1.
Incominciò mentre George si stava provando un vestito nero da Allders, la settimana prima del funerale di Bob Green.
Non era stata la prospettiva del funerale a metterlo in subbuglio. Né la morte di Bob. A essere sincero, aveva sempre trovato un po’ pesante la bonarietà cameratesca di Bob, e sotto sotto si sentiva sollevato di non dover piú giocare a squash. Inoltre il modo in cui era morto Bob (un attacco di cuore mentre guardava alla televisione la regata Oxford-Cambridge) era stranamente rassicurante. Susan era tornata da casa di sua sorella e lo aveva trovato lungo disteso al centro della stanza, con una mano sugli occhi e un’aria talmente placida da farle pensare lí per lí che stesse facendo un sonnellino.
Certo, doveva essere stato doloroso. Ma si può far fronte al dolore. E poi, presto intervengono le endorfine, seguite da quell’impressione della vita che ti passa davanti agli occhi provata da George stesso qualche anno prima, quando era caduto da una scala a pioli fratturandosi il gomito sul giardino roccioso e perdendo i sensi: un’impressione che non ricordava come sgradevole (chissà perché, aveva incluso una veduta molto vivida del Tamar Bridge di Plymouth). E probabilmente lo stesso valeva per quel tunnel di luce intensa, mentre gli occhi si spengono – data la quantità di persone che sentono la chiamata degli angeli e poi si svegliano trovando un medico fresco di laurea chino su di loro con il defibrillatore.
E dopo… niente. Sarebbe stata la fine.
Certo, era troppo presto. Bob aveva sessantun anni. E sarebbe stata dura per Susan e i ragazzi, anche se Susan sarebbe rifiorita, ora che poteva finire le frasi da sé. Ma in complesso sembrava un buon modo di andarsene.
No, era stata la lesione a prostrarlo.
Si era tolto i calzoni e stava infilandosi quelli del vestito, quando notò sul fianco una piccola escrescenza ovale di carne piú scura della pelle circostante, che si stava lievemente squamando. Provò una nausea tremenda e fu costretto a inghiottire una modica quantità di vomito risalitogli al fondo della bocca.
Cancro.
Non si era mai sentito cosí da quando la Fireball di John Zinewski aveva scuffiato, qualche anno prima, e lui si era trovato in trappola sott’acqua, con la caviglia annodata nel cappio di una cima. Però lí era durato al massimo tre o quattro secondi. E stavolta non c’era nessuno ad aiutarlo a raddrizzare la barca.
Avrebbe dovuto suicidarsi.
Non era un pensiero confortante, ma era una cosa che poteva fare, e questo gli dava l’idea di un minimo controllo sulla situazione.
L’unico problema era il come.
Saltare da un edificio alto era una prospettiva spaventosa: spostare il proprio baricentro in fuori, sopra il bordo del parapetto, con la possibilità di cambiare idea a metà caduta. E l’ultima cosa di cui aveva bisogno ora era altra paura.
Per impiccarsi ci voleva un equipaggiamento, e una pistola non la possedeva.
Se avesse bevuto abbastanza whisky sarebbe riuscito a raccogliere il coraggio necessario per andare a schiantarsi in automobile. Sulla A16, da questa parte di Stamford, c’era un grosso muro in pietra. Poteva andargli contro a centocinquanta all’ora senza nessun problema.
Ma se i nervi lo avessero tradito? Se fosse stato troppo sbronzo per controllare l’auto? E se qualcuno fosse sbucato dal viale? Se avesse ucciso altre persone, e lui fosse rimasto paralizzato e fosse morto di cancro in prigione su una sedia a rotelle?
– Signore?… Le dispiace rientrare in negozio con me?
Un ragazzo di una ventina d’anni stava fissando intensamente George. Aveva i basettoni rossicci e una divisa blu di varie taglie troppo abbondante.
George capí di essere accovacciato sulla soglia piastrellata davanti al negozio.
– Signore…?
George si alzò in piedi. – Oh, mi rincresce.
– Le spiacerebbe venire con me?
