Sangue misto
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Sangue misto

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

In fuga dalla polizia degli Stati Uniti, Jack Burn ha catapultato la famiglia a Città del Capo con la speranza di iniziare una nuova vita. Luogo di richiamo per turisti, molti dei quali americani, la città offre un riparo perfetto e permette un facile anonimato.
Ma oltre le apparenze si rivela piena di rischi per chi non ne conosce le regole.
Sul suo territorio non si è ancora rimarginata la separazione tra la zona dei bianchi ricchi e le aree circostanti, i sobborghi operai e i Cape Flats, il quartiere-ghetto nel quale era stata segregata la popolazione di colore ai tempi dell'apartheid.
Burn si ritrova suo malgrado coinvolto nel conflitto tra le due realtà. Per proteggere la moglie incinta e il figlio piccolo è costretto a ricorrere alla forza uccidendo due gangster e attirando su di sé l'attenzione di Barnard, poliziotto folle e corrotto che per anni ha sfruttato il suo potere sulla povera gente. Contro questo nuovo nemico l'unico alleato è l'ex galeotto Benny Mezzosangue, assassino in cerca di una disperata quanto impossibile redenzione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806203375
eBook ISBN
9788858403013

1.

Dal terrazzo della casa sulle colline di Città del Capo, Jack Burn guardava il sole annegare nell’oceano. Il vento si stava alzando di nuovo, uno scirocco che gli ricordava i Santa Ana della sua California e trasformava la notte in una fornace, facendo stridere i nervi a tutta la città e costringendo polizia e ambulanze a invischiarsi nelle pessime scelte dei suoi abitanti.
Burn sentí il rombo potenziato di un’auto, seguito da una brusca frenata. I bassi degli altoparlanti pompavano un hip-hop da strada. Non proprio la colonna sonora di quel quartiere dell’élite bianca adagiato sulle pendici di Signal Hill. L’auto ripartí in una rapida retromarcia per poi fermarsi di nuovo poco lontano. Il motore si spense, e il rap fu interrotto a metà di un «vaffanculo». Burn guardò giú in strada, ma da quell’angolazione non riusciva a vedere la macchina.
Susan lo osservava dall’interno della casa, attraverso le portefinestre che si aprivano sul terrazzo.
– Vieni a mangiare, – gli disse, poi si voltò e scomparve nella penombra.
Burn tornò dentro e accese le luci. La casa era minimalista, sgargiante e ultramoderna. Proprio come il ricco tedeschino che gliel’aveva affittata per sei mesi prima di tornare a Stoccarda a guardare suo padre morire.
Susan portò il filetto in tavola, muovendosi con quella andatura obliqua e goffa che hanno le donne all’ottavo mese di gravidanza. Era bellissima. Minuta, bionda, con un volto che si rifiutava testardamente di ammettere i suoi ventott’anni. A parte il pancione enorme, era esattamente come sette anni prima. A Burn tornò in mente l’attimo in cui l’aveva notata: la sensazione che tutta l’aria gli fosse stata risucchiata dai polmoni, e quella strana certezza che un giorno l’avrebbe sposata. Ed era proprio quello che aveva fatto, nemmeno sei mesi dopo, scrollando le spalle al pensiero della differenza d’età.
Susan sembrava la stessa di allora, ma non lo era. La leggerezza se ne era andata, la risata facile solo un ricordo. Negli ultimi tempi sembrava in totale comunione con il suo bambino. Lo chiamava cosí, il suo bambino. Anzi, la sua bambina. Come se lui e Matt appartenessero a un’altra specie, non ammessa in quell’esclusivo club a due.
Burn si mise a tagliare il filetto con un coltello da carne, il sangue che si raccoglieva in una piccola pozza sul tagliere. Perfetto. Appena rosolato, come piaceva a tutta la famiglia. Matt se ne stava sdraiato sulla pancia di fronte alla tv al plasma, sintonizzata su Cartoon Network. Proprio come a casa.
– Ehi, vieni a mangiare, – disse Burn.
