
- 186 pagine
- Italian
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Malone muore
Informazioni su questo libro
Malone muore è un fondamentale punto di svolta nella narrativa di Beckett. Da un lato è l'ultima prova di una narrazione centrata su un personaggio ancora in qualche modo romanzesco (Malone buon ultimo dopo i vari Murphy, Mercier, Molloy, Moran), dall'altro è già la liquidazione di quel modello, un post-romanzo che si costruisce intorno a un'assenza, a un'attesa indefinita e infinita, dove il soggetto non ha più alcuna identità . Le storie che Malone immagina nell'attesa di morire si confondono tra loro, i personaggi si sovrappongono, l'autore e il lettore svaniscono in quell'«unico grande ronzio continuo» che è la strana, buffa e tragica condizione della vita.
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Informazioni
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9788806210069eBook ISBN
9788858405185Comunque tra poco sarò finalmente morto del tutto. Forse il mese prossimo. Allora sarebbe il mese d’aprile o di maggio. Perché l’anno è poco inoltrato, mille piccoli indizi me lo dicono. Può darsi che mi sbagli, e che superi San Giovanni e anche il Quattordici Luglio, festa della libertà . Ma che dico, son capace di arrivare fino alla Trasfigurazione, mi conosco bene, o all’Assunzione. Ma non credo, non credo di sbagliarmi se dico che questi festeggiamenti avranno luogo senza di me, quest’anno. Ho questa sensazione, ce l’ho già da qualche giorno, e le do credito. Ma in cosa differisce da quelle che mi ingannano da quando sono al mondo? No, questo è un tipo di domande che non attacca piú, con me, non ho piú bisogno del pittoresco. Se volessi morirei oggi stesso, basterebbe spingere un po’, se potessi volere, se potessi spingere. Ma tanto vale che mi lasci morire, senza affrettare le cose. Ci dev’essere qualcosa di cambiato. Non voglio piú pesare sulla bilancia, né da un lato né dall’altro. Sarò neutrale e inerte. Mi sarà facile. L’importante è solo stare attenti ai soprassalti. Del resto me ne vengono di meno da quando son qui. Di tanto in tanto, certo, ho ancora dei moti d’impazienza. È da questi che mi devo guardare al presente, per quindici giorni tre settimane. Sempre senza esagerare, s’intende, piangendo e ridendo tranquillamente, senza eccitarmi troppo. SÃ, finalmente sarò naturale, soffrirò di piú, poi di meno, senza trarne deduzioni, mi ascolterò di meno, non sarò piú né caldo né freddo, sarò tiepido, morrò tiepido, senza entusiasmo. Non mi guarderò morire, ciò falserebbe tutto. Mi son forse guardato vivere? Mi son mai lamentato? E allora perché adesso dovrei rallegrarmi. Sono contento, è inevitabile, ma non al punto di battere le mani. Io sono sempre stato contento, sapendo che sarei stato rimborsato. Adesso è vicino, il mio vecchio debitore. È forse una buona ragione per fargli festa? Non risponderò piú alle domande. Cercherò anche di non pormene piú. Presto mi si potrà sotterrare, non mi si vedrà piú in superficie. Di qui ad allora mi racconterò delle storie, se ce la faccio. Non sarà lo stesso genere di storie di una volta, tutto qui. Saranno storie né belle né brutte, pacate, in esse non vi saranno piú né bruttezza, né bellezza, né passione, saranno quasi senza vita, come l’artista. Cosa sto dicendo? Non ha importanza. Conto di trarne molte soddisfazioni, qualche soddisfazione. Insomma sono soddisfatto, mi sta bene, mi si rimborsa, non ho piú bisogno di nulla. Lasciatemi dire anzitutto che non perdono a nessuno. Auguro a tutti una vita atroce, e poi le fiamme e il ghiaccio degli inferi e, tra le esecrabili generazioni future, una memoria onorata. Per stasera può bastare.
