Sangue dal cielo
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Sangue dal cielo

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sangue dal cielo

Informazioni su questo libro

Nuoro, fine Ottocento. Filippo Tanchis è il piú giovane di tre fratelli orfani, cresciuti con le zie materne. Finito in carcere con l'accusa di aver ucciso Bobore Solinas, individuo piuttosto ambiguo, Filippo si toglie la vita. Ma si tratta veramente di suicidio?
Dopo l'indagine in Sempre caro ritroviamo l'avvocato e poe-ta Bustianu Satta, al secolo Sebastiano Satta (1867-1914), impegnato in un caso difficile quanto misterioso, che lo porterà a confrontarsi con se stesso, le sue debolezze e le sue certezze. A fare da sfondo al romanzo una pioggia incessante, fin quando, come scrive nella sua prefazione Vásquez Montalbán «l'epilogo schiarisce l'orizzonte e il colore azzurro del cielo chiude il chiaroscuro di un'indagine che ha danneggiato soprattutto la pace dello stesso personaggio».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806195793
eBook ISBN
9788858401804

Sangue dal cielo

A Luigi Arru
Pioveva a puàles.
Getti possenti d’acqua ostinata andavano a schiantarsi contro la crosta granitica ammuffita di cespugli grassi.
Il cielo aveva posizionato l’artiglieria pesante al gran completo: obici e mortai. Acqua esplodeva in saette d’acciaio battendo sulle superfici grigiorosate delle rocce, deflagrando in una raggiera vaporosa di spilli acutissimi.
Al quarto giorno, le montagne, le vallate, i colli che circondano sa bidda erano diventati una spugna incapace di assorbimento, rigurgitanti acqua inaccettabile. E la terra intorno cominciava a dire che ne aveva abbastanza, come se ogni giorno ne valesse dieci e fossimo arrivati al quarantesimo del Diluvio, quando, per quel pezzo di pane di Noè e per i suoi figli, fu chiaro che l’acqua aveva portato ancora acqua e che il cielo, diventato una brocca immensa, aveva versato pesanti biglie di vetro contro il seccúme dei fieni, contro le terre seminate, contro le schiene lanute dei bestiami, contro i tetti di canna e le tegole, contro le crepe dei dirupi, contro il malanimo e l’invidia e l’avidità e la lussuria eccetera; ma era altrettanto chiaro, una colomba col ramoscello d’ulivo nel becco l’aveva dimostrato senza ombra di dubbio che tutto era finito, proprio in quel quarantesimo giorno. Perlomeno si era fissato un termine, insomma.
Comunque, in quel novembre del 1899, che fossimo arrivati al quarantesimo o quarto giorno de abba, il cielo di Barbagia di smettere di ghettare non ne voleva sapere.
Per questo le fonti, congestionate, dalle alture precipitavano verso l’altopiano e spurgavano in direzione dell’abitato, con sifonate di acqua untuosa, di rícino limpidissimo, che si ingegnava a rivestire di una patina lucente i selciati e faceva gorgogliare i tratturi sterrati di torrenti torbidi e ribollosi.
Núoro annaspava, ingoiando a stento.
Acqua obliqua di linee maestrali, scendeva da San Pietro, si incanalava nei viottoli poco meno che selvatici che portavano al Ponte di Ferro, riducendo, nel tragitto in discesa, via Majore in una fiumana trasparente.
Acqua che grattava via le sporcizie della lunghissima siccità appena trascorsa incistate fra i mattoni e le pietre a vista; acqua che impregnava gli intonaci come secchiate di tinta sempre piú scura: tono su tono; che obbligava a ingollare, fino al soffocamento, le rare grondaie metalliche facendole lamentare come bidoni di lamiera in cui venisse agitata della ghiaia.
Acqua, e acqua ancora, radente e sghimbescia, che trasformava i piani pavimentati in aree scivolose e i vicoli in fluttuanti rivi melmosi.
Acqua, e acqua, e acqua ancora, che colmava la scodella di Seuna come una madre che versasse il latte del mattino al figlio: abbondante, fino all’orlo.
Per tutta l’estate boschi e garighe erano stati un’immensa segheria di cicale in amore, poi c’era stato un ottobre silenzioso che fischiava di grecale agli oliveti. E ora, in bocca a un novembre ghignante, il frastuono della pioggia, come quello dell’intera schiera dei dannati che battessero i denti in attesa del Giudizio.
