Parte seconda
1. Risveglio
Polvere. Si insinua tra le pieghe del corpo come uno sciame di formiche nei solchi di un campo. Strofino il viso, rabbrividisco al contatto della terra umida. Giaccio supino con gli occhi spalancati su una volta buia, punteggiata da fiammelle che accentuano l’oscurità circostante. Mi appoggio su un gomito per sollevarmi; una fitta mi blocca. Stringo fra le dita una pietra liscia e oblunga, rassicurato dalla familiarità del contatto. Faccio forza sulle mani e mi ritrovo seduto su un pendio verso valle, in un silenzio sovrumano. Una folata sferza il viso. Inspiro con voluttà la frescura che infonde nelle membra una carica di energia. Tendo le braccia, le incrocio sul petto comprimendo le spalle per proteggermi dal freddo, lascio scivolare le mani lungo il tronco, sul ventre, fra le cosce. Il calore della pelle sotto le dita non suscita piacere ma estraneità . Dopo aver ripetuto il gesto, recupero possesso del corpo, sgomento per la sua nudità .
Il fisico, tonificato, reclama azione, ma il cervello stenta a reagire. Dalla nebbia che lo avvolge filtrano soltanto segnali di paura. Comincio a salire in cerca di rifugio sulla sommità del pendio. Procedo piegato in due per frugare il terreno. Il tatto svela contorni elementari della natura: ciuffi d’erba, sterpi, ciottoli, radici. Urto contro una protuberanza, raddrizzo la testa fra nodi di un tronco e rami protesi come scheletri imploranti.
page_no="113" Mi affanno a riflettere. I pensieri luccicano un istante prima di disperdersi come faville nella notte. Non ricordo come e perché sono finito sulle pendici di un monte. I depositi della memoria sono frantumati. Appoggiato al tronco, inseguo schegge impazzite di visi e luoghi.
Mi aggrappo a un barlume di certezza.
«Robert Zardi! Sono Robert Zardi!»
L’angoscia di essere nudo prende il sopravvento sull’oppressione delle tenebre intorno al corpo e alla mente. Rovisto per coprirmi di fronde. Foglie e frammenti di legno sgusciano tra le dita.
– Sono Robert Zardi, Robert Zardi…
La voce si spezza in uno scroscio di pianto.
Scorgo un chiarore sospeso nella notte. Forse è la proiezione del bisogno di luce, o il velo di lacrime. Eppure percepisco consistenza nel barlume che digrada e si spegne a valle. In cerca di un punto di riferimento, ridiscendo verso l’albero, mi stringo al tronco. Il calore del legno attutisce la ruvidezza della scorza. Mi lascio cadere, lo circondo con cosce e braccia, vi appoggio il capo. Colpi di maglio battono le tempie, scintille si scatenano nella testa, perdo i sensi.
Un sospiro mi scuote. Il dolore è scomparso, i muscoli si tendono con vigore. Sono rimasto abbarbicato al tronco che mi ha impedito di rotolare per il pendio. Ne distinguo con precisione la taglia e il contrasto fra l’opacità del legno e la lucentezza delle foglie: un chiarore si è levato dietro il monte, respinge l’oscurità in basso.
A valle si è addensato il riflesso bianco, con i contorni piú nitidi per effetto della luce che prevale sul buio. Un buio non ancora del tutto vinto quando le immagini acquistano spessore. La mente, con un istante di anticipo sugli occhi, ricompone la visione che sorge dalla notte: colonne, palazzi sulla sommità di un colle, edifici squadrati lungo le pendici fino a una cerchia scura. Vago nei meandri della memoria alla ricerca di punti di riferimento, di confronti.
– Città !
Appena la parola sale alle labbra, il cervello si accende di bagliori che guizzano tra masse opache e si intersecano con ritmo convulso. Al movimento si sovrappone un fragore in cui si fondono squilli, voci. Non riesco a dipanare il groviglio di luci e suoni e operare un collegamento con il silenzio e le costruzioni sul colle.
Cerco invano un nascondiglio tra cespugli e sterpi. Devo riflettere e coprirmi. Tremando all’idea di essere scoperto nudo, riprendo la salita per rifugiarmi sul versante opposto, fuori dalla vista della città immersa in una quiete minacciosa.
Il sole! La sfera pallida ha fatto capolino dalla cima, intiepidisce il terreno. Spine e ciottoli mi feriscono i piedi, il pendio si fa piú ripido.
Schiocchi di sterpi, tonfi di sassi sospinti a valle rompono il silenzio al mio passaggio. Monta un brontolio. Rifiuto di ascoltarlo, mi inerpico verso la cima che si fa beffa della mia fatica mutando posizione a ogni passo: talvolta appare a portata di braccio, subito dopo si erge distante.