Stavolta lo so dove vado. Non è piú la notte di un tempo, di poco fa. Ora si fa per gioco, starò al gioco. Finora non ho saputo giocare. Ne avevo voglia, ma sapevo che non era possibile. Spesso mi ci son messo ugualmente. Accendevo la luce dappertutto, mi guardavo bene intorno, mi mettevo a giocare con quello che vedevo. Le persone e le cose non chiedono che di giocare, e anche taluni animali. La cosa cominciava bene, venivano tutti da me, contenti che si volesse giocare con loro. Se dicevo, Adesso mi serve un gobbo, subito ne arrivava uno, fiero della sua bella gobba, che si apprestava a fare il suo numero. Non gli passava per la mente che potessi chiedergli di spogliarsi. Ma non tardai a ritrovarmi solo, senza luce. È per questo che ho rinunciato a voler giocare e ho fatto miei per sempre l’informe e l’inarticolato, le ipotesi noncuranti, l’oscurità , la lunga marcia a braccia in avanti, il nascondiglio. Questa è la serietà alla quale ormai da un secolo non ho per cosà dire mai abdicato. Ora la faccenda cambierà , non voglio piú far altro che giocare. No, non comincerò con un’esagerazione. Ma d’ora in poi giocherò per gran parte del tempo, per la maggior parte, se potrò. Ma forse non ci riuscirò meglio di un tempo. Forse mi troverò abbandonato come una volta, senza giocattoli, senza luce. Allora giocherò da solo, farò come se mi vedessi. L’aver saputo concepire un simile progetto mi dà coraggio.
Durante la notte devo aver riflettuto a come impiegare il tempo. Penso che potrò raccontarmi quattro storie, ciascuna su un argomento diverso. Una su un uomo, un’altra su una donna, una terza su una cosa qualsiasi e infine una su un animale, magari un uccello. Credo di non dimenticare niente. Andrebbe bene. Forse metterò l’uomo e la donna nella stessa storia, c’è cosà poca differenza tra un uomo e una donna, voglio dire tra i miei. Forse non avrò il tempo di finire. Da un altro punto di vista, forse finirò troppo presto. Eccomi di nuovo dentro le mie vecchie aporie. Ma si tratta di aporie vere e proprie? Non so. Che non finisca, non ha importanza. Ma se dovessi finire troppo presto? Nemmeno questo ha importanza. Perché in tal caso parlerò delle cose che restano in mio possesso, è un progetto vecchissimo. Sarà una sorta d’inventario. A ogni modo questo lo devo lasciare da parte per gli ultimissimi momenti, per essere sicuro di non essermi sbagliato. D’altronde è una cosa che farò certamente, qualsiasi cosa accada. Ne ho per un quarto d’ora al massimo. C’è da dire che potrei averne per un tempo piú lungo, se volessi. Ma se il tempo mi venisse a mancare, all’ultimo momento, per redigere il mio inventario mi basterebbe un piccolo quarto d’ora. Intendo d’ora in avanti essere chiaro senza essere maniacale, fa parte dei miei progetti. È chiaro che corro il rischio di spegnermi all’improvviso, da un istante all’altro. Non farei dunque meglio a parlare dei miei possessi senza piú tardare? Non sarebbe piú prudente? A costo di apportarvi modifiche all’ultimo minuto, se del caso? Ecco cosa mi suggerisce la ragione. Ma la ragione fa poca presa su di me, in questo momento. Tutto concorre a incoraggiarmi. Ma morire senza lasciare inventario, posso davvero rassegnarmi a questa possibilità ? Ecco che ricomincio a cavillare. Bisogna supporre che mi ci rassegni, dato che mi dispongo a correrne il rischio. Per tutta la vita mi sono trattenuto dal determinare questo bilancio, dicendomi, Troppo presto, troppo presto. Ebbene, è ancora troppo presto. Per tutta la vita ho sognato il momento in cui, finalmente stabile, per quanto lo si possa essere prima di aver perduto tutto, potessi tirar la riga e fare la somma. Questo momento sembra imminente. Non perderò per questo il mio sangue freddo. Dunque prima le storie e alla fine, se tutto va bene, il mio inventario. E comincerò, per non vederli piú, con l’uomo e la donna. Sarà la prima storia, non c’è abbastanza materia per due storie. Non ci saranno