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Io, Jean Gabin
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1.
Io, che con Jean Gabin ho imparato ad amare le donne, mi trovo ora con la fotografia di Margaret Thatcher davanti – sul giornale, beninteso, che da buona cittadina postrivoluzione francese compro tutte le mattine –, e comincio a pensare che qualcosa non è andato per il verso giusto in questi ultimi trent’anni di democrazia. Jean Gabin non ne sapeva niente di lady di ferro, donne poliziotte, soldate e culturiste. I suoi occhi azzurri – di Jean intendo – sognavano una donna che fosse come un fiume, un grande fiume languido e vertiginoso che andava a nutrire con le sue acque limpide il mare. Questo ho imparato da lui, e per me la donna è stata sempre il mare. Intendiamoci, non un mare delineato da un’elegante cornice dorata per fanatici del paesaggio, ma il mare segreto di vita, avventura magnifica o disperata, bara e culla, sibilla muta e risposta sicura; spazio immenso in cui misurare il nostro coraggio di individualisti incalliti, ladri al ricco e donatori al povero, tutti d’accordo su una precisa breve frase: «Sempre fuori da tutti i poteri costituiti», soli, ma con l’orgoglio di sapere la rettitudine che soltanto nell’outsider alligna.
Sola, bilanciandomi su passi brevi ed energici sprizzanti coraggio altezzoso, adattavo i miei piccoli piedi alla camminata piena d’autosufficienza virile di Jean Gabin, fissando gli occhi bui della mia casbah di lava e tramutandola istantaneamente nell’intricato nitore della Sua, gli occhi attenti al confidente-spia che sempre, fra i tanti visi sorridenti e fidati, poteva nascondersi o sbucare fuori a ogni cantone piú buio, a ogni basso piú socchiuso degli altri.
Ma l’attenzione continua al pericolo, divenuta ormai per me (da quando andavo al Cinema Mirone) una seconda natura, non mi impedí mai di sognare della mia donna, che un giorno avrei incontrato in circostanze piene di suggestione: lei fragile, schiva, muta e misteriosa, forse un po’ ambigua, certo, ma pura, fondamentalmente pura e celestiale, perseguitata da qualche bruto che la plagiava con miraggi di vite lussuose, città sfavillanti, collane e bracciali di perle, o la ricattava inesorabilmente per una qualche lontana colpa commessa dal padre o dalla madre o dal fratello di lei, senza colpa ma nata per espiare. Questo solo perché la natura-destino l’aveva creata troppo bella, troppo sensibile e perfetta per la ciurmaglia comune che, invidiosa, la voleva possedere e distruggere.
Questo doveva essere il punto, e soddisfatta della mia scoperta acceleravo il passo accennando a un dolce fischiettio. Altro che destino, il diavolo, le madonne! Ecco la colpa della mia donna, essere troppo bella e pura, di conseguenza: monito involontario alla bruttezza e crudeltà meschina della massa. Bastava staccare gli occhi dallo schermo dove lei, bianca e ovattata, soffusa dalla luce-splendore dello sguardo di Jean, si faceva forza per non piangere e fare il nome del suo torturatore (sapendo la potenza di questi, desiderando che Jean non corresse rischi per difenderla); bastava staccare lo sguardo, dicevo, da quegli occhi tristi appena velati di lagrime trattenute e guardarsi intorno nella platea per capire che tutti quei mostriciattoli, femmine e maschi, nascondevano sotto la falsa ammirazione l’odio per la perfezione di quel viso che li umiliava.
Infatti la piccola deforme beghina Concetta aveva osato sussurrare fra una pausa e l’altra della scena alla sua mamma, scema come lei:
– Quella non me la conta giusta, quella cosí lo fa ammazzare, – concludendo: – Non mi piace. È una gatta morta!