La parte finale è troppo ripida per affrontarla col fiato mozzo. Cerco un sentiero per aggirare la sommità , atterrito dal rimbombo. Lottando con il pendio, non mi sono accorto che il rumore trasportato dal vento è divenuto frastuono. Riprendo l’ascesa, ma le gambe mi tradiscono. Finisco a terra, striscio fra le rocce con gomiti e ginocchia in fiamme.
Mi tiro su contemplando le scalfitture. La vetta agognata è divenuta un insignificante mucchio di rocce e di arbusti. Esito a guardare a valle, mi concentro a decifrare le urla. Il clamore si frange in scrosci di giubilo.
Curiosità e paura si contendono ogni fibra, prostrandomi piú delle escoriazioni e della fatica. Intuisco che il mio destino è legato a un moto impercettibile. Basta uno sguardo indietro a rendere inevitabile il confronto con la misteriosa città pulsante di energia. Provo a valutare i rischi, ponderare le scelte, senza trovare appigli.
Il bisogno di riempire la memoria di immagini e sensazioni prende il sopravvento. Ruoto il busto e mi abbaglia lo splendore della città in pieno sole. Il riverbero dei palazzi in alto offusca il brulichio di gente. Le mura si snodano intorno, prima di venire inghiottite dall’avvallamento ai piedi della montagna.
Senza avvedermene sdrucciolo per l’attrazione di una forza arcana. Assecondo il movimento lasciandomi trascinare dalla discesa, insensibile a pruni e sassi. Il pendio si attenua. Supero l’alberello che mi aveva offerto rifugio, avverto umidità sotto le piante dei piedi, che risveglia la sete.
Ansimo alla ricerca d’acqua. La lingua rinsecchita stenta a insinuarsi tra il gonfiore delle labbra. I blocchi delle mura troncano la vista del colle. Soltanto un lembo di costa e un sentiero incassato mi separano dalla città .
Mi getto dietro un cespuglio, angosciato per la nudità del corpo e della mente. Spezzo rami, li intreccio intorno ai fianchi, vi inserisco foglie ammucchiate alla rinfusa. Il precario indumento, sostenuto dalle cosce piegate, aderisce al corpo. Rannicchiato con le ginocchia al petto, tendo l’orecchio al clamore che si affievolisce.
Devo calmarmi. Da quando ho aperto gli occhi, la testa si è inondata di nomi. Notte, volta stellata, memoria, angoscia, alberi, montagna, cima, fatica, caldo, sole, sete, acqua. E ancora: palazzi, colonne, strade. Città . Non l’ho riconosciuta, ma so che è una città .
Nomi e oggetti seguitano a imprimersi al primo sguardo. I piedi affondano nel terriccio, fra steli che mi solleticano il sedere e animaletti brulicanti su una buca. Formiche, formicolio: sensazione spiacevole delle membra al risveglio. Trascinano un corpo rinsecchito. Morto. Non vive piú. Cadavere di insetto verdastro. Scarabeo. Coleottero. È un oleandro l’albero con i fiori rossi sul sentiero.
Guardo il pendio alle spalle, le mura di fronte, lo scorcio di valle sulla destra. Non mi sfugge un dettaglio, ma non trovo riferimenti, confronti. Un mondo si dischiude dal buio. I ragionamenti scorrono fluidi, si collegano alle immagini, fissano concetti. Il sole si sta alzando. Poi calerà , piomberà la notte: quante volte l’ho visto. Ma dove? Quando? Mura, blocchi di pietra, conglomerato. Uomini, difesa. Distano poco, un paio di centinaia di metri, forse meno.
Soffro. Visioni e pensieri irrompono, mi stordiscono senza colmare il vuoto. Un vuoto piú insondabile dell’asprezza del monte, dei blocchi di pietra, delle urla che mi hanno atterrito, dell’immensità azzurra in alto. Ho ritrovato il mio corpo nel buio, senza ricordare quando si è abbandonato nel sonno, come lo coprivo, dove si muoveva. Le dita scorticate conservano ancora la sensazione di levigatezza della pietra oblunga che stringevo al risveglio. Massaggio le ginocchia dolenti, scruto sesso e genitali afflosciati tra rametti e fogliame. Chi mi ha generato? Padre, madre. Uomo, donna. Quali uomini e donne ho conosciuto? Parole, lingua. Le parole mi riempiono, traboccano. Con chi parlavo? Chi ero prima? Abisso. Nudo. Perché nudo? Nudità , nascita, inizio, bimbo. La testa gira. Vertigine. Anch’io sono un infante, venuto alla luce già adulto, senza passato.