dunque che tre storie, in conclusione, quella che ho appena indicato, poi quella dell’animale, e poi quella della cosa, probabilmente una pietra. È tutto molto chiaro. In seguito mi occuperò dei miei possessi. Se dopo di questo sono ancora vivo, farò il necessario, per essere sicuro di non essermi ingannato. È deciso. Una volta non sapevo dove andavo, ma sapevo che sarei arrivato, sapevo che la lunga tappa alla cieca si sarebbe conclusa. Mio Dio, che affermazioni approssimative. Va be’. Adesso bisogna giocare. Faccio fatica ad abituarmi a quest’idea. La vecchia nebbia mi chiama. Adesso è l’inverso che bisogna dire. Perché questa strada ben delineata, sento che forse non la seguirò sino alla fine. Ma ho buone speranze. Mi chiedo se in questo momento sto perdendo tempo o ne sto guadagnando. Ho deciso anche di richiamare in breve la mia situazione attuale, prima di cominciare le storie. Penso che faccio male. È una debolezza. Ma me la concederò. In seguito, giocherò con maggior ardore di prima. Del resto, questo farà da elemento simmetrico rispetto all’inventario. L’estetica è dunque dalla mia parte, o almeno una certa estetica. Perché per poter parlare dei miei possessi mi toccherà tornare serio. Ecco dunque che il tempo mi risulta diviso in cinque. In cinque cosa? Non so. Tutto si divide in se stesso, suppongo. Se mi rimetto a voler riflettere va a finire che mi perdo il mio decesso. Devo dire che questa prospettiva ha qualcosa d’attraente. Ma sono sull’avviso. Da qualche giorno trovo qualcosa d’attraente in tutto quanto. Torniamo ai cinque. Situazione attuale, tre storie, inventario, ecco qua. Non si può escludere qualche intermezzo. È un programma. Non me ne scosterò che nella misura in cui non potrò fare altrimenti. È deciso. Sento che sto facendo un errore madornale. Non importa.
Situazione attuale. Questa camera sembra che sia mia. Non mi spiego in altro modo il fatto che mi ci lascino. Da un sacco di tempo. A meno che a volerlo non sia una qualche potenza. E questo è poco verosimile. Perché le potenze avrebbero mutato avviso nei miei confronti? Tanto vale adottare la spiegazione piú semplice, anche se lo è poco, anche se non spiega un gran che. Non è necessaria la gran luce, per vivere nella stranezza basta una luce fioca, una piccola luce fedele. Forse ho ereditato la camera alla morte della persona che c’era prima di me. Comunque non sto a indagare oltre. Non è una stanza d’ospedale o di manicomio, lo si avverte subito. Ho teso l’orecchio a ore diverse della giornata senza mai sentir niente di sospetto o d’insolito, ma sempre i pacifici rumori dell’uomo in libertà che si alza, va a letto, si fa da mangiare, va e viene, piange e ride, oppure nulla. E se guardo dalla finestra capisco subito, da certi indizi, che non mi trovo in una casa di riposo di alcun genere. No, è la camera di un normale privato cittadino in uno stabile a prima vista normale. Non ricordo come ci sia arrivato. Forse in ambulanza, certo con qualche veicolo. Un giorno mi ci sono trovato, a letto. Probabilmente per aver perso conoscenza da qualche parte, godo del forzato beneficio di uno iato nei miei ricordi, che riprendono solo al mio risveglio qui. Quanto agli avvenimenti che portarono alla sincope, e ai quali, al momento, non devo esser stato insensibile, nella mia testa non ne rimane niente di comprensibile. Ma chi non ha mai avuto di queste amnesie? Quante ne annoverano i giorni susseguenti alle sbornie! Quegli avvenimenti, talvolta mi sono divertito a inventarli. Ma senza arrivare a divertirmi veramente. E non sono neanche riuscito a precisare, per farne un punto di partenza, l’ultima cosa che ricordo prima del mio risveglio qui. Di sicuro stavo camminando, ho camminato per tutta la vita, salvo i primi mesi e da quando son qui. Ma alla fine della giornata non sapevo mai dov’ero stato né a cosa avevo pensato. Di cosa mi potrei dunque ricordare, e con cosa? Mi rammento di uno stato