Certo, io alla frase dell’occhialuta Concetta, mi ero voltata di scatto, e con uno sguardo di fuoco le avevo sputato in faccia un:
– Zitta, scema! Non ti permettere di disturbare la pellicola! – che l’aveva ammutolita, anche se fremente d’odio vigliacco. E dopo, uscendo, quando madre e figlia mi si erano parate davanti minacciose, con uno spintone mi ero aperta un varco, senza tremare, pronta anzi a lisciarle di brutto. Certo, nessuno poteva in mia presenza ridere o parlar male di lei, ma queste sono bazzecole – non vedo perché ne parlo –, ben altro furore sentivo montare nel mio petto lasciando quelle scimunite (la madre, detta la Cagna, era quasi caduta sotto la mia spinta, la figlia si teneva un braccio stretto stretto) urlanti e furiose, ben altro avrei fatto per proteggere lei, il mio miracolo della natura. Avrei sfidato folle urlanti di Concette, vicoli interi di folla, poliziotti e fascisti, bruti travestiti da signori, pur di avere uno sguardo, una carezza fuggevole, al massimo una notte d’amore in un alberguccio povero ma lindo là in fondo, alla fine dei portici, in quell’angolo remoto dove il porto finiva e cominciava il mare aperto libero insondabile. Per assaporare questa breve notte d’amore forse sarei morta, ma poi si rinasceva ad altre avventure… Dietro la grata sottile appesa in alto sul muro di lava, le grandi fotografie sbiadite dal sole, sbarrate dalla striscia misera del Cinema Mirone già annunciavano: «DA SABATO 21 Il porto delle nebbie».
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2.
Ma Concetta, appoggiata dalla Cagna, sua madre, mi aveva già denunciato. Lo sentii nello spingere la bussola di quel casermone che era la mia casa, il fiuto del pericolo a distanza è prerogativa di noi ribelli, e rallentai il passo poggiando però sempre piú duramente i miei tacchi al suolo per essere sicura di non venire spiazzata da un assalto, uno sparo, un’urlata improvvisa. Davanti al faccione da pallone sgonfiato del commesso, raggrinzito dalle umiliazioni, mi congratulai con me stessa del mio fiuto e non battei ciglio al suo:
– L’avvocato esige la sua presenza nel suo studio, subbito! – Con due bi.
Meditando quanto fosse duro vivere nella casbah dove tutto si sapeva in un battibaleno, sempre con cento occhi addosso che ti spogliavano di ogni privacy e possibilità di avere dei segreti, primo attributo per essere veramente un uomo, attraversai le due immense stanze sempre strapiene di clienti cenciosi ma parati dignitosamente come per apparire a un funerale, ed entrai nello smisurato salone vuoto tappezzato torno torno solo di vetrine affollate di libri splendenti al sole; quei libri sotto vetro erano messi lí ad arte per confondere il povero cliente – l’avevo capito da tempo –, a me, Gabin, non la si faceva!
Ma il salone era lungo, le gambe tremavano un poco e mi fermai un attimo per sognare la metropoli, la sterminata metropoli dove era possibile nascondersi, essere anonimi, avere un segreto… Sarei mai riuscita a sfuggire alla casbah e tornare a Parigi? Anch’io avevo appiccicato un biglietto immaginario del metrò della mia immaginaria Parigi sul muro a calce vicino al guanciale del mio giaciglio, su in alto nella mia stanzetta sotto i tetti vicino al cielo. Bastava voltarsi sul cuscino e fissarlo, quel minuto cartoncino visibile solo a me, per sognare.
«Ma perché, Goliarda, vuoi traslocare dalla tua bella stanza in quella topaia sotto i tetti, non è che una soffitta. Un forno d’estate e d’inverno una ghiacciaia! E poi bisognerà levare tutto quel guazzabuglio».