E che frastuono! Da non sentirsi. Con i tetti che rispedivano il tra tra tra negli androni e i cortili che si colmavano per gli scarichi ingorgati. E laghi artificiali di buche mai appianate. E puzzo di fumo, di cane morto, di orbaci intrise. Che la traspirazione aromatica del suolo aveva cessato di profumare l’aria già dal secondo giorno di pioggia e ora pareva che si ostinasse a facilitare una putrefazione di bestiamene annegato, di carne bagnata e verdura mucillaginosa come alga di mare.
La strada verso casa era un vicolo scivoloso di pietre di fiume lucenti. Un immenso cimitero di tartarughe dai carapaci che sotto al violaceo delle nubi temporalesche viravano al rosso cupo. Quasi interiora, come reni di bue incastrati nella terra battuta.
Le tomaie ingrassate delle mie scarpe facevano del loro meglio per respingere gli attacchi delle raffiche e le suole ferrate rendevano i miei passi quelli di un vecchio cavallo mansueto che sogna la scuderia o, almeno, una tettoia.
Raimonda stava davanti alla porta socchiusa per vedermi arrivare.
– Bustià, c’hai gente, – mi sussurrò mentre mi aiutava a togliermi l’incerata che aveva fatto parte, secoli prima, del mio equipaggiamento militare.
– Chi è? – chiesi senza parlare spingendo il muso in avanti e agitando la mano destra.
Mia madre si appiliconò per arrivarmi a pochi millimetri dall’orecchio. – Franceschina Pattusi, – disse. – Dice che lo sapevi che doveva venire... Quella gente in casa mia... – Sospirò.
– Eh sí che lo sapevo, l’ha mandata Pascale Dessanai, ma me ne ero dimenticato. Sta aspettando da molto?
Raimonda alzò le spalle. – Dieci minuti, – disse.
– Sono bagnato fino alle ossa. Dille che aspetti il tempo di cambiarmi.
La donna era sui quarant’anni, secca come una radica. Leza di una bruttezza dignitosa. Nel vedermi entrare in studio si alzò in piedi e, prima che potessi dire qualunque cosa, mi porse un foglio piegato in quattro che teneva stretto in mano. Mi sedetti alla scrivania per aprirlo con molta calma. La invitai a sedersi lei pure; mi ubbidí guadagnando la punta della sedia di fronte a me.
Lessi speditamente. – È la notifica di una sentenza, – spiegai. – Siete stata ritenuta colpevole di complicità nel tentativo di evasione di Tanchis Filippo, in attesa di condanna eccetera eccetera, il resto lo sapete. Vi hanno messa a piede libero perché non avete precedenti e hanno creduto alla buona fede...
– Condannata? – chiese la donna interrompendomi.
– Eh, avete cercato di far arrivare al Tanchis oggetti impropri, non è cosí? Fate mente locale: cosa vi hanno trovato nella cesta che avete portato in carcere?
La donna guardò Bustianu con l’aria di chi dovesse rispondere a una domanda da cui dipendesse il destino del mondo. – Petta, pane, casu, duos arantzos... Per mangiare qualcosa mischíno, s’abbocà, che se aspettiamo a quello che gli danno in carcere...
– Carne, pane, formaggio, due arance... Sicura? Nient’altro?
La donna scosse la testa come se si fosse sforzata abbastanza.
– Tzia mé! – sbottò Bustianu. – Intanto senza il permesso voi da mangiare in carcere non ne potete portare. In secondo luogo, qui è nero su bianco, – dissi puntando con l’indice la notifica. – C’era anche un coltello nella cesta!
La donna scosse le spalle, quasi le scappava da ridere. – Ohi che coltello s’abbocà, una leppa minoredda da bambini che faceva tenerezza a guardarla... Per tagliarsi il formaggio. Cosa faceva? Se lo mangiava a morsi?
– Ma quando vi hanno chiesto cosa c’era voi dovevate dirlo, benedetta donna!
– A me mi hanno chiesto del mangiare, a me di coltelli non mi ha chiesto niente nessuno! Che cosa ne so io di queste cose?
– Vabbé, comunque la prossima volta se volete portare qualcosa da mangiare a vostro figlio, vi conviene evitare di fare malinnidades, che tanto avete visto che controllano.
– Controllano, controllano, a chi gli pare a loro controllano...
– Eh, voi ringraziate soltanto che hanno creduto alla buona fede e per questa volta ve la cavate con un’ammenda, ma la prossima volta non ci sono scuse e non venite da me a lamentarvi.
La donna prese tempo ad allisciarsi la franda, poi mi guardò dritto negli occhi. – Una... itte? – chiese sospettosa.
– Un’ammenda, – ripetei con uno sbuffo. – Una contravvenzione, una multa... Dinare tzia mé! – mi arresi. – Cinque lire di ammenda!