d’animo. La mia gioventú è piú varia, cosà come la ritrovo a tratti. Allora non sapevo ancora cavarmela troppo bene. Ho vissuto in una specie di coma. Perdere conoscenza, per me, non era perdere gran che. Ma forse m’hanno stordito, forse in una foresta, sÃ, ora che dico foresta mi ricordo vagamente di una foresta. Tutto ciò appartiene al passato. È il presente che devo accertare, prima di essere vendicato. È una camera normale. Ne ho conosciute poche, di camere, ma questa mi sembra normale. In fondo, se non mi sentissi morire, potrei credermi già morto, intento a espiare o in una delle dimore celesti. Ma finalmente sento di avere il tempo contato. L’impressione dell’oltretomba ce l’avevo di piú soltanto sei mesi fa. Se m’avessero predetto che un giorno mi sarei sentito vivere in questa maniera, avrei sorriso. Non si sarebbe visto, ma io avrei saputo che sorridevo. Ricordo bene quegl’ultimi giorni, m’hanno lasciato piú ricordi quelli che i trentamila circa precedenti. Sarebbe stato meno sorprendente il contrario. Quando avrò fatto il mio inventario, se la morte non sarà pronta scriverò le mie memorie. Toh, ho detto una battuta. Bene, bene. C’è un armadio in cui non ho mai guardato. I miei possessi sono in un angolo, alla rinfusa. Con il mio lungo bastone posso spostarli, portarli fino a me, rimandarli al loro posto. Il mio letto è vicino alla finestra. Rimango girato verso di essa per la maggior parte del tempo. Vedo un po’ di tetti e di cielo, e anche un pezzetto di strada, se faccio un grosso sforzo. Non vedo né campi né montagne. Eppure sono vicini. Dopotutto cosa ne so? Non vedo neanche il mare, ma lo sento quando s’ingrossa. Posso vedere dentro una camera della casa di fronte. A volte vi accadono cose strane. Le persone sono strane. Forse si tratta di anormali. Anche loro devono vedermi, la mia grossa testa irsuta appoggiata al vetro. Non ho mai avuto tanti capelli come adesso, né cosà lunghi, lo dico senza tema di smentite. Ma di notte non mi vedono, perché non accendo mai la luce. Qui mi sono interessato un po’ alle stelle. Ma non riesco a raccapezzarmi. Una notte mentre le osservavo mi sono visto improvvisamente a Londra. È mai possibile che mi sia spinto fino a Londra? E cos’hanno a che fare le stelle con questa città ? In compenso la luna m’è divenuta familiare. Ora conosco bene i suoi cambiamenti d’aspetto e di orbita, so piú o meno le ore in cui posso cercarla nel cielo e le notti in cui essa non verrà . Che altro? Le nuvole. Sono estremamente varie, davvero di una grande varietà . E uccelli d’ogni sorta. Vengono sul davanzale della mia finestra a chiedere da mangiare! È commovente. Picchiano sul vetro con il becco. Non ho mai dato loro niente. Ma vengono sempre. Che cosa aspettano? Non sono degli avvoltoi. Non solo mi si lascia star qui, ma ci si occupa di me! Ecco come si svolgono le cose, adesso. La porta si apre a metà , una mano depone un piatto sul tavolino che è là per questo, preleva il piatto del giorno prima, e la porta si richiude. Fanno questa cosa per me tutti i giorni, probabilmente sempre alla stessa ora. Quando voglio rifocillarmi aggancio il tavolo col mio bastone e lo attiro fino a me. È a rotelle, viene verso di me cigolando e sbandando a destra e a sinistra. Quando non ne ho piú bisogno lo rimando vicino alla porta. È minestra. Devono sapere che non ho piú denti. La mangio una volta su due, una volta su tre, in media. Quando il mio vaso da notte è pieno, lo metto sulla tavola a fianco del piatto. Allora resto ventiquattr’ore senza vaso. No, ho due vasi. È previsto tutto. A letto sono nudo, a contatto diretto con le coperte, di cui aumento e diminuisco il numero a seconda delle stagioni. Non ho mai caldo, mai freddo. Non mi lavo, ma non mi sporco. Se mi sento sporco da qualche parte, strofino il punto con il dito umettato di saliva. L’essenziale è alimentarsi ed eliminare, se si vuol resistere. Vaso, gamella, ecco i poli. In principio