Matt fece per protestare, ma poi ci ripensò e andò a sedersi a tavola con indosso soltanto i bermuda. A quattro anni, era biondo come la madre ma lasciava già intravedere la struttura del padre.
Susan era seduta al suo posto, intenta a riempire i piatti di insalata. Non lanciò nemmeno un’occhiata a Matt. – Vatti a lavare le mani.
– Non sono sporche, – disse lui arrampicandosi sulla sedia. Le allungò verso la madre perché le ispezionasse. Lei lo ignorò. Non lo faceva apposta: non era piú sintonizzata sulla sua frequenza, tutto qui. Come se il figlio le ricordasse troppo il padre.
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Burn cercò di catturare lo sguardo di Susan, di riportarla in qualche modo tra loro. Ma lei continuava a fissare il suo piatto.
– Dài retta a tua madre, – disse con tono dolce, e Matt si diresse in bagno scivolando sui piedi nudi.
Burn stava ancora tagliando il filetto quando i due meticci entrarono dal terrazzo. Avevano entrambi la pistola, e la tenevano puntata a novanta gradi come in un film d’azione. Dal modo in cui ridevano, Burn capí che erano fatti di anfetamina.
La sera in cui i guai ebbero inizio, Benny Mezzosangue stava osservando la famiglia americana sul terrazzo della casa di fianco: l’uomo che sorseggiava il suo vino, qualche scorcio della donna bionda, il moccioso che correva avanti e indietro fra il terrazzo e la casa, la porta scorrevole spalancata sulla torrida notte estiva. Un’istantanea di un mondo che non aveva mai conosciuto.
Benny Mezzosangue era entrato e uscito di prigione senza sosta da quando aveva quattordici anni. Adesso, anche se non poteva esserne certo, doveva andare per i quaranta. Almeno, questo dicevano i suoi documenti. L’anno prima, quando gli avevano concesso la libertà condizionata dopo sedici anni filati nel carcere di Pollsmoor, aveva giurato a se stesso che non sarebbe mai piú tornato dentro. Qualsiasi cosa succedesse.
Ecco perché adesso faceva il turno di notte come guardiano in quel cantiere. La paga era ridicola, ma con la faccia che si ritrovava e quei tatuaggi osceni scavati nel corpo smilzo e nero, era già stato fortunato a trovare un lavoro. Gli avevano consegnato un manganello di gomma e un’uniforme scura troppo larga. E poi gli avevano dato Bessie. Una mezzosangue come lui, metà rottweiler, metà pastore tedesco. Era vecchia, puzzava, aveva le anche a fine corsa e dormiva quasi tutto il tempo, ma era l’unica cosa che Benny Mezzosangue avesse mai amato.
Lui e Bessie se ne stavano in cima all’ultimo piano della casa nuova, il tetto ancora aperto sulle stelle, quando sentirono l’auto. Era registrata a tutto volume, come le auto dei Cape Flats. Benny Mezzosangue andò sull’orlo del terrazzo e guardò giú: una Serie 3 rossa dei primi anni Novanta, lanciata sulla strada sotto di lui a una velocità decisamente eccessiva. L’uomo al volante schiacciò i freni proprio sotto il punto in cui era affacciato, e i copertoni larghi finirono sulla sabbia del cantiere, lanciando l’auto in testacoda. La Bmw ruotò su se stessa fino a trovarsi davanti all’ingresso del cantiere, dove si arrestò. L’uomo al volante spense il motore e l’hip-hop si azzittí.
Il silenzio era totale. Benny Mezzosangue poteva sentire i polmoni di Bessie sibilare nel sonno e il gocciolio del motore della Bmw che si raffreddava. Era teso. Aveva addosso quella sensazione antica che conosceva cosí bene.
Rimase nascosto a osservare i due uomini uscire dall’auto. Alla luce dei lampioni vide quanto bastava – i cappelli da baseball girati all’indietro, i vestiti larghi, la bandiera a stelle e strisce sulla giacca del piú alto – per capire che facevano parte degli Americani, la gang piú numerosa dei Cape Flats.