– Chimbe francos... – bisbigliò lei a se stessa.
– Proprio cosí e ve la cavate con poco, che meno male che il maresciallo Poli è una persona comprensiva...
– Mí che noi la Zustissia non sapevamo nemmeno cos’era, s’abbocà! Cosa vi state credendo: che eravamo tutti i giorni in carcere o in tribunale o appresso agli avvocati? Se Filippo è finito alla Rotonda è solo perché c’è stato errore di persona, che giovane piú onesto di lui non ce n’è, e non lo dico per cosa: che non mi è nemmeno figlio. Chiedete a chiunque se ha mai avuto da ridire su Filippo Tanchis, chiedete!
– Tzia mé è per questo che ve la cavate con poco, che se c’era il sospetto di qualcosa di brutto voi e vostro...
– Nepode, s’abbocà! Figlio della sorella buonanima... Poveritta, aitte in sa bida?
– Eh, baciatevi l’Immagine, ché, se c’era il sospetto di un tentativo di farlo evadere per davvero, stanotte dormivate sotto lo stesso tetto, voi e vostro nipote! Pagate e andate tranquilla che se vostro nipote non ha fatto niente in quattro e quattr’otto è fuori dal carcere.
– E ora che cosa devo fare? – domandò la donna senza alzarsi.
– Dovete andare a casa e lasciar fare a chi è preposto...
– Allora stiamo freschi, s’abbocà: qui non c’è prevosto, né canonico...
– Preposto, tzia mea, «pre-po-sto»! Chi ha parlato di preti: la Forza Pubblica, il giudice... cumpresu?
– Eh, stiamo freschi due volte allora... Per noi «prepo-sti» non ce ne sono, che siamo povera gente... Quando si è ammalato il marito di mia sorella, che dopo che è morto non è durata piú di tre mesi, chin sas animas... Eh, quando si è ammalato il padre di Filippo, dice che dovevamo lasciar fare ai dottori... E abbiamo lasciato fare: salassi e corfu ’e balla, che di piú non facevano, di soldi ce n’erano pochi e bisognava accontentarsi... cosí al posto di migliorare era peggiorato: come uno scheletro si era ridotto... E allora il dottorume, s’abbocà, che cosa ha detto?... Ha detto che non c’era piú niente da fare, che c’aveva quel Male, che dovevamo solo aspettare che morisse: come se non lo sapevamo da subito! E quella martire di mia sorella, che nella vita sua non ha goduto mai, non si spostava dal letto dove era coricato il marito, o quello che era rimasto, e ogni volta che lo sentiva respirare era come una fitta che aveva nel cuore «muori... muori tesoro mio... muori... animedda... muori deddé...»: lo pregava in questo modo. Che alla vita siamo attaccati come a una corda, e allora lei gli stava dicendo di lasciarsi andare... Mio dio! Non è che lo voleva morto, ma voleva che finisse quella sofferenza... Tanto non ha tardato a seguirlo: tre mesi, s’abbocà... cosí mi sono rimasti tre figli, che per me i figli di mia sorella sono figli miei, tre bravi figli, s’abbocà, e ho fatto come ho potuto, che non mi sono sposata mai... E allora?
– E allora?
– Gliela fate Voi la difesa a Filippo?
– Ma che cosa state dicendo? A me risulta che vostro... nipote sia già rappresentato...
– Eh, rappresentato, s’abbocà... Ho parlato con Pascale Dessanai, lo conoscete...
– Sí che lo conosco, il cancelliere del tribunale.
– Esattamente, siamo parenti da parte di madre. Sua madre è la cugina prima di mia madre buonanima. Lui me l’ha detto...
– Lui vi ha detto cosa?
– Che se non lo tirate fuori Voi a Filippo, non lo tira fuori nessuno.
– Se me lo dicevate da subito che erano queste le intenzioni, non perdevamo tempo: chi è l’avvocato di vostro nipote?
– S’abbocau Marongiu.
– Eh, allora? Che cosa volete di piú?
– A Voi vogliamo, s’abbocà... fanno quasi tre mesi che Filippo è rinchiuso in carcere e finora non abbiamo visto risultati... Petzi dinare e papiros...
– E tando? Itte bos credies chi deo potta fachere de prusu? Giovannino Marongiu est unu abbocau con i fiocchi.
– Eja s’abbocà, ma non è come Voi. Che lo sanno tutti che Voi al povero in galera non lo lasciate.
– Non potto. Abberu so nande. C’ho troppe cause da seguire in questo momento e a tutti non si può dire di sí.
Mi capitava di sognare di svegliarmi in piena notte.
E, nel sogno, desiderare d’alzarmi.
