comando e che il giorno dopo poteva ripartire con suo comodo. Anzi, per quella sera gli dava il permesso fino alle ventitre, poteva fare una doccia e poi andare al cinema. E cosí fece. Dopo il rancio, con il suo permesso in tasca andò a bere un quartino di vino nell’osteria sotto la Porta Pretoria dove c’erano tanti richiamati dell’artiglieria alpina, anziani immalinconiti e tristi con gli scarponi ancora gialli, nuovi, che cercavano qualcosa in fondo al bicchiere. Uscí e camminò fino in piazza, dove c’è il monumento a Vittorio Emanuele II in posa da cacciatore, e poi andò al cinema dove davano L’assedio dell’Alcazar.
Il giorno successivo, dopo il rancio delle dieci, riprese il treno per Pré-Saint-Didier; rifece il sentiero per Courmayeur e la strada per Notre-Dame-de-la-Guérison. Verso La Visaille sperò di incontrarla ancora; questa volta si sarebbe fermato. Fosse o non fosse stata una spia. Ma la Val Veny restava silenziosa come non mai: non rumore di passi lontani o vicini, non di mandrie sui pascoli dell’Alpe Vieille, o in transito. Anche le pecore che con le corde erano state issate al pascolo del Fauteuil des Allemands non erano piú lassú. Dalla Punta dell’Innominata non scendevano slavine. «Sarebbe bello incontrarla qui, – pensava. – Chissà dove sarà andata quella signora; forse al Royal».
Arrivò all’accampamento quando il sole era già tramontato e sentí il sergente Peron che con voce rauca cantava: «Voici venir la nuit | là-bas dans la campagne | et le soleil s’en fuit | à travers la montagne...» Si presentò al capitano a riferire il compimento dell’ordine e il capitano gli disse di andare nelle cucine a farsi dare il suo rancio. Non ce n’era piú. Il caporale cuciniere gli diede la razione di pane, un pezzo di parmigiano e una fettina di lardo. Stavano preparando il caffè per l’indomani mattina: – Se aspetti un poco sarà pronto, – gli disse.
Le stelle ricomparvero nel cielo tra nubi tirate che minacciavano neve. Dal Combal giungeva il suono di una fisarmonica: era il suo compaesano innamorato che la suonava ogni sera. Il capitano gli aveva detto che la mattina sarebbe dovuto andare con una pattuglia alla Pointe de Léchaud, ma senza passare per il crinale: sarebbe dovuto restare lassú qualche ora, osservare cosa si vedeva al di là e fare rapporto. Invece quella mattina era tutta bianca per la prima neve. Durante la notte il cielo si era completamente coperto, la temperatura alzata. Per questo, sotto le tende, c’era un bel tepore. Ora nevicava, la pattuglia era sospesa e, in mattinata, rientrò anche il plotone del tenente Chabod che era su in alto.
Dopo una settimana furono costretti a scendere piú in basso. Anche i francesi, dall’altra parte, erano ritornati nei quartieri invernali. Poi si spostarono con le tende al Purtud, infine a Dolonne, dove sarebbe venuto in ispezione il principe di Piemonte. Che non venne. Una sera di ottobre, mentre stavano a riscaldarsi attorno al fuoco delle cucine, un alpino della Valmalenco raccontò di aver sentito dell’arresto di una spia: una donna bellissima che dall’Alpe di Pré de Bard stava salendo al Col du Grand Ferret. Nello zaino, diceva, aveva tutti i disegni delle nostre fortificazioni e, ad arrestarla, erano stati i militi della Confinaria. Voleva andare in Svizzera. Un altro disse che non era cosí la storia: che la spia l’avevano presa al Gran San Bernardo, ma era un uomo.
Il caporalmaggiore degli esploratori ascoltava in silenzio: se era un uomo, non era quella che aveva incontrato quel giorno a La Visaille; se era una donna bellissima, nemmeno. Forse erano tutte storie. Forse la spia vera era quella che aveva incontrato lui. Forse non c’erano nemmeno spie. Aveva fatto male a non accettare l’invito di quella signora.
