Il libro dei bambini
  1. 700 pagine
  2. Italian
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eBook - ePub

Informazioni su questo libro

È un luogo quasi incantato il Victoria & Albert Museum di Londra, con collezioni straordinariamente ricche. Non a caso Olive Wellwood, affascinante e affermata autrice di libri per l'infanzia, è venuta qui per trarre ispirazione in vista di un nuova storia. E mentre conversa con Prosper Cain, uno dei responsabili del museo, l'attenzione dei loro figli adolescenti Tom e Julian, che stanno perlustrando le infinite gallerie, è attratta dalla misteriosa figura di un ragazzo intento a disegnare alcuni dei preziosi artefatti.
Prende le mosse da questo episodio e da questo luogo carico di memoria, di idee, di creatività, una narrazione che, seguendo le vicende di quattro famiglie e di molti altri personaggi, conduce il lettore dal 1895 alla prima guerra mondiale. Todefright, la accogliente casa nel Kent in cui Olive vive con il marito Humphry e i loro sette figli, è in un certo senso il luogo-simbolo in cui trovano espressione tutte le contraddittorie istanze politiche, sociali e artistiche che attraversano e scuotono l'Inghilterra e l'Europa in quei decenni: anarchici russi discutono con educati esponenti della Società fabiana, burattinai tedeschi indagano l'inquietante mondo romantico, suffragiste rivendicano, affrontando il carcere e talvolta la morte, il diritto di voto per le donne, i bambini possono crescere liberi e al di fuori dei rigidi schemi educativi vittoriani. Anzi, l'infanzia diventa oggetto di intenso fascino che trova riscontro in una straordinaria fioritura di libri per e sui bambini: da Rudyard Kipling a James Matthew Barrie, da Beatrix Potter a Kenneth Grahame ed Edith Nesbit (alla quale Olive Wellwood per molti versi assomiglia). Il tutto in un ambiente intriso di arte, di teatro, di letteratura. Con il passare degli anni tuttavia, l'intonaco inizia a sfaldarsi: i segreti si moltiplicano, vengono alla luce e producono dolorose ferite le reciproche infedeltà, la disinvolta esistenza d'artista rivela tutta la sua crudeltà. Sino a quando la guerra, insieme a tanti fragili idealismi, non spazza via anche la vita di gran parte dei giovani protagonisti. «Un libro meraviglioso, un'eloquente testimonianza sull'insidioso potere dell'arte e del mito».
The Times Literary Supplement

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806199241

Parte seconda

L’età dell’oro

Capitolo decimo

La vecchia latteria aveva una forma adatta al laboratorio di un vasaio. Il forno era in un locale separato, l’antico acquaio; il camino fuoriusciva dal tetto di ardesia. Alle pareti, ripiani di ardesia, sotto i quali c’erano dei cassetti, e vari armadi a muro, oltre a una dispensa, dove un tempo si mettevano a raffreddare il burro e il siero, e ora riposavano le ceramiche per acquistare la durezza cuoio, o in attesa che la vetrina si asciugasse. Le due finestre erano piccole e profondamente incassate nei muri. Sotto una finestra era piazzato un grosso tornio a pedale, sotto l’altra un semplice tornio a mano, con accanto uno sgabello da mungitore e un secchio. Nelle finestre erano incastonati piccoli medaglioni di vetro colorato. Uno mostrava un serpente di mare con criniera e corna su onde color cobalto, e l’altro un veliero bianco che volava sui flutti o stava colando a picco, non si capiva bene. Fissato alla porta, c’era il disegno a colori di un uomo del Rinascimento, a grandezza naturale, in farsetto, calzamaglia e mantello, tutti cremisi scuro, e un floscio berretto di velluto. Stava dritto accanto a una grande urna.