Il suo nemico naturale.
Benny era pronto ad accoglierli. Mise via il manganello ed estrasse il coltello dalla tasca che lo custodiva. Aprí la lama con destrezza. Se salivano lí su, li avrebbe spediti a rivedere le loro madri.
Ma i due erano diretti alla casa di fianco. Il piú alto spinse il compagno oltre il muro, e il piú piccolo si issò sul terrazzo come una scimmia, dopodiché allungò una mano per tirare su l’altro. Dal punto in cui era, Benny Mezzosangue non poteva vedere la famiglia americana, ma sapeva che doveva essere a tavola per cena, la porta scorrevole spalancata sulla notte.
Richiuse il coltello e lo fece scivolare di nuovo in tasca.
Benvenuti a Città del Capo.
Susan dava le spalle ai due uomini. Quando vide lo sguardo di Burn si voltò. Non ebbe il tempo di urlare. Quello piú vicino a lei, il piccoletto, le piazzò una mano sulla bocca e una pistola contro la testa.
– Stai zitta o ti ammazzo, brutta troia, – disse con un accento pesante, gutturale. Le sue braccia pelleossa erano coperte di tatuaggi da gang.
Il piú alto girò intorno al tavolo, facendo cenno a Burn con la pistola.
Burn mise giú il coltello e sollevò le mani, tenendole bene in vista. Cercò di mantenere un tono calmo. – Okay, non vogliamo guai. Vi daremo quello che volete.
– Puoi giurarci. Da dove venite? – chiese l’uomo avvicinandosi a Burn. Era lungo come un giocatore di basket.
– Siamo americani, – disse Burn.
Il piccoletto si mise a ridere. – Anche noi.
– Ja, siamo tutti americani qui dentro. Una grande famiglia felice, cazzo –. Lo spilungone spinse Burn con la canna della pistola, fermandosi alla sua destra dietro la sedia.
Il piccoletto tirò Susan in piedi. – Ehi, abbiamo una mammina qui.
Burn lo guardò infilare una mano sotto la veste di sua moglie, afferrarla all’inguine e strizzare. Susan chiuse gli occhi.
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Una coincidenza, pura e semplice.
Qualcuno aveva detto a Faried Adams che la sua ragazza, Bonita, era andata a vendere il culo a Sea Point invece di far visita alla madre in ospedale come doveva. A Faried non importava che Bonita fosse tornata a battere, ma gli importava molto che non gli stesse passando la sua parte di guadagni. E cosí voleva beccare la troia all’opera.
Perciò Faried lo spilungone era andato a bussare alla porta del suo socio, quel tappo di Ricardo Fortune. Rikki viveva in uno dei palazzi-ghetto di Paradise Park, dove il bucato pendeva da corde tese in mezzo ai corridoi e le scale puzzavano di piscio. E aveva un’auto. Purtroppo aveva anche una moglie, Carmen, che piagnucolava come una scrofa per ogni cosa. Era il motivo per cui Rikki la picchiava tutto il tempo. Faried avrebbe fatto lo stesso – e in effetti quella troia di Bonita si sarebbe ritrovata un occhio nero entro sera. Se era fortunata.
Lo spilungone mise un paio di bigliettoni in mano al piccoletto, e i due si spinsero con la Bmw fino a Sea Point. Percorsero piú volte la via della puttane, quasi sdraiati sui sedili bassi dell’auto, muovendo la testa al ritmo di Tupac. In strada c’erano alcune ragazze meticce, con il trucco pesante e i vestiti corti che coprivano a malapena le tubature, ma di Bonita nemmeno l’ombra.
– Ne ho abbastanza di ’sta merda, amico, – disse Rikki. – Andiamocene.
– Okay, senti l’idea. Guidiamo fino al Bo-Kaap. Ci vive mio cugino Achmat. Possiamo tornare qui piú tardi, e magari becchiamo Bonnie con un cazzo bianco in gola.