Da Tra due guerre e altre storie, Einaudi, Torino 2000.

La piú alta battaglia

Duecento anni dalla prima ascesa al Monte Bianco: da allora la grande montagna d’Europa è stata scalata da ogni versante, ogni guglia di granito è stata raggiunta, ogni colata di ghiaccio risalita, ogni alta parete violata, ogni cresta percorsa. – Sulle nostre Alpi, – mi dicevano due guide di Gressoney, i fratelli Squinobal, – alpinisticamente, e non solo alpinisticamente, possiamo trovare tutto quello che cerchiamo –. E tra le Alpi il Bianco condensa storie di uomini e di conquiste, contrasti tra scalatori, curiosità di naturalisti, sogni e leggende, ma anche lotta di montanari per strappare all’ambiente ostile un pezzetto di terra coltivabile. (Ricordo che nel 1939 c’era un campo di segale sopra Entrèves, proprio accanto all’ultimo lembo del ghiaccio della Brenva).
Il Monte Bianco era anche rimasto uno dei pochi luoghi dove la guerra non era arrivata; in antico i romani erano passati per i valichi del Piccolo e del Gran San Bernardo e quella grande montagna di granito e di ghiaccio incuteva soggezione anche a guardarla da lontano. I primi abitatori di quelle montagne, i salassi, che tennero in scacco le legioni romane per piú di cento anni, saranno certo transitati per il Col de la Seigne e il Col du Grand Ferret, ma mai la guerra era salita sul massiccio. Ci arrivò, invece, nel 1940 e nel 1943-45: divenne cosí il settore operativo piú alto e di fronte si trovarono, come antichi cavalieri, i piú bravi alpinisti di quel tempo.
Già nel settembre del 1939, reparti della Scuola militare d’alpinismo occuparono bivacchi e rifugi sul versante italiano e pattuglie composte da un paio di cordate ogni tanto si spingevano lungo la cresta di confine; altrettanto facevano i francesi con le Sections éclaireurs skieurs: volontari e abili alpinisti scelti tra i Bataillons chasseurs alpins.
Qualche volta le cordate opposte si incontravano ma l’antagonismo restava alpinistico e spesso si scambiavano doni. Venne istituito il reparto autonomo Monte Bianco con tre distaccamenti o sottosettori; a comandarlo venne designato il capitano Giuseppe Inaudi. Il sottosettore del Miage era guidato dal sottotenente d’artiglieria Giusto Gervasutti, il sottosettore Gigante dal tenente degli alpini Renato Chabod, il sottosettore Ferret dal tenente degli alpini Emanuele Andreis.
Anche i francesi schierarono la compagnia Mer de Glace del battaglione Chasseurs de haute montagne. Quindi, per le bufere dell’inverno, alpini e chasseurs rientrarono a Courmayeur e a Chamonix; ma quando il tempo lo permetteva le cordate salivano al Dente del Gigante, alle Grandes Jorasses, all’Aiguille de Trélatête, al Dolent; dall’una o dall’altra parte. Fino al 10 giugno del 194o, quando un grande, cupo silenzio venne a gravare quella sera sul massiccio del Monte Bianco.
Il tenente Jean Bulle, che comanda un reparto di Éclaireurs skieurs e che già il 1° giugno era salito sull’Aiguille des Glaciers per osservare le posizioni degli italiani, si trova in un ricovero della Seigne; dorme pesantemente dopo giorni e giorni di duro lavoro e viene svegliato da un radiotelegrafista che gli porge un messaggio appena ricevuto: «Il re d’Italia ha dichiarato guerra alla Francia e all’Inghilterra. Le ostilità incominceranno a mezzanotte». È la «pugnalata ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. «Dare la voce a chi non poteva piú parlare» di Folco Portinari
  5. I racconti di guerra
  6. Prima guerra mondiale
  7. Seconda guerra mondiale
  8. La prigionia
  9. La Resistenza
  10. Indice