1° giugno
Jill
«Aaaaahhhhh!!!!!»
Metallo su metallo. La nuova serratura sferraglia e tintinna. Poi la porta della camera si spalanca di colpo e papà corre dentro.
– Santo cielo! – esclama.
Mamma, che stava facendo la doccia, entra di corsa con addosso soltanto un asciugamano. – Che sta… – Appena mi vede si immobilizza di colpo, con i capelli schiumanti di shampoo. – Che è successo ai tuoi… – Mi si avvicina lentamente, le braccia bagnate e tese in avanti come per catturare una pericolosa falena. – Sei ferita?
– Io… Io…
Non riesco a distogliere lo sguardo dallo specchio.
– Jill, tesoro? – mormora lei.
– Mamma, non ho ancora fatto il Piano B! Mi ricordo ancora… Oh, che disastro!
Lui. Jack! Le forbicine da unghie!
Mi copro la faccia con le mani. Mi guardo allo specchio attraverso la fessura tra due dita. È ancora lÃ. Quel coso orrendo e maligno ricambia lo sguardo con i miei stessi occhi.
– Va tutto bene, – dice mamma.
– No, non va tutto bene! – grido.
Papà si mastica con violenza l’unghia del pollice. – Che cosa dobbiamo fare? – domanda. – Helen, che cosa facciamo?
page_no="153" Mamma si gira verso di lui come una vipera pronta a mordere. – Sta’ zitto! – Poi mi guarda con un distacco innaturale. – Va tutto bene. Fammi solo vedere da vicino –. Si inginocchia sul bordo del letto e tira su l’asciugamano. Mi ispeziona collo e braccia, poi tira giú le coperte sul mio busto nudo. Sulla soglia della mia camera, papà si volta dall’altra parte e comincia a percorrere avanti e indietro il corridoio. Mamma mi controlla le gambe. – Sei ferita da qualche parte, tesoro?
Scuoto la testa. – Non mi pare.
Scende giú dal letto stringendosi all’asciugamano e mi guarda di nuovo, cercando – invano – di sembrare perfettamente serena. – Sembra tutto okay, – dice.
– Non sembra affatto tutto okay, mamma –. Sposto di nuovo lo sguardo verso lo specchio. – Guardami!
– Ssh, – fa lei. – Jill. Stammi a sentire, Jill.
Distolgo lo sguardo dalla mostruosa creatura che mi fissa dallo specchio.
– Jill, – mormora. – Adesso devi fare il Piano B. Okay?
– Ma…
Mi posa le mani sulle spalle. – Puoi farcela, tesoro. Guardati allo specchio.
Obbedisco. La faccia che ricambia il mio sguardo è certamente la mia. La mia faccia da ragazza, i miei occhi da ragazza, il mio naso e la mia bocca da ragazza. Però manca qualcosa.
Quasi tutti i capelli.
Dal lato destro della mia testa sbucano fuori pochi ciuffi, crudelmente amputati. Da quello sinistro sono quasi del tutto calva, a parte alcune cicatrici crostose nei punti in cui Jack ha tagliato talmente vicino da intaccarmi lo scalpo.
Il panico cresce insieme alla rabbia, ma continuo a fissare il mio riflesso. Non guardo i miei genitori, fermi ai margini della mia visione periferica. Mi concentro sugli occhi. Sono gli occhi che contano. Non questa testa crostosa.
Una volta fissata l’immagine, mi sdraio e chiudo le palpebre.
– Ragazza e niente altro, – dico.
Il cerchio nero appare ben visibile al centro della mia fronte. Amo quel cerchio. A volte penso sia l’unica cosa affidabile della mia vita. Ripeto il mantra, il cerchio nero si allarga, poi proietto i quattro giorni di Jack contro le tenebre.
La sua faccia, le sue mani, le forbicine per unghie.
– Ragazza e niente altro.