La voce delicata di mia sorella Licia si opponeva. Sempre lei temeva per la mia salute, anche se con tatto squisito. Quel tatto doveva provenirle – oltre che dall’avere, beata lei, conosciuto la metropoli – dall’alta statura e dalla fronte arcuata e serena (un po’ troppo a bauletto, sussurrava invidiosa sua sorella Musetta), per me regale. Ma io ero stata ferma, non avevo ceduto al suo fascino e da sola – «lo farò da sola il trasloco, non ti preoccupare» – avevo abbandonato – finalmente! – quella stanza piena di stucchi e ninnoli al primo piano (piano nobile), che mi appariva ormai assolutamente ripugnante e borghese per un giovane perseguitato e solo quale ormai ero.
Ma questo era stato prima, ora dovevo affrontare l’avvocato, mio padre, del quale non vale parlare perché tutti lo conoscono qui o giú nella Civita: amato dai poveri e odiato dai fascisti, mio padre, ma da tutti rispettato e temuto.
– Allora, picciridda, com’è che si danno spinte a destra e a manca? Lo sai che la madre di Concetta asserisce di essersi slogata una caviglia? – eccetera, eccetera. E poi: – Perché l’hai fatto?
Io, ditemi voi, se potevo rispondere in altro modo:
– Jean Gabin avrebbe fatto lo stesso.
E lui, fissandomi con occhi di fuoco – ma non c’era da preoccuparsi, mio padre sia che ridesse o fosse arrabbiato aveva sempre uno sguardo di fuoco –, lui, dicevo, mi fa:
– Ah, se l’avrebbe fatto Jean Gabin, non dico niente. Vai ora che ho tanto da fare. Con Concetta ci aggiustiamo.
Era il mio avvocato in quel momento e per un attimo ne fui orgogliosa, ma il dubbio, salendo per le scalucce ripide che portavano alla mia stanzetta, che Jean non avesse mai avuto avvocati a difenderlo mi assalí fortemente. Devo rivedermi tutte le pellicole, pensai, buttandomi nel letto-branda, e mi rivoltai contro il muro per riposare dalle fatiche della giornata e per venire a capo di quel dubbio. Rivedere le pellicole di Jean Gabin: sapevo come fare. Chiudendo gli occhi ripassavo una per una tutte le scene davanti allo schermo della memoria che possedevo fortissima come tutti quelli del resto che si guadagnano il pane e la libertà giorno per giorno. Per essere bandito, ladro, o solo ribelle, bisogna avere soprattutto memoria, altrimenti sei fottuto!
Non chiusi occhio. L’avvocato non doveva assolutamente rappresentarmi perché, come avevo sospettato, Gabin non aveva soldi per permettersi un avvocato del calibro di mio padre. Morivo dal sonno, ma volevo che fosse presto mattino per andare dall’avvocato a diffidarlo dal prendere le mie difese, quando mi ricordai del cartellone del Cinema Mirone… quel Porto delle nebbie non l’avevo ancora visto. Forse in quella pellicola Gabin, esattamente come me, incontrava per caso un uomo d’onore che lo prendeva a ben volere comprendendo l’onestà di fondo del suo essere, o forse anche lui senza saperlo aveva un padre avvocato. Chissà.
Decisi quindi di rimandare la mia decisione e di dormire un po’ in santa pace. Tutto poteva essere con quel Jean Gabin. Quante vite e che esperienze! Altro che mio padre, il professor Jsaya, Carlo… Forse lo zio Alessandro, che aveva – con l’aiuto delle sue sole mani (perché girava sempre disarmato, anche lui era contro la violenza) – ucciso ben cinque fascisti. Cinque, oh! Come era stato? La voce cullante di Ivanoe me lo raccontava mostrandomi la sua fotografia:
«Vedi Goliarda, lui era ingegnere agronomo e stava – al tempo delle squadracce – nelle cantine a controllare il vino quando la nonna, donna dura, severa ma atea e che fu la prima in Italia a educare sua figlia come un uomo… Ricordati che tu sei la quarta generazione di atei (chissà se Gabin era ateo? Ecco un’altra cosa da appurare), lo andò a chiamare ma senza fretta, dicendo solo:
“Alessandro, sopra nell’aia, ci sono quei signori coi manganelli che spaventano i nostri contadini, vai su e vedi di fare qualcosa”.