Philip, con estrema cautela, cominciò a mettere ordine. Spazzò le macerie e ammucchiò ordinatamente le parti riutilizzabili del forno esploso. Agiva con tatto: sapeva cosa poteva riordinare, e cosa non doveva toccare senza permesso. C’erano cassetti che contenevano grovigli metallici, usati per fare esperimenti di invetriatura, e li lasciò com’erano. Mise l’argilla nuova nei bidoni, in una specie di deposito per il carbone, indicatogli da Fludd, che all’inizio rimase in piedi sulla porta, immobile, a scrutare ciò che lui faceva. Philip pulí le ruote dei torni, e trovò dei panni per coprire l’impasto semiliquido. Fludd disse: – Bene, potremmo dare un’occhiata al forno. Dobbiamo stare attenti alla malta. L’ultima era troppo grezza. È esplosa qua e là, e ha lasciato dei segni sui vasi –. Philip annuí. Conosceva quelle esplosioni. Azzardò perfino qualche consiglio mentre ricostruivano le aperture e i fori-spia per i coni pirometrici. Salí sul tetto – Fludd reggeva la scala – e riparò il camino, là dove spuntava dalle tegole. Di lassú vide, oltre il cortile, la tozza sagoma di un essiccatoio per il luppolo, di cui ignorava la funzione. Ridiscese e domandò a Fludd che cosa fosse. Era troppo tozzo per essere un forno a bottiglia, disse, anche se in un primo tempo, vedendone altri nella campagna, pensava che lo fossero. Fludd gli parlò della coltivazione, raccolta e fermentazione del luppolo nel Kent. Alimentava il suo forno, disse, con le pertiche usate per sorreggere il luppolo, un combustibile abbondante e facile da trovare. Philip disse che a suo avviso da uno di quegli essiccatoi si sarebbe potuto ricavare un forno dannatamente grosso. Fludd replicò: – Potremmo provarci. Dovresti fare qualche vaso anche tu –. Philip sorrise compiaciuto, e Fludd ricambiò il sorriso.
Nelle settimane che seguirono, i due fabbricarono alcuni vasi, con cautela. Dapprima Philip si limitò al ruolo di apprendista. Lavorava l’argilla, un processo simile all’impastare il pane, finalizzato a eliminare ogni bolla d’aria e ogni goccia d’acqua dalla massa solida. In caso contrario, come Philip sapeva molto bene, una bolla grossa come un uovo d’anatra poteva espandersi, e scoppiare, durante la cottura, causando grandi o piccole esplosioni, capaci di distruggere l’intero carico del forno. L’argilla era perlopiú locale. C’era argilla estratta dalla collina di Rye, di un rosso intenso, e argilla delle paludi, piú sabbiosa. Fludd gli indicò un sacco di argilla rossastra, e commentò con sarcasmo che quella era l’argilla a cui tutti ritorniamo, era stata prelevata al cimitero, che ne possedeva uno strato particolarmente ricco. Guardò Philip per vedere cosa ne pensava, e Philip sorrise di nuovo. Era, disse Fludd, buona argilla resistente.
Fludd faceva arrivare dal Dorset, con il treno, una pallida argilla cremosa che usava per fare la barbottina, o ingobbio, e la miscelava con l’argilla rossa per renderla piú leggera. Philip imparò a pestare e setacciare questa argilla, e a mescolarla con l’acqua. Imparò a far girare le argille tra le lame dell’impastatrice che aveva rimpiazzato la zangola per il burro. Imparò a mescolare le diverse argille e piú tardi a mescolare gli smalti. Come la maggior parte dei vasai, Fludd tendeva a mantenere segrete le sue ricette per entrambe le miscele. Conservava in un cassetto chiuso a chiave dei registri rilegati in cuoio, scritti in un codice basato sulle rune anglosassoni e l’alfabeto greco, che Philip non era in grado di leggere. Non usava i pesi convenzionali, ma aveva le proprie sfere di argilla essiccata, numerate da uno a otto. Philip miscelò le vetrine con lo stagno e il piombo, e ricevette boccali di latte per contrastare il veleno nel piombo. Miscelò antimonio, manganese e cobalto. C’era una sostanza chiamata polvere d’aghi, fatta di limatura di rame, residuo della lavorazione degli aghi, che produceva vetrine verdi.