George abbassò gli occhi e vide che indossava ancora i calzoni del vestito, con la patta slacciata. Si abbottonò in fretta. – Ah, sicuro.
Ripassò dalla porta e si diresse tra le borsette e i profumi verso il reparto abbigliamento maschile, con la guardia giurata al suo fianco. – A quanto pare, ho avuto un mancamento.
– Temo che di questo dovrà parlare con il direttore, signore.
I pensieri cupi che avevano affollato la sua mente pochi secondi prima sembravano risalire a moltissimo tempo addietro. È vero, si sentiva un po’ malfermo sulle gambe – come quando, per esempio, ci si affetta un dito con lo scalpello, ma date le circostanze stava sorprendentemente bene.
Il direttore dell’abbigliamento-uomo era in piedi di fianco a una rastrelliera di pantofole, con le mani incrociate sul bassoventre. – Grazie, John.
La guardia giurata gli accennò un ossequioso saluto, poi fece dietrofront e si allontanò.
– Dunque, Mr…
– Hall, George Hall. Io le domando scusa, vede…
– È meglio che parliamo un momento nel mio ufficio, – disse il direttore.
Poi arrivò una donna con in mano i calzoni di George. – Li ha lasciati nello spogliatoio. Con il portafoglio in tasca.
George colse la palla al balzo. – Temo di avere avuto una specie di blackout. Mi dispiace di aver dato disturbo.
Com’era bello parlare con altre persone. Loro che gli dicevano qualcosa. Lui che rispondeva qualcosa. Il ticchettio costante della conversazione. Avrebbe potuto continuare cosí per tutto il pomeriggio.
– Si sente bene, signore?
La donna gli appoggiò la mano aperta sotto il gomito e George scivolò di traverso su una sedia che sembrava piú solida, comoda e servizievole di qualunque altra sedia a sua memoria.
Per qualche minuto le cose si fecero un po’ vaghe.
Poi gli misero in mano una tazza di tè.
– Grazie –. Bevve. Come tè non era buono, ma era caldo e stava in una tazza di porcellana appropriata, confortante da tenere in mano.
– Desidera che le chiamiamo un taxi?
Probabilmente, pensò, sarà meglio che torni a casa e mi compri il vestito un altro giorno.
2.
Decise di tacere sull’incidente con Jean. Perché poi lei non avrebbe piú parlato d’altro, e non era una bella prospettiva.
A giudizio di George, il fatto di parlare era sopravvalutato. Ultimamente non potevi accendere la Tv senza vedere qualcuno discutere della sua adozione, o spiegare perché aveva accoltellato il marito. Non che lui fosse ostile al dialogo con gli altri. Era uno dei piaceri della vita. E tutti, di quando in quando, avevano bisogno di lagnarsi sopra una pinta di Ruddles per i colleghi che non facevano abbastanza spesso la doccia, o per i figli adolescenti che erano rincasati ubriachi in piena notte e avevano vomitato nella cesta del cane. Ma non cambiava nulla.
Il segreto per essere felici, pensava George, stava nell’ignorare del tutto tante cose. Come si potesse lavorare nello stesso ufficio per dieci anni, oppure crescere dei figli, senza archiviare in via definitiva certi pensieri nei recessi della propria mente, era al di là della sua comprensione. E in quanto all’ultimo, macabro giro, quando hai il catetere e non hai piú i denti, la perdita della memoria sembrava un dono divino.
Disse a Jean che non aveva trovato niente da Allders, e sarebbe tornato in centro lunedí, quando non doveva condividere Peterborough con altre quarantamila persone. Poi andò di sopra, in bagno, e applicò un grosso cerotto sulla lesione per non vederla piú.
Dormí sodo per quasi tutta la notte, svegliandosi soltanto quando Ronald Burrows, il suo insegnante di geografia morto da anni, appiccicò una striscia di nastro adesivo industriale sulla bocca di George e gli piantò con il martello un lungo chiodo metallico nel torace. Strano, ma era l’odore a perturbarlo maggiormente: un odore simile a quello di un gabinetto pubblico di dubbia pulizia che fosse stato usato di recente da un individuo molto malato, un odore soffocante, di curry, che perdipiú sembrava provenire da una ferita nel suo stesso corpo.