Rikki scosse la testa. – Non mi va di andare al Bo-Kaap, amico. Piuttosto a casa.
– Possiamo farci una boccia. E torniamo qui piú tardi.
– Credi che Achmat abbia del tik?
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– No, ce l’ho io.
– E perché cazzo me lo dici solo ora? – Fece inversione in mezzo alla strada, ignorando un pulmino che fu costretto a inchiodare.
Percorsero a tutta birra Glengariff Road, perché Rikki voleva svoltare su High Level, la via piú veloce per il Bo- Kaap. Ma il suo cellulare, un piccolo Nokia che aveva rubato da poco a un turista giú al Waterfront, esplose con le prime battute di Me against the World di Tupac. Rikki lo pescò da una tasca dei pantaloni, vide chi era e inserí la segreteria. Maledetto Gatsby. Lo sbirro voleva i soldi. Soldi che Rikki non aveva piú.
Distratto, mancò la svolta e finí sulla salita di Signal Hill.
– Hai superato High Level, – disse Faried.
– Lo so. Tagliamo di qua.
Rikki lanciò l’auto giú per una stradina stretta, fra le case da divo che si aggrappavano alla collina. Poi schiacciò i freni di colpo e la Bmw si fermò derapando.
– Che cazzo…? – disse Faried la pertica battendo la testa contro il soffitto dell’auto.
Rikki stava risalendo la stradina in retromarcia. – Ce l’hai l’arma?
– Tua madre ce le ha le mutande? – rispose Faried battendo una mano sulla Colt che teneva nella cintura. – Perché?
Rikki fermò l’auto e spense la radio. – Entriamo in quella casa –. Indicò una villa con il terrazzo ricavato sul garage.
Faried lo fissò. – Cazzo, fratello, sei impazzito?
– Una cosa veloce: dentro e fuori. Quei posti sono pieni di roba. E magari ci divertiamo anche un po’ –. Sorrise, mostrando i denti marci. – Ci fumiamo una boccia e lo facciamo.
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Faried ci pensò per un istante, poi scrollò le spalle. – Be’, perché no? Che cazzo.
Tirò fuori dalla giacca una busta di cristalli e la lampadina senza resistenza. Con mano esperta infilò l’anfetamina nel bulbo di vetro e lo passò a Rikki, che ci mise sotto l’accendino. Nel giro di qualche secondo, Faried stava succhiando una bella boccata di roba. Il suono che faceva contro il vetro era una specie di tik-tik, da cui il nome con cui era conosciuta nei Cape Flats. Faried trattenne il tik nei polmoni e passò la lampadina a Rikki, che succhiò a sua volta. Poi soffiò fuori uno sbuffo di fumo.
Niente come la droga di Hitler per metterti in umore da festa.
Il piccoletto, quello con la mano sotto il vestito di Susan, ondeggiava in modo osceno strusciandole contro le anche. Teneva la bocca aperta e gli si vedevano i denti anneriti sul davanti. Susan aprí gli occhi e guardò Burn.
Il tizio dietro di lui scoppiò a ridere. – Stasera ci divertiamo un po’.
Fu in quel momento che Matt rientrò di corsa nella stanza. Gli occhi dei due uomini volarono sul bambino, che si arrestò in scivolata e rimase a fissarli.
Questo diede a Burn l’occasione che gli serviva. Girandosi sulla sedia afferrò il coltello dal tavolo e lo piantò fino al manico nel petto dello spilungone. Il sangue eruttò come un geyser dal cuore squarciato. Burn si tirò in piedi, afferrò l’uomo prima che cadesse e usò il suo corpo come scudo. Sentí il contraccolpo quando venne centrato dalla pallottola del suo amico. Quindi gettò via il corpo e si lanciò in avanti, prendendo il piccoletto per la mano che reggeva la pistola. Il suo peso li scaraventò entrambi a terra. Burn torse il braccio dell’uomo e lo sentí spezzarsi. La pistola cadde rumorosamente sulle mattonelle.