Venne il giorno in cui Fludd lo invitò a sedersi alla ruota e a modellare un vaso. Centrò per lui il blocco di creta, e Philip ci posò sopra le mani squadrate e umide, e premette nel centro. L’argilla marrone scorreva sulle dita come se anch’esse stessero diventando argilla, liscia e omogenea, o come se fossero argilla che diventava carne con nocche e polpastrelli vivi. Sotto le sue mani la creta si sollevava trasformandosi in un sottile muro cilindrico, sempre piú alto, apparentemente dotata di volontà propria. Roteava con regolarità, rigata dai movimenti delle dita: su, su, poi all’improvviso ebbe un fremito e vacillò, e la forma si dissolse nell’informe. Philip, senza fiato, rise. Anche Fludd rise, e gli mostrò come dare il tocco finale al bordo, come riconoscere la forma a cui l’argilla aspirava. Disse che molti maestri artigiani non modellavano mai un vaso, limitandosi invece alla decorazione. Philip si domandò come potessero rinunciare a sentire l’argilla. Fludd disse che Philip aveva mani da vasaio. Prese il suo posto, e modellò un’alta brocca dal collo di gru, un piatto ampio e profondo, un utile calice, una tozza caraffa con un becco ridicolo. Philip si cimentò in tutte quelle forme, e dopo qualche tempo i suoi successi furono piú numerosi dei fallimenti. Continuava a ridere, tra sé. Fludd sorrideva, benevolo. Il malumore sembrava del tutto superato. Consegnò a Philip uno spesso album, e gli mormorò all’orecchio, mentre arrotondava e lisciava la terra umida, che si considerasse libero di venire a modellare ogni volta che lo desiderava.
Philip non si fidava del tutto della repentina cordialità di Fludd. Non si montava la testa. Aveva notato, senza analizzarla, la perpetua componente di paura, o quantomeno di ansia, che caratterizzava la singolare inerzia dei membri femminili della famiglia. Aveva notato la scontrosa selvatichezza di Geraint, qualsiasi cosa celasse, anche se non avrebbe saputo spiegare ciò che aveva notato. Sembrava che Fludd, anche quand’era di buonumore, non avesse alcun interesse per la conversazione. La famiglia, in marcato contrasto con la combriccola di Todefright, aveva l’abitudine di mangiare pressoché in silenzio, e disperdersi dopo i pasti. In una certa occasione Fludd annunciò che a Philip servivano altri vestiti, in modo che quelli che indossava venissero lavati. Sembrava dare per scontato che la sua richiesta sarebbe stata esaudita. In effetti, qualcuno mise insieme un pacco di vestiti, ma quel qualcuno furono Dobbin e Frank Mallett, che unirono qualche loro indumento ad altri offerti dai parrocchiani, calzettoni e giacca da pescatore, camiciotti da operaio, azzurri e grigi. Un secondo grembiule da lavoro, cosí che si potesse lavare quello di Tom Wellwood. Philip trovò Pomona, seduta sulla gradinata davanti alla casa, che modificava polsini e attaccava bottoni per lui. Protestò. Lei rispose: – Be’, per una volta non ricamo crocus e margherite –. Era una voce di gola, troppo quieta. Philip disse che sapeva cucire, e Pomona disse: – Zitto, lascia che ti misuri questo –. Imogen uscí dalla casa con dei bicchieri di orzata, e disse a Philip: – Se riesci a dargli una mano… in modo che il lavoro vada avanti e si producano… e vendano… delle cose… ti saremo tutti enormemente debitori –. Philip annuí, sperava che, in tempi ragionevolmente brevi, ci sarebbe stato materiale per una cottura di prova.