L’aria frizzante, appena intiepidita dal sole, accentua l’angoscioso senso di rinascita. La mia stessa identità è appesa a un nome sfuggito dal petto nella solitudine e nella disperazione. Lo ripeto a mezza bocca per accertarmi che non stia sognando.
– Sono Robert Zardi, Robert…
page_no="117" Eco di grida e risate.
Sobbalzo. L’improvvisata cintura si disfa. Mi appiattisco al suolo, teso a captare la provenienza delle voci. Da una curva del costone sbucano figure in pieno sole.
Uomini. Quattro uomini in cammino. Trattengo il respiro. Una lucertola guizza fra i rametti; struscio sul terriccio scompigliando spirali di formiche. Vorrei sparire, confondermi con queste forme elementari di vita. Temo che rimbombi il fragore del cuore.
Il gruppetto si arresta. Odo parole con chiarezza. Non le comprendo, ma colgo risonanze. Non vi bado, osservo grovigli di chiome, barbe, cuoio, metallo. Soldati in armi.
Mi concentro sui particolari. Altri nomi sgorgano dal buio. Lance, grigiore di mantelli, caschi di cuoio. Quello di un ometto in testa al drappello è ricoperto di strisce bianche: sembrano zanne. Un segno di distinzione. Deve essere un capo. Si ferma appoggiato alla lancia. Sghignazza.
Le voci prendono forma, si caricano di significati.
Un soldato corpulento si lamenta.
– Amaro destino è il nostro, Tersite. Il wanaka è partito per la guerra e ci ha lasciato qui a marcire. Presto i nostri compagni torneranno da Troia carichi di bottino e di donne, e noi…
– Sei uno stolto, Kikemos, – lo interrompe l’ometto con una risata. – Credi che il wanaka stia correndo a Troia ad arraffare oro e schiave per la gioia dei soldati? Ai disgraziati come noi è dato in sorte di penare e combattere, affinché lui e i compagni possano accumulare ricchezze e godere dentro le tende dell’amore di femmine dai seni rigonfi. Ringrazia gli dèi che ti hanno concesso di restare a casa con la moglie, i figli e il vecchio padre. Accontentati dell’abbraccio della tua donna. E prega che il tuo turno non venga troppo presto.
– E tu dici…
page_no="118" – Certo. La guerra divorerà il fiore della gioventú achea. I Troiani non lottano per brama di conquista, ma per difendere le spose, i figli, la città ben costruita. Poco fa hai visto le schiere del wanaka che partivano in mezzo al popolo in festa. Ben presto altri uomini verranno chiamati a raggiungerle per placare l’insaziabile sete di sangue di Ares, il dio della strage. Se sfuggiranno alla morte, torneranno a mani vuote, col ricordo delle gelide notti sulle spiagge ventose di Troia.
Il gruppo si rimette in marcia.
Rimango in ascolto, il fiato sospeso, finché il rumore dei passi non svanisce dietro un costone. Stupisco di aver compreso la loro lingua.
Uniche certezze sono il terrore e la sete. Sguscio dal cespuglio, mi affretto nella direzione opposta a quella dei soldati.
Un grido prorompe alle mie spalle.
Scappo. Una lancia sorvola la testa, rimbalza al suolo. Barcollo, cado faccia a terra. Concitazione di passi. Un calzare mi percuote i fianchi costringendomi a girarmi. Non provo dolore, neppure paura del gigante con la lancia levata. Sgrano gli occhi per destarmi dall’incubo.
– Fermo, Kikemos!
Una mano sbucata dal nulla gli afferra il braccio. Attraverso un velo sanguigno distinguo la figura chinarsi.
– Lascia che lo uccida, Tersite, – stride l’altro. – È una spia.
Due occhi pungenti mi passano da parte a parte.
– Alzati.
Rimango immobile.
– Deve morire! – grida il soldato con la lancia.
– No. L’uomo è nudo, ferito. Dimmi il tuo nome, straniero, e perché stai fuggendo.
La lingua rimane incollata al palato.
page_no="119" – Acqua… – ansimo.
L’uomo chiamato Tersite slaccia dalla cintura una sacca di cuoio, l’accosta alle mie labbra.
– Bevi piano, – dice con calma, – hai la bocca spaccata.
Spingo le mani sopra le sue, per trangugiare piú avidamente.
– Basta per ora –. Tersite allontana la sacca e mi afferra il polso. – Alzati, – ripete, tirandomi a sé.
Mi sollevo, svuotato. Copro il basso ventre con le mani, guardando le ombre intorno.
– Kikemos ha ragione. È una spia, oppure uno schiavo, – grugnisce un altro.
Tersite si sfila il mantello.
– Copriti, – esclama, avvolgendomelo sulle spalle.
Mi contraggo come in un guscio dentro il ruvido panno.