L’immagine nitida dei capelli che cadono nel lavandino umido.
– Ragazza e niente altro.
Le gocce di sudore sul suo viso dall’espressione determinata, la puzza delle sue ascelle mentre cammina per la stanza.
– Ragazza e niente altro.
La sua fame, la sua erezione, il suo desiderio di Ramie.
– Ragazza e niente altro.
La sua rabbia, l’invidia, la lussuria.
– Ragazza e niente altro.
Proietto ogni immagine come un film dell’orrore, poi sfumo tutto al nero.
Lascio che il vuoto mi calmi un istante, poi proietto l’immagine del mio viso. È spaventato, straziato, ma è un viso da ragazza.
Quando l’ho metabolizzato in tutta la sua pura femminilità , apro gli occhi e fisso il soffitto. Se n’è andato. Tutto. Anche i suoi sogni.
page_no="155" Stamattina lasciamo perdere le frittelle. Mamma pareggia i ciuffi sul lato destro della testa. Poi tira fuori le pagine gialle e le apre alla voce parrucche.
Nel frattempo papà sale dallo scantinato con in mano un orribile berretto da camionista con su scritto: Papà numero 1. – Puoi metterti questo, – dice. – Finché non trovi la parrucca giusta.
Io e mamma ci guardiamo.
– Non va bene? – domanda.
– Richard, – dice mamma. – Perché non vai di sopra e prendi la felpa rosa di Jill, quella col cappuccio? Dovrebbe essere appesa a un gancio all’interno del suo armadio.
– Ma mamma, – protesto. – Non l’ho mai portata con il cappuccio alzato. Mi fa sembrare una criminale.
– È una cosa provvisoria, – dice. – Richard?
Papà mi guarda con un’espressione del tipo «povera piccola cara», poi corre di sopra.
Mamma scorre con l’indice l’elenco dei negozi di parrucche, poi strappa tutta la pagina.
– Dove andiamo? – domando.
– Burlington, – risponde lei.
– Ma non al centro commerciale, giusto? Là è quasi certo che incontriamo qualcuno.
– Non andiamo al centro commerciale, – risponde lei. E comunque è venerdà mattina. Non incontreremo nessuno.
Papà torna e mi porge la felpa con il cappuccio rosa. La morbida lanugine interna si impiglia alle croste. Mi specchio nello sportello del microonde. – Magari dovrei truccarmi un po’.
Mamma mi studia, poi annuisce. Corro di sopra, afferro la trousse e decido di truccarmi in macchina.
page_no="156" Papà non viene con noi. Nemmeno me la ricordo l’ultima volta che è uscito di casa. Mi sa che sta diventando agorafobico, ma adesso non è il momento di preoccuparsi delle sue bizzarrie. Io e mamma imbocchiamo la strada principale nella direzione opposta rispetto al liceo. Senza mai distogliere lo sguardo d’acciaio dalla strada, mamma rovista nella sua borsa in cerca di un pacchetto di gomme da masticare. Quando è nervosa mastica sempre le gomme.
Tiro giú l’aletta parasole e guardo la mia testa orrenda nello specchietto. – Sembro una pazza, – dico. – Come faccio a farmi vedere cosà da Tommy?
Mamma mastica la sua gomma. – Non resterai cosÃ, tesoro. Ti procureremo una parrucca e tutto si aggiusterà .
Si aggiusterà . Certo, tutto si aggiusterà . Tutto si aggiusta sempre. Forse mamma è convinta che se continua a crederci un giorno il sogno si avvererà .
Ma io non credo nei sogni.
Esamino una delle croste sul lato sinistro della mia testa. – Mamma, – dico. – Secondo te Jack mi ha ferita di proposito, o stava solo cercando di tagliare i capelli il piú corti possibile?
– Non perdiamo tempo ad analizzare tutto quello che fa Jack, – dice. – L’importante è arginarlo.