Susan arretrò. Burn diede una ginocchiata nelle palle al piccoletto, facendolo arricciare come un verme in posizione fetale. Poi si guardò dietro le spalle. Lo spilungone era morto, il sangue che si allargava sul pavimento fino quasi ai piedi nudi di Matt. Burn vide il figlio immobile con gli occhi spalancati.
Allungò la mano verso il tavolo e prese un coltello da carne.
– Porta fuori Matt, – disse a Susan.
– Jack…
– Portalo fuori!
Susan attraversò rapidamente la stanza, afferrò il bambino e scomparve nel corridoio che portava alle camere.
Stringendo il coltello, Burn si inginocchiò sul piccoletto, che lo fissava con gli occhi spalancati. – Capo, non volevamo fare nulla…
Burn esitò solo un istante, poi si chinò sull’uomo e gli tagliò la gola.
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2.

Carmen Fortune stava dando da mangiare a suo figlio Sheldon. Sheldon aveva quattro anni e se ne stava steso nella sua piccola culla, le braccia e le gambe atrofizzate che si muovevano a scatti, gli occhi vuoti che roteavano senza sosta dentro le orbite. Il cibo gli scivolava continuamente fuori dalla bocca.
Era nato prematuro di tre mesi, cieco e deforme, con danni cerebrali estesi. Nessuno aveva idea di come e perché fosse sopravvissuto. Nessuno tranne Carmen. Lei sapeva che Dio l’aveva maledetta. Aveva fatto in modo che ogni volta che guardava suo figlio ricordasse tutto il tik che si era fumata quando lo portava in grembo. Sheldon era un costante promemoria dell’inferno che la attendeva un giorno.
Non fosse stato per il sussidio che lo stato le passava ogni mese per il bambino, Carmen gli avrebbe messo un cuscino sulla faccia, e nessuno avrebbe potuto biasimarla. Ma quell’inutile bastardo di suo marito, Rikki, si fumava tutti i soldi che riusciva a truffare o a rubare.
Che cazzo, lei c’era già all’inferno. Dio solo sapeva che non avrebbe potuto andarle peggio di cosí.
Anche se aveva vent’anni, ne dimostrava trenta. La sua faccia era livida e gonfia per le ultime botte ricevute. Rikki la picchiava perché non era in grado di dargli un figlio normale, uno che potesse mostrare orgoglioso ai suoi compari, come prova che non produceva solo mutanti. Cosí chiamava Sheldon: un fottuto mutante.
I medici le avevano detto che il suo utero era andato: non avrebbe piú avuto figli. Questo però Rikki non lo sapeva. L’avrebbe uccisa. Meglio continuare a prendere le botte.
Quando sentí i colpi alla porta, si disse che c’era solo un bastardo che avrebbe bussato con tanta violenza, solo quel bianco lardoso.
– Zio Fatty! – gridò all’uomo magro come un chiodo che se ne stava buttato davanti alla tv in sala con indosso solo un paio di mutande sporche. In mano teneva una busta di vino, che succhiava come una tetta. – Zio Fatty, apri quella cazzo di porta! – L’uomo borbottò qualcosa ma rimase dov’era.
I colpi continuarono. Carmen si chiuse la vestaglia e andò ad aprire. Gatsby, con il suo grasso e il suo fetore, riempiva tutto il corridoio.
– Non c’è, – disse Carmen.
Il poliziotto in borghese la spinse di lato ed entrò in casa. Senza dire una parola attraversò la piccola sala, ficcò la testa in cucina, poi si diresse verso l’unica camera. Carmen sentí sbattere la porta dell’armadio a muro, poi un rumore di vetri infranti. Il grassone bianco tornò in sala, i polmoni che gli fischiavano come un’armonica da quattro soldi.
Carmen lo guardò con le mani sui fianchi. – Te l’avevo detto.
– Dov’è? – Gatsby si fermò a un centimetro da lei, colpendola in volto con il suo alito schifoso. Aveva dei pezzi di cibo sui baffi.
– E che cazzo ne so io? È uscito con Faried...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. 33