Fludd e Philip erano taciturni in modi diversi, e per qualche settimana discussero solo le quantità di argilla, o il posto migliore per essiccare un vassoio, o il colore degli smalti, o perché i vasi di Philip non erano riusciti. A Fludd non venne in mente di fare domande sulla vita passata del suo apprendista, o sulla sua famiglia, né Philip offrí alcuna informazione spontaneamente. Neanche lui faceva domande, e solo dopo qualche tempo accennò alla figura nel disegno fissato alla porta. Possibile che l’avesse vista a South Kensington? Fludd confermò. Era un ritratto di Palissy, il grande vasaio francese, dal Valhalla di Kensington nel cortile a sud. Ah sí, disse Philip, ho visto un piatto, con rospi e serpenti, in casa del maggiore Cain. Diceva che era un falso. Fludd disse che il museo aveva fatto un terribile errore, acquistando per migliaia di sterline un’imitazione moderna di un piatto di Palissy, un oggetto che valeva al massimo dieci sterline. Aggiunse che era un errore facile da commettere: i falsi Palissy erano incredibilmente accurati. Gli interessava quel vasaio? Oh sí, disse Philip, che era interessato ai vasi.
Fludd cominciò a raccontargli l’eroica vita di Bernard Palissy. Gliela raccontava a episodi vividi e intensi, con il ritmo del tornio, delle pacche e dei tonfi della creta che veniva impastata, o degli scricchiolii e sciacquii del setaccio. Sembrava quasi un rito di iniziazione: era il racconto esemplare di cosa significa essere un vero lavoratore della creta, un artista compiuto. La voce di Fludd era profonda, e lasciava pause tra le frasi, mentre meditava su ciò che stava dicendo. Anche Philip meditava. Stava imparando.
Imparò che Palissy era stato, come Benedict Fludd, un abitante di paludi saline, un lavoratore manuale che dipingeva ritratti e aveva imparato anche a dipingere su vetro. Era povero e ambizioso, e un giorno qualcuno gli aveva mostrato «una tazza di terracotta fabbricata in Italia, modellata e smaltata con tale grazia» che l’aveva spinto a imparare quel mestiere. «Senza preoccuparmi del fatto che non avevo alcuna conoscenza delle argille, cominciai a cercare gli smalti, come un uomo che brancola nel buio».
Fludd s’interruppe, poi continuò: – Anche a me è successo qualcosa del genere. Non è una scelta ragionevole, tra questa o quell’arte, tra questa o quella vita. Nel mio caso fu un piatto di maiolica italiana, oro e indaco, coperto di arabeschi, e una sorta di ombra nella luce…
E Philip: – Ho visto il suo vaso acqueo a Todefright. Guardo da sempre, naturalmente, sono cresciuto con l’argilla, ma quel vaso l’ho visto.
Era la cosa piú personale che avesse mai detto. Fludd, che stava dipingendo una caraffa con uno stelo di piuma d’oca intinto nel manganese, alzò gli occhi e, vedendo la sua faccia seria e solida, gli rivolse un franco sorriso.
– È una forma di pazzia, – disse. – Palissy era un pazzo, e secondo me sommamente sano, e ti renderai conto, se rimarrai qui, che sono pazzo anch’io. Quando il vento soffia dalla direzione sbagliata, mi spinge dalla parte sbagliata. Per cosí dire. Lo vedrai, ti avverto in anticipo. Una buona brezza dalla direzione giusta, e un po’ di solida terra, m’inducono al perfezionismo.
Raccontò come Palissy, partendo dalla visione di quella tazza unica, avesse ristretto e intensificato la sua ricerca della perfezione mirando a uno smalto bianco puro da applicare alla terracotta. Aveva una moglie, e molti figli, e visse in povertà, per anni e anni, sperimentando su centinaia e centinaia di cocci di ceramica misture di metalli e tinture che aveva imparato a usare su vetro. Poi li portava ai vasai, o ai vetrificatori del posto, per la cottura. E falliva, e falliva ancora. Fludd rise, una risata simile a un latrato, e osservò che con l’argilla il fallimento è piú completo e piú spettacolare che con altre forme artistiche. Sei soggetto agli elementi, disse. Uno qualsiasi dei quattro vecchi elementi, terra, aria, fuoco, acqua, può tradirti e sciogliere, o spaccare, o… ridurre in polvere, ceneri e sbuffi di vapore mesi di lavoro. Devi essere uno scienziato preciso, e devi saper giocare con ciò che il caso farà, nel calore del forno, alle tue superfici amorevolmente create. – È un fuoco purificatore e demoniaco, – disse a Philip, che beveva ogni parola e assentiva con fare grave. – Molto pericoloso, molto semplice, molto elementare…
Palissy aveva abbandonato la sua ricerca, per qualche tempo, e rivolto l’attenzione ad altre cose: la natura del sale, o dei sali, il modo in cui le piante usano i sali, il modo in cui le piante usano il concime, e il modo in cui ciò è connesso ai sali, e alla creazione di paludi salate artificiali «su terre che sono tenaci, viscose, o viscide, come quelle di cui sono fatte le ceramiche, i mattoni e le piastrelle».