le cose si svolgevano diversamente. La donna veniva in camera, si dava da fare intorno a me, s’informava sui miei bisogni, sulle mie richieste. Ce l’ho fatta a farglieli capire, i miei bisogni e le mie richieste. Però che fatica. Non capiva. Fino al giorno in cui ho trovato i vocaboli, gli accenti, adatti al suo caso. Tutto ciò dev’essere per metà frutto d’immaginazione. È stata lei a procurarmi questo lungo bastone. È munito di un gancio. Grazie ad esso posso controllare anche gli angoli piú remoti della mia dimora. Mi sento molto in debito nei confronti dei bastoni. Tanto da dimenticare quasi i colpi ricevuti per loro tramite. È una vecchia. Non so perché sia buona con me. SÃ, chiamiamola bontà , senza stare a cavillare. Per lei è sicuramente bontà . Credo che sia ancor piú vecchia di me. Ma direi meno ben conservata, nonostante la sua mobilità . Forse fa parte della camera, in certo qual senso. In tal caso non richiede uno studio a parte. Ma non è escluso che faccia quello che fa per carità o per un sentimento meno generico di pietà o d’affetto nei miei riguardi. Tutto è possibile, finirò per crederci. Ma è piú semplice supporre che mi sia assegnata allo stesso titolo della camera. Di lei vedo ormai soltanto la mano scarna e un pezzetto della manica. Nemmeno, nemmeno. Forse è già morta, precedendomi, forse è un’altra mano adesso a imbandire e sparecchiare il mio tavolino. Non lo so da quanto tempo sono qui, devo averlo già detto. So soltanto che ero già vecchissimo prima di trovarmici. Mi dico novantenne, ma non posso provarlo. Forse sono solo cinquantenne o quarantenne. È un’eternità che non tengo piú il conto, dei miei anni voglio dire. Il mio anno di nascita lo so, non l’ho dimenticato, ma non so in che anno sono arrivato qui. Ma credo d’esser qui da un bel pezzo. Perché ho una buona cognizione di quello che possono contro di me, al riparo di questi muri, le diverse stagioni. Non è cosa che s’apprenda in un anno o due. Intere giornate mi son sembrate comprese tra due battiti di ciglia. C’è ancora qualcosa da aggiungere? Forse qualche parola su di me. Il mio corpo è quel che si dice, forse alla leggera, impotente. Non può, per cosà dire, piú niente. Talvolta sento come una mancanza il fatto di non potermi piú trascinare. Ma sono poco incline alla nostalgia. Le braccia, una volta al posto giusto, possono ancora far forza, ma ho difficoltà a comandarle. Forse è il nucleo rosso che è impallidito. Tremo un po’, ma solo un po’. Il cigolio del letto fa parte della mia vita, non vorrei s’arrestasse, voglio dire che non vorrei s’attenuasse. È sul dorso, vale a dire prono, no, supino, che sto meglio, è cosà che sento meno le ossa. Resto sul dorso, ma la guancia è sul cuscino. Non ho che da aprire gli occhi perché ricomincino il cielo e il fumo degli uomini. Vedo e sento malissimo. Le adiacenze non sono piú illuminate che di riflesso, è su di me che i miei sensi sono puntati. Muto, oscuro e scialbo, non sono per loro facile preda. Sono lontano dai rumori del sangue e del respiro, in isolamento. Non parlerò delle mie sofferenze. Nascosto nel piú profondo di esse, non provo dolore. È là che muoio, all’insaputa della mia stupida carne. Ciò che si vede, ciò che grida e s’agita, sono le spoglie. Esse s’ignorano. Da qualche parte, in questa confusione, il pensiero si accanisce anch’esso a sproposito. Anch’esso mi cerca, come sempre, là dove io non sono. Non sa placarsi neanche lui. Ne ho abbastanza. Che sfoghi su qualcun altro la sua rabbia d’agonizzante. Intanto io me ne starò tranquillo. La mia situazione sembra essere questa.
L’uomo si chiama Saposcat. Come suo padre. E il nome proprio? Non so. Non ne avrà bisogno. I suoi amici lo chiamano Sapo. Quali? Non so. Qualche parola sulla sua giovinezza. È necessario.
Era un ragazzo precoce. Era poco portato per gli studi e non vedeva l’utilità di quelli che gli facevano fare. Assisteva alle lezioni con la mente altrove, o vuota.