Richiudo l’aletta parasole. – Può darsi, mamma, però non c’è modo di arginarlo. Possiamo anche chiuderlo nella mia stanza, ma come facciamo a evitare che combini altri guai? Guai ancora peggiori?
Mamma mastica la sua gomma come se fosse l’ultima gomma rimasta sulla terra.
– Tranquillanti, – mormora.
– Cosa?
Strizza gli occhi e guarda la strada.
– Mamma, ma dici sul serio?
page_no="157" Ciomp, ciomp, ciomp.
– Non credi che potrebbe essere, che so, pericoloso? – domando.
Mamma mi guarda per un istante, poi torna a fissare la strada. – Ci penso io, tesoro.
«Ci penso io» vuol dire che prima li proverà su di sé, come ha già fatto con le pillole a base di estrogeni.
– No, mamma, – dico. – No e poi no.
Ciomp, ciomp, ciomp.
E poi – ma questo non lo dico ad alta voce – mi sembra ingiusto. Imbottire Jack di tranquillanti sarebbe come ucciderlo. E lui non se lo merita, vero?
Vero?
– Mamma, – dico. – Promettimi che non comincerai a sperimentare tranquillanti.
Mamma mi mette una mano sul ginocchio. – Non ti preoccupare, tesoro. Prima li metto nel tè al gelsomino di papà .
– Mamma!
– Scherzavo.
Davanti a noi c’è un cartello che indica la Statale 114. Efficiente come sempre, mamma mette la freccia e si sposta nella corsia di destra, mentre la sua mascella continua a sminuzzare quel povero pezzo di gomma.
La commessa del primo negozio di parrucche avrà circa cent’anni e un’inguaribile nostalgia per gli anni cinquanta. Le parrucche sono quasi tutte castane e cotonate, compresa quella che sta in testa alla commessa. Io e mamma ne proviamo un paio e capiamo subito che non è il posto giusto per me, a meno che io non voglia somigliare a Amy Winehouse.
Il negozio successivo si trova in un centro commerciale di Saugus, ed è specializzato in parrucche da carnevale rosa shocking, azzurre e verde acido. In fondo a uno strettissimo corridoio ne troviamo una con i capelli lunghi, lisci e marroni che pare vagamente normale. Mamma mi afferra un braccio, poi toglie la parrucca al manichino e me la mette. Posa le mani sulle mie spalle e mi guida verso un sudicio specchio a forma di cuore appeso per storto a un sostegno di ferro. Per riuscire a vedermi tutta intera devo stare lontanissima. Gli altoparlanti del negozio sparano musica techno a un volume senza senso.
– Mi sa che il colore non va bene, – dico.
Mamma sbuffa con il naso, poi si avvicina alla commessa dark accasciata accanto alla cassa.
– Si può tingere?
La commessa dark articola un «Che?» con le sue labbra nere.
Mamma alza la voce e ripete la domanda.
La ragazza fa no con la testa.
Mi tolgo la parrucca e la rimetto sul manichino. Storta. Di proposito. Giuro che quel negozio puzza tremendamente di marijuana.
Mamma mi aspetta accanto alla porta, la tiene aperta per farmi passare e poi dice «Grazie» con un tono che significa l’esatto contrario.
Seduta in auto nel parcheggio del centro commerciale, osservo il traffico sulla statale 1. Ogni macchina che passa sfrecciando a tutta velocità mi fa sprofondare ancor di piú nel mio cappuccio. Con il foglio delle pagine gialle in grembo, mamma sottopone a un interrogatorio dettagliato ogni negozio di parrucche della costa a nord di Boston.
Mentre aspetto, appoggio i piedi contro il cruscotto e provo a immaginare che cosa Jack sperasse di ottenere con questo «taglio di capelli». Cioè, è ovvio che l’ha fatto perché l’abbiamo chiuso nella stanza. Ma davvero pensava che cosà l’avremmo lasciato libero? C’è un rischio calcolato in questa sua follia? Pensavo che i nostri accordi fossero ancora validi. Non si era mai lamentato. Ed ecco che di colpo si mette a importunare la mia migliore amica e mi rasa a zero. Che vuol dire?