Amava la terra, disse Benedict Fludd. Lavorava con la terra e l’amava. Si sporcava le mani, e migliorava la sua mente.
Un altro giorno, raccontò l’eroica storia della scoperta dello smalto bianco. Rievocò le quattro ore di attesa di Palissy alla fornace di una vetreria per i trecento frammenti di argilla, numerati e rivestiti ognuno di un diverso amalgama. Si apre la fornace. Uno dei frammenti è ricoperto da un composto che si è sciolto, e viene estratto, scuro e incandescente. Palissy lo guarda raffreddarsi. I suoi pensieri sono neri. Ma raffreddandosi il frammento nero si sbianca… «bianco e lucido»… uno smalto bianco «singolarmente bello». Palissy è una creatura nuova, rinata. Lo smalto conteneva stagno, piombo, ferro, antimonio, manganese e rame.
Palissy ne macina una certa quantità, non confida a nessuno le percentuali, naturalmente, riveste un’intera infornata di vasellame, riaccende il suo forno personale, e cerca di portarlo alla temperatura dei forni della vetreria. Lavora per sei giorni e sei notti, ammucchiando fascine, e la vetrina non si scioglie né fonde. – Perse quella prima cottura, – disse Fludd. – Andò a comprare nuovi vasi, e macinò di nuovo la sua miscela, e riaccese la fornace, e faticò per altri sei giorni e sei notti. Alla fine, dovette alimentare il forno con le tavole del suo stesso pavimento, e fare a pezzi il tavolo di cucina. E di nuovo la cottura fallí, e lui venne considerato un alchimista o forgiatore pazzo, e si ridusse in miseria. Lavorò per altri otto anni, costruí un nuovo forno, e perse un’intera cottura di pezzi delicatamente invetriati perché le pareti del forno erano state intonacate con calce piena di selci che si scheggiarono e schizzarono sui vasi.
– Ma alla fine, – disse Philip, – alla fine, trovò lo smalto, e fabbricò i vasi.
– Lavorò per re e regine, disegnò un Giardino del Paradiso, e una fortezza inespugnabile. Odiava gli alchimisti, sapeva che stavano cercando qualcosa di semplicemente mitico. A lui piaceva osservare le piante che crescono, e speculare su come le sorgenti calde, e quelle di acqua dolce, zampillano dalle viscere della terra. Aveva una sua teoria sui terremoti, che non era irragionevole: rifletteva con acume sulla terra, l’aria, il fuoco e l’acqua che muovono le montagne…
– Che fine ha fatto?
– Era protestante. Non accettava le dottrine della Chiesa, e non era disposto a compromessi. Lo misero in prigione, e lo condannarono a morte per eresia. Avrebbe dovuto salire sul rogo per aver rifiutato, secondo le sue stesse parole, di prostrarsi davanti a immagini di creta. Morí alla Bastiglia, coriaceo come sempre. Aveva settantanove anni. Ti presterò il libro del professor Morley, potrai leggere la sua storia.
Philip disse che purtroppo era inutile. Non era in grado di leggerlo. Aggiunse, arrossendo: – Non sono in grado di leggere quasi niente, a dire il vero. Riesco a capire le parole facili, tutto lí.
– Questo non va, – disse Fludd. – Non va bene. Imogen ti insegnerà a leggere.