Assisteva alle lezioni con la mente altrove. Ma gli piaceva far di calcolo. Ma non gli andava il modo in cui lo insegnavano. Quello che gli piaceva era maneggiare numeri concreti. Qualsiasi calcolo gli sembrava ozioso se non veniva precisata la natura dell’unità . Si dedicava, in pubblico e in privato, al calcolo a mente. E le cifre che allora si incolonnavano nella sua testa la popolavano di colori e di forme.
Che noia.
Era il primogenito. I suoi genitori erano poveri e malaticci. Spesso li sentiva parlare di quello che si sarebbe dovuto fare per star meglio e per avere piú soldi. E ogni volta restava colpito dall’indeterminatezza di quei propositi, e non si stupiva che non ne seguisse nulla. Suo padre era commesso in un negozio. Diceva alla moglie, Bisognerà che mi trovi da lavorare la sera e il sabato pomeriggio. Aggiungeva, con voce fioca, E la domenica. La moglie rispondeva, Ma se lavori di piú ti ammalerai. E il signor Saposcat a riconoscere che in effetti avrebbe fatto male a non riposarsi la domenica. Ecco almeno delle persone ragionevoli. Ma non era cagionevole al punto di non poter lavorare le sere della settimana e il sabato pomeriggio. Ma facendo cosa? diceva la moglie. Magari delle registrazioni, rispondeva lui. E chi si occuperà del giardino? diceva la moglie. La vita dei Saposcat era piena di assiomi, uno dei quali sanciva la criminosa assurdità di un giardino senza rose, dai praticelli e dai vialetti trascurati. E se coltivassi ortaggi, diceva lui. Costano meno a comprarli, diceva lei. Sapo ascoltava stupefatto queste conversazioni. Pensa al prezzo del letame, diceva la madre. Nel silenzio che seguiva il signor Saposcat rifletteva, con quell’impegno che metteva in tutto ciò che faceva, all’alto prezzo del letame che gli impediva di provvedere ai suoi una vita un po’ piú agiata, aspettando che la moglie s’accusasse, a sua volta, di non dare il massimo delle sue capacità . Ma lei si lasciava facilmente convincere che non avrebbe potuto far di piú senza mettere a repentaglio la propria vita. Pensa alle spese del medico che risparmiamo, diceva il signor Saposcat. E di farmacia, diceva la moglie. Non restava loro che pensare a una casa piú modesta. Ma siamo già allo stretto, diceva la signora Saposcat. Ed era sottinteso che lo sarebbero stati ogni anno di piú fino al giorno in cui, grazie a una compensazione tra l’esodo dei figli maggiori e l’arrivo dei nuovi nati, si fosse instaurata una sorta di equilibrio. Poi la casa si sarebbe a poco a poco svuotata. E alla fine sarebbero rimasti soli, con i loro ricordi. Allora sarebbe venuto il momento di traslocare. Lui sarebbe stato in pensione, lei allo stremo delle forze. Avrebbero preso una casetta in campagna dove, non avendo piú bisogno di letame, avrebbero potuto disporne a carrettate. I loro figli, sensibili ai sacrifici fatti per loro, li avrebbero aiutati. Il piú delle volte questi conciliaboli si concludevano cosÃ, in piena fantasticheria. Si sarebbe detto che i Saposcat traevano la forza di vivere dalla prospettiva della loro impotenza. Ma qualche volta, prima di approdare a quel punto, si soffermavano sul caso del loro figlio maggiore. Quanti anni ha? domandava il signor Saposcat. La moglie forniva il ragguaglio, era inteso che competesse a lei. Si sbagliava sempre. La cifra inesatta, il signor Saposcat la faceva propria, la ripeteva piú volte, a bassa voce, sbalordito, quasi si fosse trattato del rincaro di una derrata di prima necessità , come la carne dal macellaio. E nel contempo cercava nell’aspetto del figlio qualcosa che addolcisse la notizia appena appresa. Si trattava almeno di un pezzo scelto? Sapo guardava il volto di suo padre, triste, stupito, affettuoso, deluso eppur fiducioso. Pensava alla spietata fuga degli anni, o al tempo che il figlio ci avrebbe messo per diventare un salariato? Talvolta esprimeva, un po’ demoralizzato, il rammarico di non vedere nel figlio una voglia maggiore di rendersi utile. È meglio che si prepari agli esami, diceva la moglie. A partire da un tema prestabilito, i loro cervelli si davano da fare all’unisono. Non avevano dunque una conversazione propriamente detta. Facevano uso della parola un po’ come il capotreno delle sue bandierine, o della lanterna. Oppure anche si dicevano, Scendiamo qui. Una volta segnalato il figlio, si chiedevano tristemente se non fosse appannaggio delle menti superiori il fallire allo scritto e il coprirsi di ridicolo all’orale. Non sempre si accontentavano di contemplare in silenzio il medesimo paesaggio. Almeno sta bene di salute, diceva il signor Saposcat. Non poi piú di tanto, diceva la moglie. Ma niente di accertato, diceva lui. Alla sua età sarebbe il colmo, diceva lei. Non ne sapevano il perché, ma era destinato a fare il libero professionista. Anche quella era una cosa ovvia. Di conseguenza era inconcepibile che non ne fosse all’altezza. Lo vedevano di preferenza medico. Ci curerà quando saremo vecchi, diceva la signora Saposcat. E il marito rispondeva, Io lo vedo piuttosto chirurgo, come se a partire da una certa età la gente fosse inoperabile.