– Non ha le fattezze di uno schiavo, – aggiunge. – Lo condurrò a casa mia: quando si sarà ripreso parlerà . Proseguite il giro.
I soldati si allontanano mugugnando.
Tersite sfila l’elmo, scoprendo una strana testa a punta e sopracciglia unite. Deterge il sudore, stropiccia le gote cosparse di peluria. Si volta di scatto per raccogliere la lancia. Il mio moto di paura gli strappa un sorriso di denti anneriti.
– Non ti ho voluto colpire, prima, soltanto fermare. Sii grato agli dèi perché sono stato piú veloce di Kikemos.
Il calore dell’ometto scioglie il groppo serrato in gola dal risveglio. Ho ancora la morte impressa negli occhi, soprattutto mi sconvolgono l’assurdità e la terrificante concretezza del mio stato. L’urlo «Da dove vengo?» si blocca nella strozza, scatena la disperazione. Singhiozzo con la testa fra le mani.
Tersite rimane immobile finché mi calmo; si rimette l’elmo con noncuranza.
– Andiamo, – mormora, prendendomi il braccio.
page_no="120" Mi aggrappo al suo e scendiamo il sentiero che porta all’avvallamento. Non ha fretta di interrogarmi. Procede in silenzio con passo claudicante, costeggiando le mura.
Non odo piú un frastuono uniforme, bensà grida, latrati, cigolio di oggetti smossi. I bastioni piegano verso sinistra, acquistano imponenza. Il sentiero si allarga, sfocia in una spianata delimitata dalle mura, ingombra di costruzioni.
Mi lascio trascinare in mezzo a una moltitudine che si sparpaglia sul versante opposto alle mura. Volti segnati scorrono come in sogno. Bambini seminudi si inseguono strillando. Resisto al flusso. L’ometto allenta la pressione sul braccio senza scomporsi.
– Il wanaka è appena partito, la gente torna al lavoro. Vieni. La mia casa è piú in basso: da là potrai vedere l’esercito in marcia.
L’attenzione si è spostata dalla folla alle mura che formano due protuberanze: nel fondo, incassata fra pilastri di pietra, si apre una possente porta di bronzo. Stupore e angoscia prorompono.
– La testa dei leoni!
In effetti due leoni di pietra, scolpiti sopra la Porta, mi spiano con occhi scintillanti.
Tersite mi fissa meravigliato.
– I leoni… – la parola mi sfugge di nuovo, stavolta nella sua lingua.
– Devi venire da molto lontano, straniero, se non conosci i leoni della stirpe di Atreo, i signori di questa città .
Non riesco a staccare lo sguardo dalla Porta.
– Hai gridato in una lingua sconosciuta, – prosegue Tersite. – Da dove vieni? Il tuo nome?
Cresce l’oppressione.
– Robert Zardi, – biascico.
– Xanthos, – annuisce dopo avere scrutato la mia testa.
page_no="121" Lo guardo inebetito. Lui alza le spalle e mi prende di nuovo sottobraccio.
Ci allontaniamo dalle mura; di tanto in tanto gli sento ripetere a mezza bocca quel nome. Dall’estremità dello spiazzo scruto bagliori a valle. Scaturiscono dalle armi quei riflessi scintillanti; recupero immagini di soldati in movimento che ho la sensazione di avere già visto. Piú in fondo, oltre l’azzurro dei monti, si protende una lastra luminosa.
– L’esercito del wanaka che muove verso il mare! – esclama Tersite puntando il dito.
– Agamennone… Armatura d’oro e smalto… Gorgone… – balbetto.
Tersite mi molla di colpo il braccio, si piazza di fronte.
– Dove hai visto le armi preziose del wanaka? Chi te le ha mostrate?
– Non so… Non so nulla… Forse ho sognato.
– Un dio ti ha rubato la memoria, – proferisce solenne.
Lo seguo su un sentiero in discesa, costellato di costruzioni coperte di paglia. Case. Scandisco. Mura, finestre, letti dove dormire. Provo sensazioni che non suscitano ricordi.
Sulle soglie, frotte di donne vestite di stracci confabulano con accenti gutturali. Tersite scambia qualche saluto.
– La mia casa è lÃ, dietro quella di Janos, il mercante d’olio. Ti accolgo come ospite. Potrai riposare e trovare pace.
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2. Tersite
La casa di Tersite è diversa dalle altre: i muri dipinti di stucco sono tirati su dritti; squadrata la porta. Due torce, sostenute da supporti di bronzo, imprimono un tocco di eleganza all’insieme.
Un cane ispido irrompe latrando dall’uscio, inseguito da un grigiore svolazzante che subito si affloscia su fattezze pesanti di d...