Fissò gli occhi al paralume con nappe sopra la sua testa e attese che il cuore rallentasse i battiti, come un uomo tirato fuori da un edificio in fiamme che non riesce ancora a capacitarsi di essere salvo.
Le sei.
Si alzò dal letto e scese al pianoterra. Mise due fette di pane nel tostapane e tirò giú la macchinetta per il caffè espresso regalata loro da Jamie per Natale. Era un aggeggio ridicolo, che tenevano in mostra per diplomazia. Ma adesso fu piacevole riempire d’acqua il serbatoio, versare il caffè nell’imbuto, infilare al suo posto la guarnizione di gomma e avvitare le parti in alluminio. Ricordò stranamente a George la macchina a vapore con cui aveva avuto il permesso di giocare durante la famigerata visita a Poole del 1953. Ed era molto meglio che starsene seduto a guardare gli alberi in fondo al giardino ondeggiare come mostri marini mentre un bollitore scaldava l’acqua.
La fiamma azzurra sibilò sotto la base metallica della macchinetta. Campeggio domestico. Un pizzico di avventura.
Il pane tostato balzò fuori.
Naturalmente quello fu il weekend in cui Gareth bruciò la rana. Che strano, a ripensarci, che tutto il corso di una vita dovesse palesarsi cosí nitidamente in cinque minuti durante un pomeriggio d’agosto.
Spalmò il pane di burro e marmellata mentre il caffè iniziava a gorgogliare. Lo versò in una tazza e bevve un sorso. Era forte da accapponare la pelle. Aggiunse latte finché prese un color cioccolato, poi si sedette e si mise a sfogliare il bollettino RIBA lasciato lí da Jamie nella sua ultima visita.
Casa Azman Owen.
Serramenti di legno, porte a vetro scorrevoli, sedie da pranzo Bauhaus, un vaso solitario di gigli bianchi sul tavolo. Dio santo. A volte avrebbe dato qualsiasi cosa per vedere in una foto di architettura d’interni un paio di mutande da uomo abbandonate.
«Al fine di minimizzare le soffiature e produrre una qualità di compattazione omogenea, il capitolato prevedeva vibratori elettrici interni ad alta frequenza e ad ampiezza costante…»
La casa sembrava un bunker. Cosa c’era nel calcestruzzo? Fra cinquecento anni la gente se ne sarebbe stata sotto i ponti della M6 a contemplare le colorazioni?
Depose la rivista e attaccò il cruciverba del «Telegraph».
Nanosecondo. Bisanzio. Ciuffo.
Jean comparve alle sette e mezza nel suo accappatoio viola. – Dormito male?
– Mi son svegliato alle sei. E poi non ce l’ho fatta a riaddormentarmi.
– Ho visto che hai usato quell’affare di Jamie.
– Non è male, in effetti, – rispose George, anche se a dire il vero la caffeina gli dava il tremore alle mani, e la sensazione sgradevole che si prova quando si è in attesa di una brutta notizia.
– Posso portarti qualcosa? O sei a posto?
– Magari un po’ di succo di mela. Grazie.
Certe mattine la guardava e provava un lieve senso di repulsione per quella donna grassoccia e invecchiata, con i capelli da megera e la pappagorgia. Poi, in mattine come questa… Forse «amore» non era la parola giusta, anche se un paio di mesi prima avevano avuto la sorpresa di svegliarsi all’unisono in quell’hotel di Blakeney e accoppiarsi senza nemmeno essersi lavati i denti.
Le mise un braccio attorno alla vita, e lei gli accarezzò distrattamente il capo come si può accarezzare un cane.
In certi giorni essere un cane sembrava una cosa invidiabile.
– Dimenticavo di dirti… – Si scostò da lui. – Ieri sera ha telefonato Katie. Vengono a pranzo.
– Lei e chi?
– Lei, Jacob e Ray. Katie pensava che sarebbe stato carino passare la giornata fuori Londra.
Porca vacca. Ci mancava solo questo.
Jean si chinò verso l’inte...