Forse questa volta non avrei dovuto «cancellarlo» immediatamente appena sveglia. Forse avrei dovuto permettere alla mia memoria di aggirarsi un po’ nel Jacktempo. Conosci il tuo nemico, e via dicendo. Ma quand’è che Jack è diventato mio nemico?
– Trentadue, Franklin Street? – dice mamma al telefono. – Oltre Boylston? – Con il cellulare incastrato tra l’orecchio e la spalla, schiocca le dita e indica il vano portaoggetti.
Tiro fuori lo stradario.
– Va bene, – dice ancora al telefono. – E lei è sicuro di avere una parrucca dall’aspetto naturale, di un colore a metà tra il castano chiaro e il marrone medio? Liscia? – Annuisce in silenzio. – Okay. Sono là tra venti minuti –. Riaggancia e mi guarda. – Di sicuro non costerà poco –. Piega il foglio e lo infila nella borsa. – E ci tocca andare a Boston –. Dice «Boston» come altri direbbero «Inferno».
– Sul serio?
Annuisce, poi ingrana la retromarcia. – Non importa se è cara, – dice. – Possiamo rivenderla su eBay quando ti saranno ricresciuti i capelli.
– Eh già , – dico.
Ci mettiamo in coda all’uscita e aspettiamo un’eternità , finché tra due macchine non si apre un varco grande abbastanza per passarci in mezzo. Abbasso il cappuccio rosa fino alle sopracciglia, fin quasi agli occhi.
page_no="160" Tecnicamente, il centro commerciale da cui ci stiamo allontanando dista solo un quarto d’ora da Theatrical Features, alias «il negozio di parrucche» di Boston. Ma Boston è Boston, quindi ci mettiamo due ore belle piene a trovare il posto. Mamma odia, e dico odia, andare a Boston in macchina, e la capisco. Chiunque abbia disegnato queste strade doveva essere fatto di crack. Incredibile che ci abiti gente tanto intelligente da frequentare la Harvard e il Mit. Ah, e non scomodatevi a chiedere indicazioni a qualcuno. Il passatempo preferito dei bostoniani è dare ai forestieri indicazioni confuse, vaghe o deliberatamente errate. Circumnavighiamo quattro volte il Government Center in cerca di Franklin Street, dopodiché mamma si ferma al primo garage e decidiamo di proseguire a piedi.
Non appena sbuchiamo fuori dalla buia frescura del garage e ci ritroviamo sui marciapiedi affollati del Government Center, vorrei raggomitolarmi in un angolo e morire. So che nessuno si accorge che sotto il mio cappuccio rosa c’è una testa massacrata e piena di croste, però mi sento comunque una povera deficiente. Mamma domanda a un poliziotto dov’è Franklin Street. Bisogna svoltare tre volte a sinistra e una a destra, attraversare una rotonda, una piazza e un labirinto. Alla fine, sul fianco di un vecchio magazzino con la facciata di mattoni, troviamo l’ingresso di Theatrical Features. Mamma mi prende per mano e ci ritroviamo in un corridoio buio, tra scaffali strapieni di guanti, cappelli e un miliardo di altri ammennicoli. Sentendo suonare la campanella dell’ingresso, un gay sulla trentina ci viene incontro da dietro un bancone sul quale saranno esposti seicento modelli di guanti di pelle nera.
– Salve. Quelli non sono in vendita né in affitto, – dice. – È la mia collezione privata.
page_no="161" Mamma sfodera il suo sorriso da robot come se questo potesse proteggerla dalla lampante omosessualità del tizio. Non è che sia omofoba o roba del genere. Ogni volta che incontra qualcuno un po’ fuori dalla norma...