Alessandro salí all’aria aperta, levò il manganello dalle mani di uno di quei signori e con lo stesso spaccò la testa a lui e ai suoi camerati. Quando Alessandro ebbe finito di dare una lezione a quei signori, la nonna, tenendo col braccio teso la lanterna alta sulla testa per illuminare la scena – nel frattempo era caduta la notte –, gridò ai contadini che in circolo avevano assistito muti e tremanti al combattimento:
“E ora ripulire l’aia di tutta questa porcheria che per vostra viltà Alessandro ha dovuto fare. Forza al lavoro!”»
No, Gabin non spargeva sangue e non aveva nonne, lui; al massimo, afferrando per la collottola qualcuno di veramente infido, lo sbatacchiava nell’aria per impaurirlo e basta. E poi lo zio Alessandro era di un’altra epoca, si vedeva dal giallo degli anni che invadeva il lucido della fotografia, mentre Gabin era di oggi, moderno. Le fotografie semoventi (lo sapeva Goliarda che nondimeno erano fotografie) avevano tutto lo smalto e la nitidezza del momento stesso in cui la vita-azione sboccia, fiorisce, cresce, cresce ancora, muore.
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3.
Avevo appena chiuso gli occhi per dormire che il mattino bussò forte alle mie palpebre richiamandomi al dovere. Con mossa energica m’infilai un maglione sulla camicia del pigiama (quando ero oberata di fatica non mi spogliavo nemmeno, questo lo potevano fare le ragazzette pigre e melense), e buttandomi con mossa altrettanto rapida una sciarpa al collo – le scale e i corridoi di quel casermone erano gelati –, mi precipitai fuori dal mio covo per agire. Nel dubbio, mancavano troppi giorni perché potessi sapere qualcosa della faccenda Porto delle nebbie, dovevo braccare l’avvocato e dirgli che si facesse i fatti suoi senza intralciarmi ulteriormente.
Tina la pazza, la donna di servizio (noi non dicevamo serva come facevano i Bruno), padrona del cucinone, vero antro di banditi dove si poteva ottenere un piatto di spaghetti, due salsicce e il latte, beninteso quando c’era questo bendidio perché in generale o la banda dei miei fratelli si era già pappata tutto, o le provviste non erano state fatte, o non c’era il becco di un quattrino e ognuno doveva arrangiarsi come poteva… Tina, dicevo, con gli occhioni nero seppia sempre terrorizzati – la sua pazzia era causata, sembra, dall’avere ucciso la sorella e il suo fidanzato che se la faceva con la sorella eccetera, eccetera, bazzecole all’ordine del giorno nella nostra casbah –, mi fa, sbattendomi una tazza di caffè e latte sotto il muso:
– Povera picciridda, la signora Maria ti voli parrari, mancia prestu e curri nna so stanza.
Mangia, presto, corri… anche lí disperazione come nero di seppia scorre fra le sillabe cantilenanti. Mah, chi ci capisce niente con le femminucce, pensai mentre ingoiavo il mio latte annegandoci quasi, come sempre quando qualcuno mi comunicava che mia madre Maria voleva conferire con me. Di Maria non mi soffermo a parlare perché anche lei, esattamente come mio padre, è conosciutissima qui nella Civita e io non ho tempo da perdere, lei mi aspetta e deve essere importante se cosí di buon’ora ha deciso di sacrificare il suo tempo con me. Studia sempre.