Ché il letto si era fatto una tuppa spinosa.
Desiderare di alzarmi. E farlo, avvolto dal buio: una pece melmosa che si appoggiava sui mobili della mia stanza, ed era morbida e docile al passaggio del mio corpo.
Buio dappertutto, nel mio sogno, anche sul mio copriletto tessuto di lana chiara.
Da bambino, prima di chiudere gli occhi, spesso mi ero chiesto quante pecore era stato necessario tosare per fare quel copriletto. Mi chiedevo se fosse stato necessario spogliare due, tre, quattro bestie per il mio calore, o un gregge intero.
cosí sognavo di alzarmi, presagendo le cose senza vederle; tentando di perforare con gli occhi spalancati quel nulla perfetto.
Le ombre, piú dense dell’oscurità circostante, stavano dove erano sempre state.
Jaju Gungui in piedi, piccolo e secco come il tronco di ginepro spellato e allisciato, con i monconi stondati che servivano per appenderci le zucche seccate; o per infilarci i colli delle bottiglie a scolare; o per impiccarci le taschedde e le doppiette.
Bisaju Gungui stava pure lui in piedi, con i capelli bianchi, lunghi sulle spalle, la barba quadrata dal mento al petto e la cartucciera attorno alla vita. Con quel viso di pietra sbugnata a scalpello e le labbra immerse nella rafia biancogiallastra dei baffoni. Che in altezza non era eccellente nemmeno lui, bisaju, ma aveva superato cose che neanche un gigante avrebbe affrontato. Ed era sopravvissuto a un fulmine che gli aveva trapassato il corpo dalla rosa dei capelli agli alluci. E questo fatto, del fulmine intendo, si era risolto con un fumo denso e acre che gli si era sprigionato dagli abiti e le punte dei capelli uscrate. cosí se capitava che gli dicessero: – Bantò, unu raju chi ti fálete! – lui si limitava a rispondere: – Duos chi tinde fálene, ca deo appo già dau!
Fin da piccolo, fin da quando mi posso ricordare, era sempre bisaju a parlare per primo. Una questione di età e di rispetto: lui era nato nel vecchio secolo, nel Settecento luminoso.
– E tando? – chiedeva parlando senza aprire la bocca. Io alzavo le spalle: lo facevo da bambino e lo faccio anche ora che sono un uomo fatto. E allora che? Voleva dire quell’alzata di spalle: al solito: ho sete, ho fame, non riesco a dormire: tutto questo voleva dire. – Deo bene, e bois? – mi limitavo a rispondere e chiedere a mia volta.
Bisaju sorrideva, aveva solo gli incisivi in bocca. – Bene bene non minde paret, – mi prendeva in giro con la vocetta scettica.
Era vero: non è che andasse proprio bene. Stavo lavorando troppo in quel periodo.
– Lassael’istare! – interveniva jaju Gungui rivolgendosi al padre. Mio nonno è sempre stato uno duro con i figli e tenero, troppo tenero, diceva mia madre, con i nipoti, che erano carne della carne, sangue del sangue, la vita che continuava, il nome che si tramandava, un ramo verde e solido che germogliava nell’albero della famiglia eccetera eccetera.
E lui, mio nonno, era proprio come me lo ricordavo, come l’avevo visto da bambino, vestito come a sa ria, pronto da attittare, lavato con la soda, che la sua pelle non sembrava nemmeno morta.
Nonno e bisnonno paterni non si facevano vedere, non si erano mai fatti vedere: assenti. Per via di mia madre credo, che aveva sempre mantenuto una certa distanza dai parenti del marito, che poi era mio padre. Nuora gentile, per carità, fin troppo attenta, ma si sa: quando un uomo esce da casa sposato, la famiglia della sposa guadagna un figlio e la famiglia dello sposo ne perde uno.
Era stata la pioggia che mi aveva fatto sognare di svegliarmi e alzarmi per uscire a tentoni dalla mia camera e andare giú, in cucina a bere.
Il primo gradino scricchiolava. E lí, nel mio sogno, stava seduto mio padre: – Troppo presto me ne sono andato, che per poco non riuscivo a vederti camminare sulle gambe, – diceva, poi abbassava la testa e sollevava le spalle. – Ma sono contento lo stesso, non c’è cosa di cui possa rimproverarmi e grazziaddio non vi manca niente a te e a tuo fratello e a tua madre.
– Niente, non ci manca niente, ma è vero che ve ne siete andato troppo presto... – E la gola mi si bloccava.
cosí mi sedevo in quel gradino con lui anche se non sapevo co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. «Natura e delitto» di Manuel Vásquez Montalbán
  5. Sangue dal cielo