– Oh no…
– Sí invece. Imogen non ha granché da fare, e tu non farai molta strada se non sai leggere. E ti piacerà leggere la storia di Palissy.
La docile Imogen acconsentí a dare a Philip quotidiane lezioni di lettura. Disse che non aveva mai insegnato, e di non sapere come si insegna, ma avrebbe fatto del suo meglio. Sedeva con lui a un tavolo da giardino nel frutteto, o in cucina se il vento soffiava dalla Manica. Alternava sempre gli stessi due o tre abiti di lino grezzo, con scollature irregolari e ricami di gigli e iris, sui cui petali Philip riusciva quasi a percepire i minuscoli globuli di sangue delle dita punte dall’ago. Notò, era giovane e maschio, che Imogen aveva un corpo forte e ben fatto sotto le pieghe informi. Con la punta delle sue dita da vasaio pensò al contorno dei seni, che erano rotondi e pieni. Non registrava alcuna atmosfera femminile intorno a lei – niente profumo tra i capelli, nessun accenno di odore dalla sua pelle, nessuna segreta traspirazione – ed era troppo giovane per rendersi conto di quanto fosse strana tale assenza. Pensava invece, mentre lei sedeva con la testa dai folti capelli china sulla pagina, che assomigliava a certe madonne di ceramica del museo. Una dolcezza calma. Non era un modo davvero accurato di descriverla.
Per le prime due lezioni Imogen scrisse parole su un blocco di fogli con grafia svolazzante. Parole come «mela» e «pane», come «casa», «studio» e «giardino». Poi decise che Philip avrebbe tratto piú vantaggio da testi di senso compiuto, e tirò fuori un bel libro di fiabe, illustrato con disegni al tratto da vari artisti, fra i quali Burne-Jones e Benedict Fludd. Era un’eclettica collezione di storie, dai Grimm ad Andersen, da Perrault ai poeti, compresa La signora di Shalott di Tennyson. Le illustrazioni placarono l’ansia di Philip che temeva di dover leggere qualcosa per bambini. Quello era il mondo del Sogno allestito a Todefright. In quel periodo faceva esperimenti modellando manici di vasi a forma di serpi e draghi d’argilla, e fu impressionato dai maligni folletti di Fludd. Lesse Cenerentola e La bella addormentata nel bosco, La principessa sulla montagna di vetro e La principessa sul pisello, Il piccolo sarto e Il soldatino di piombo, e infine La signora di Shalott e La regina della neve. Si esercitò a scrivere, cosa che gli riusciva bene, poiché era già preciso con penna e matita. Si esercitò a disegnare persone immaginarie, seguendo i contorni fluidi degli indumenti e delle capigliature di Burne-Jones.
Non era esattamente ciò che voleva. Non era il suo stile. Fludd aveva illustrato La regina della neve. La sua regina aveva un volto lungo e sottile e un sorriso triste in un turbinio di fiocchi di neve su un lago di ghiaccio corrugato. Era circondata da folletti deformi, e il piccolo Kai stava raggomitolato ai suoi piedi come una lumaca addormentata. Le linee disegnavano un motivo ipnotico e minaccioso. Philip voleva imparare da ciò che vedeva, e fare qualcosa di diverso.
Le storie – nel bene e nel male, per le intuizioni e i rischi – gli davano modo di descrivere le persone attorno a lui. Imogen era la bella addormentata, si era punta un dito e camminava come una sonnambula. Philip alternava questa immagine con un’altra, semionirica, di lei come figurina di biscotto, ancora privo di smalto o colore, un pallido primo tentativo di creatura vivente. Geraint, che stava in casa il minimo indispensabile, era una versione di Askeladden, il personaggio del folklore norvegese che corre per il mondo in cerca di fortuna. Pomona era tutte le Cenerentole accanto al focolare, tristi e trascurate. Era venuta nel suo letto altre due volte, spaventandolo terribilm...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Parte quarta
  9. Ringraziamenti
  10. Nota dei traduttori
  11. Indice