Che noia. E lo chiamo giocare. Mi chiedo se non si tratti ancora di me, nonostante le mie precauzioni. Sarò dunque sino alla fine incapace di mentire su qualcos’altro? Sento accumularsi quel nero, riformarsi quella solitudine nei quali mi riconosco, e il richiamo di quell’ignoranza che potrebbe essere una bella cosa, e non è che viltà . Non so piú molto bene quello che ho detto. Non è cosà che si gioca. Presto non saprò piú da dove sia uscito, il mio piccolo Sapo, né cosa si aspetti. Forse farei meglio a lasciar perdere questa storia e a passare alla seconda, o anche alla terza, quella della pietra. No, sarebbe la stessa cosa. Devo solo stare piú attento. Rifletterò bene su quello che avrò detto, prima di andare avanti. A ogni minaccia di crollo mi fermerò a considerarmi qual sono. È proprio quello che volevo evitare. Ma probabilmente non c’è altro modo. Dopo questo bagno di fango sarei piú propenso ad ammettere un mondo in cui io non stonassi. Che modo di ragionare. Aprirò gli occhi, mi guarderò tremare, ingoierò la mia minestra, guarderò il mucchietto dei miei possessi, darò al mio corpo i vecchi comandi anche se lo so incapace d’eseguirli, consulterò la mia coscienza perenta, mi rovinerò l’agonia per viverla meglio, già lontano dal mondo che infine si dilata e mi lascia passare.
Ho cercato di riflettere sull’inizio della mia storia. Vi sono delle cose che non capisco. Ma è irrilevante. Devo solo continuare.
Sapo non aveva amici. No, cosà non va.
Sapo si trovava bene con i suoi piccoli compagni, senza essere propriamente benvoluto da loro. È raro che un asino a scuola sia un solitario. Era bravo nella boxe e nella lotta, agile nella corsa, sparlava con spirito dei professori e all’occasione sapeva anche dar loro risposte insolenti. Agile nella corsa? Questa poi. Bersagliato di domande, un giorno sbottò, Ma se vi dico che non so! Passava la maggior parte del tempo a scuola a motivo dei pensi e delle punizioni, e spesso non tornava a casa prima delle otto di sera. Si sottoponeva a queste vessazioni con filosofia. Ma non si lasciava picchiare. La prima volta che un maestro, esaurita la pazienza e gli argomenti, mosse verso Sapo con in mano la bacchetta, questi gliela strappò di mano e la gettò attraverso la finestra, che era chiusa perché era inverno. C’era di che espellerlo. Ma Sapo non venne espulso, né allora né poi. Adesso cerco, a mente fredda, le ragioni per cui Sapo non venne espulso, mentre se lo meritava ampiamente. Perché voglio il meno possibile d’ombra, nella sua storia. Una piccola ombra, in sé, sul momento, non è nulla. Non ci si pensa piú, si continua, nel chiaro. Ma io la conosco, l’ombra, essa si accumula, si fa piú densa, poi all’improvviso deflagra e sommerge tutto.
Non sono riuscito a sapere perché non sia stato espulso. Sarò costretto a lasciare aperto quest’interrogativo. M’impongo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Malone muore
- Note