Davanti alle sue parole mi infurio con me stessa pensando: «È possibile, Iuzza, che tutte le volte ti fai prendere dalla paura, o dall’ansia che sia, quando sai esattamente quello che ti dirà?» Ma poi (sempre mentre lei parla) il ricordo di come anche lui, Gabin, si emoziona quando deve conferire con la donna che ha scelto di amare mi consola un po’. Tutti gli uomini diventano deboli davanti al proprio amore. Anzi, piú sono duri, maschi come lui, piú si sciolgono teneri e silenziosi davanti al viso dell’amata. È questo il guaio, io amo quella donna che con dolcezza certo, ma con una fermezza terrorizzante, mi sta dicendo che sono colpevole. Non solo colpevole verso Concetta, questo sarebbe niente, ma colpevole verso tutta l’umanità povera, ignorante e umiliata, perché io col mio gesto sono passata dalla parte del padrone ricco e seviziatore.
Mi metterei a piangere davanti a questa mia colpevolezza se la sonorità splendente della voce di Maria, la grazia sapiente con la quale infila frasi su frasi fino a comporre un disegno magnifico di forma e contenuto, non mi entusiasmasse a tal punto da desiderare di buttarle le braccia al collo e dirle t’amo.
Ecco la donna che avrei potuto amare! Ecco la donna che Jean non avrebbe potuto non amare se l’avesse incontrata. Ma per me è diverso, è mia madre, e serrando le braccia al torace per non fare gesti incauti mi stringo a me questo amore che non posso esternare e soffro a piene mani come tutti gli uomini degni di questo nome soffrono per un amore a loro negato, e cioè profondamente, perdutamente ma in silenzio.
– Perché taci, cara? Forse non credi che io abbia ragione? Se è cosí dillo: non devi subire nessuno e meno che meno me o tuo padre. Se qualcosa non ti convince ribellati sempre. Non rispondi? O forse stai male con lo stomaco che ti stringi cosí le mani al pancino?
Cosa potevo rispondere a tanta dolcezza e altruismo? A ogni parola, a ogni curva armoniosa della sua voce ella s’ergeva davanti a me e dentro di me nella mia ammirazione, come la vara di sant’Agata in processione (noi eravamo atei, nondimeno tenevamo in gran conto le usanze popolari che hanno radici nel profondo della Storia e che quel pivellino di Cristo aveva solo sfruttato per il suo progetto), sempre piú in alto col suo mantello di cielo tempestato di stelle… su, a raggiungere il cielo nero affocato d’estate, mentre petardi e campane mi squassavano la testa e il petto gridandomi: «È troppo bella e pura per te, non l’avrai mai!»
In poche parole sprofondavo muta nell’ignominioso cinismo e spocchia, passionalità bestiale e indifferenza al grande dolore del mondo, dei Sapienza. Questo era il male di noi Sapienza, levantini libidinosi, protesi solo alla ricerca del nostro io, incalliti individualisti, dalla parola sferzante sempre pronta e dallo stocco a portata di mano per farci valere. Eravamo merda in confronto a lei. Certo lei – odiosa condizione della natura umana, anche della piú celestiale – amava mio padre, con lui mi aveva concepito facendosi sbattere in un letto (ero stata educata modernamente io, e sapevo, non ero una di quelle bestioline oppiate dalla menzogna che pullulano per le strade del mondo, almeno cosí diceva il professor Jsaya). Ma questo non significava niente. Jean l’aveva avvertito che è proprio dell’essere puro, della colomba, essere braccata dal falco.
E se lei non fosse stata mia madre avrei sacrificato la vita per liberarla da questa fascinazione che la teneva inchiodata alla terra impedendole di librarsi nei cieli…
– Vedo che non te la senti di parlare e non insisto. È nel tuo diritto anche non dire niente, se questo ti può servire per venire a capo di qualche tuo problema. Ma abbi pazienza, ho parlato con Peppino… (sentire che nominava il suo amante, il falco mio padre per la leggibilità del testo, mi riportò sulla terra con la velocità del suono che è prerogativa dell’ira, per mettermi in guardia, quartiàrimi – come si dice da noi –, non mi piaceva che parlassero di me, in mia assenza).
– Hai ragione, Goliarda, non è delicato parlare di chiun...